Writer Officina - Biblioteca

Autore: Stefano Soli
Giorno 122
Post Apocalittico
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Giorno 122
CITTA'

SVEGLIA
Il sole sorgeva dietro le montagne dissipando ombre e oscurità. Stingeva, decolorava la luce gialla dei lampioni ancora accesi. Verniciò di azzurro intenso il cielo rivelando la metropoli, le fabbriche, i palazzi, i giardini e le sue strade.
Trilli di sveglie strappavano i cittadini ai loro sogni, ai loro incubi. La gente si destava, lasciava il tepore del giaciglio. Le tapparelle venivano alzate, gli umani scrutavano fuori, si preparavano mentalmente a un giorno nuovo, tutto da vivere, da costruire. Le case si animavano, gli impianti idraulici pompavano acqua dal sottosuolo, i termosifoni diffondevano calore. L'aroma acre del caffè saturava le cucine.
Tubetti di dentifricio venivano spremuti. Saponi, schiume da barba, cosmetici e acque di colonia. Tonnellate di orina e feci iniziarono il loro viaggio verso il mare. Mani spalancavano armadi, frugavano cassetti alla ricerca della cosa giusta da indossare, dell'accessorio più adeguato. Aprendo con le notizie del momento, le voci delle televisioni accompagnavano i gesti abituali.
Edicole e bar sollevavano le saracinesche in attesa dei primi clienti. I nottambuli cedevano il posto ai mattinieri, per qualcuno la giornata iniziava, per qualcun'altro era finita.
Anziani imbacuccati in pesanti sciarponi facevano capolino dai portoni tenendo al guinzaglio i loro cani. Un vento caldo, inatteso, africano, li aggrediva in viso e confondeva l'equilibrio. I vecchi avanzavano con difficoltà imprecando contro i meteorologi che non l'avevano previsto. Contro il governo e contro il padreterno, contro la vecchiaia. Runners di ogni età affollavano parchi e prati. Muniti di scaldamuscoli e cuffiette fendevano un'aria arroventata, densa e opprimente, che non trovava la strada dei polmoni.
Il clangore ritmico e cadenzato dei furgoni della nettezza urbana, quasi una musica, si faceva meno percepibile, annacquato da mille altri rumori. Telecomandi venivano azionati, aprivano saracinesche e portiere di veicoli. Motori venivano accesi. Le auto manovravano, abbandonavano i parcheggi faticosamente conquistati la sera precedente. Sbucavano sgasando dai garage e come globuli impazziti si riversavano in strada, intasavano le arterie. Rapiti dalle folate incandescenti, i loro miasmi fetidi si disperdevano nell'aria.
Figure solitarie percorrevano veloci i marciapiedi, la testa bassa e il passo cadenzato, ciascuno diretto alla sua meta. Le scale mobili inghiottivano e sputavano persone, gli autobus partivano già carichi, la gente si accalcava alle fermate, spintonava per conquistare un posto, la battaglia quotidiana aveva inizio. Madri riluttanti si separavano dai propri cuccioli negli asili nido. Liceali impertinenti e incappucciati sostavano davanti agli ingressi delle scuole, progettando assemblee e autogestioni. Su tutto e tutti il vento infuriava. Scompigliava acconciature, sibilava nelle orecchie, obbligava a strizzare le palpebre e a curvare in basso il viso. Rendeva nervosi, suscettibili gli umani.
Concentrati su se stessi, focalizzati sulle proprie aspettative, uomini e donne si affiancavano e si superavano, si sfioravano e si urtavano. Senza guardarsi, senza riconoscersi.

PREFERENZIALE
Mancavano meno di 30 minuti alla partenza, Riccardo e Chiara erano intrappolati in un groviglio di lamiere, inchiodati a pochi passi dalla meta.
La manifestazione aveva congestionato tutta l'area. Il corteo si trascinava con lentezza esasperante fra slogan, fischi e rulli di tamburi. Ogni giorno ce n'era almeno una, la capitale era ostaggio del malcontento di tutta la penisola.
Riccardo si voltò verso sua moglie.
“Allora... s'è capito questi cosa vogliono?”
Chiara digitava freneticamente sul display del cellulare.
“No, non dice niente.”
Riccardo tornò a guardare avanti. Poveri fessi senza speranza, pensavano davvero che la loro opinione avesse un peso? L'euro li aveva fottuti. Il potere d'acquisto dei salari era crollato, chi viveva del proprio lavoro aveva subito un drastico ridimensionamento. Niente più viaggi esotici, abiti firmati o cene al ristorante. Per chi disponeva di beni immobiliari era diverso: i prezzi delle case erano schizzati alle stelle, scavando un solco incolmabile tra proprietari e non abbienti.
Riccardo represse a fatica uno sbadiglio, la notte era stata travagliata. La gattina Milky, di solito tranquilla, lo aveva tormentato, saltava sul letto di continuo, mordeva gli alluci sotto al piumino e lo colpiva in viso con piccole musate. Continuava a miagolare in modo strano, inusuale, versi piccoli e brevi, con una nota di urgenza nella voce. Chiara, il pieno di gocce e i tappi infilati nelle orecchie, non ne aveva risentito.
Alle 4 del mattino Riccardo aveva capitolato. Digitato il codice per disinserire l'allarme dell'appartamento, l'aveva fatta uscire sul terrazzo. Spirava un vento caldo e appiccicoso, lo stesso che ora faceva mulinare in aria cartacce e foglie secche. La micia aveva percorso il cornicione. Prima di dileguarsi nell'oscurità, Milky si era voltata e lo aveva fissato. A Riccardo era parso una sorta di addio e la mattina lei non era rientrata per mangiare...
Riccardo afferrò il cellullare, scandì le parole per impartire il comando vocale.
“Chiamare-casa.”
La domestica rispose al terzo squillo.
“Anna, ancora niente?”
“No, signore.”
“Mi chiami appena torna. “
Riccardo interruppe la comunicazione. Chiara gli poggiò una mano sulla coscia.
“Tranquillo, lo sai come sono i gatti. Piuttosto... guarda se questi maledetti non ci fanno perdere il treno.”
Riccardo sentì mordere al basso ventre. Avevano lavorato mesi per questo appuntamento, non si sarebbe fatto intralciare il passo da nessuno. Decise di raggiungere la stazione dal lato opposto dell'ingresso. Voltò la testa per controllare che non sopraggiungesse qualche furioso su due ruote, solo dei folli potevano rischiare la pelle tutti i giorni in mezzo al traffico impazzito, sterzò tutto a sinistra e con un colpo di gas fece stridere le gomme. Una rapida piroetta su se stessa e la Jaguar schizzò via, imboccando la preferenziale contromano.
“Ma che fai?”
Voleva essere un rimprovero ma nella voce della moglie Riccardo percepì l'ammirazione. Dietro di sé udì un fischio rabbioso. Incorniciato nello specchietto retrovisore un vigile urbano annotava furiosamente la sua targa. Pazienza per i soldi della multa, i punti sulla patente li avrebbe fatti togliere a qualche suo impiegato.

MAESTRA
Il pullman raggiunse il capolinea.
Arianna scese senza fretta, felice di ritrovarsi al centro di quella enorme piazza piena di autobus. Una zona franca, il cui accesso era inibito alla mobilità privata. Nulla aveva il potere di deprimerla quanto la vista di una fila di auto incolonnate che procedevano a passo d'uomo. Era la prova lampante della stupidità umana, almeno una delle tante.
In piedi ferma sulle strisce, contò undici vetture prima che un automobilista si degnasse di fermarsi per farla attraversare.
Arianna ricambiò la gentilezza con un sorriso luminoso. Gentilezza? A questo ci avevano ridotto. Scambiare per cortesia il semplice rispetto di un diritto.
Per evitare di strapagare qualche panino muffo o peggio ancora intossicarsi al vagone ristorante puntò decisa la pasticceria. Ne uscì con un sacchetto di lingue di gatto appena sfornate.
Passando oltre fu catturata dal profumo speziato che proveniva da una rosticceria. Anche se era presto per il pranzo e non aveva tanta fame, Arianna non seppe resistere alla vista della carne che rosolava sul girello.
Entrò e fu accolta con sollecitudine e cortesia. Il locale era gestito da una giovane coppia di arabi, un bimbo paffuto giocava a un tavolino con il Lego. Arianna ordinò un kebab senza cipolle e senza salse, la carne era fantastica, in pochi morsi divorò il panino.
La tanto vituperata multiculturalità rappresentava una ricchezza, un ampliamento del pensiero. Questo era uno dei suoi cavalli di battaglia, un messaggio che quotidianamente Arianna si sforzava di recapitare ai suoi alunni. Ma era una lotta impari, contro i modelli assurdi proposti da genitori e social, auto di lusso, cocaina, sale giochi e video porno. Contro la mentalità imperante dell'arrivare ad ogni costo, del successo come salvacondotto per ogni nefandezza. Del resto bastava vederli i genitori che si presentavano ai colloqui, uomini pieni di boria, uno aveva persino una pistola tatuata in faccia, donne plastificate, pronte a proteggere e giustificare i propri figli davanti a ogni evidenza. Disposte a perdonare loro ogni colpa, incoraggiando la prevaricazione e fomentando la loro innata prepotenza. Con buona pace dell'educazione e del vivere civile.
Anche i colleghi, bidelli, professori e persino i suoi migliori amici, sotto una coltre di falso progressismo, temevano la diversità. Il razzismo, non più manifesto, aveva assunto nuove e più odiose forme, tutti finivano inesorabilmente per ricadere nel facile gioco di scagliarsi contro gli ultimi.
Ognuno sempre pronto a lamentarsi per gli altrui comportamenti, senza capire che sono gli atteggiamenti posti in essere a determinare la realtà che ci circonda.

SCUSI
“Scusi...”
L'uomo con la valigia rallentò appena il passo, portò la mano al viso per schermare gli occhi dal pulviscolo sollevato dal vento e squadrò lo sconosciuto che gli veniva incontro. La stazza imponente di Luciano ispirava un'istintiva diffidenza.
“... avrebbe qualche spiccio?”
L'uomo riprese l'andatura senza prendersi la briga di rispondere. Luciano non ne fu turbato, aveva fatto il callo a ogni tipo di reazione. Inoltre non aveva necessità impellenti. In tasca aveva oltre cento euro racimolati mendicando, il tizio lo aveva approcciato per pura abitudine, una sorta di tic, un gesto meccanico.
Era stato difficile sbarazzarsi di tutti i principi che gli avevano inculcato ma a poco a poco aveva trovato la sua strada, l'elemosina era diventata una professione stabile, un mestiere come un altro che gli dava da vivere. Un lavoro che aveva l'immenso vantaggio di non costringerlo a sottostare a orari né agli umori di un padrone.
Ciò non valeva per tutti i colleghi. Sempre più spesso Luciano vedeva mendicanti laceri aggirarsi ai semafori con lo sguardo vuoto, come zombie, i piedi nudi, lerci, le barbe e le capigliature incolte e dei soprabiti consunti indossati a pelle in tutte le stagioni. Un look studiato a monte, stabilito a tavolino da qualcuno perché evidentemente giudicato più efficace e produttivo. Il franchising della questua, l'industrializzazione dell'accatto.
Luciano era un free-lance, un artigiano. Il look era modesto ma curato. Faceva la doccia tutti i giorni a casa di sua madre, esclusi i week-end, quando il nuovo compagno di lei rientrava dal lavoro.
Essere italiano era un vantaggio, l'immedesimazione scattava spontanea, naturale. Se era capitato a lui, perché non a uno di loro?
Di volta in volta Luciano imbastiva delle storie, sempre diverse, calibrate in funzione di chi aveva davanti. La moglie morta di parto, il lavoro perduto, un equivoco giudiziario, il fallimento di un'impresa, una patologia invalidante. La macchina in panne l'aveva depennata. Spesso otteneva offerte di passaggi anziché di denaro e poi la gente voleva storie forti. In cambio dell'obolo, i tizi a cui si rivolgeva esigevano di sentirsi fortunati. Ormai padroneggiava a tal punto gli elementi che spesso li combinava creando storie nuove, sempre più desolanti. Ma c'era una controindicazione: a volte qualcuno si impietosiva per davvero, finiva per interessarsi sinceramente a lui, alle sue traversie e Luciano si ritrovava invischiato in penose, spiacevoli conversazioni mentre mirava solo al contenuto della borsa.
Perso nelle sue riflessioni, quasi si fece sfuggire la donna che veniva avanti controvento. Sessant'anni, forse di più, lottava contro le raffiche per trattenere sulla testa un ridicolo cappello. Le scarpe a prima vista nuove apparivano sformate ai lati, l'acconciatura era da brividi, il cappotto un avanzo di grande magazzino passato di moda. Era il suo target ideale, il tipo di preda a cui Luciano riusciva sempre a scucire qualche cosa. Luciano la approcciò con tono umile e al contempo dignitoso.
“Signora, mi scusi...”

MANIFESTAZIONE
Mancavano ancora un paio di chilometri al raduno nella piazza. La manifestazione si stava protraendo oltre il sopportabile.
Paolo aveva male ai piedi. Era distrutto per la sveglia presto, le tempie pulsavano e le orecchie dolevano per colpa del cretino che aveva avuto la pensata dei fischietti. Un fumo acre, nero, si alzava dai cassonetti incendiati e irritava le mucose. Quel vento feroce e maledetto che imperversava dal mattino glielo sbatteva dritto in faccia.
Nere figure si unirono al corteo alla spicciolata, indossavano protezioni e caschi integrali, erano i professionisti dello scontro. Sulle forze dell'ordine, ammassate accanto ai blindati, piovvero uova e altri oggetti contundenti. Protetti dagli scudi trasparenti, i celerini si agitavano come cavalli sulla linea di partenza in fremente attesa del segnale, per dare sfogo all'aggressività repressa.
Per carità! Ci mancava solo di essere arrestato o, peggio ancora, percosso dai manganelli degli agenti. L'importante era farsi vedere e Paolo lo aveva fatto. Centinaia di scatti lo immortalavano in bella vista nelle prime file, il pugno chiuso e l'espressione bellicosa, intento a scandire slogan contro le lobby dei padroni. Nessuno avrebbe notato la sua assenza.
Paolo controllò l'orologio. Se si muoveva subito poteva prendere il treno delle 12 e 15 e essere a casa per l'ora di cena. La mente andò alle lasagne preparate da sua madre. Alla partita della juve che avrebbe visto al bar del paese, buttando giù un paio di birre con gli amici, al meritato sonno ristoratore, ben imbustato nel suo piumone morbido.
Paolo rallentò il passo facendosi inglobare dalla massa vociante. Osservava i volti deformati dalla rabbia chiedendosi quanto avesse da condividere con molti di quegli scalmanati.
Si fermò e ruotò lo sguardo intorno come a cercare un conoscente. Scambiò qualche cenno di saluto mentre la marea umana gli scivolava addosso come acqua. E finalmente si ritrovò nelle retrovie. Si accucciò per allacciare una scarpa già allacciata, voltò le spalle e via di gran carriera.
Entrò in stazione e finalmente percepì l'assenza del vento. Fu avvolto dal vocio e dai colori dei negozi, dall'atmosfera di eccitazione e frenesia che sempre permea questi luoghi. L'umore cambiò drasticamente, per la prima volta nella giornata, Paolo si sentì allegro e pieno di ottimismo, la prova era stata superata. Il suo partito perdeva consensi a vantaggio di altri movimenti più aggressivi, intrappolati in una ragnatela di recriminazioni e questioni annose, i leader apparivano inadeguati, sorpassati, logori, incapaci di parlare alla pancia dalla gente. Si ricercava disperatamente nuova linfa, volti sconosciuti al grande pubblico per restituire dinamismo e credibilità all'organizzazione.
Era il momento giusto per emergere, per scalare posizioni e Paolo si era appena appuntato al bavero un'altra medaglietta.

DIVINO
A Padre Antonello sudavano le ascelle.
Era un prete moderno, per nulla incline alla superstizione, capace di discernere fra Spirito Santo e un banale spostamento d'aria, fra significato e mito eppure questo vento rabbioso, indisponente, sembrava contrastare il suo cammino, opporsi alla sua azione. Sembrava ammonirlo: pretuncolo, ritorna sui tuoi passi.
L'abito talare agiva come una vela. Le folate calde gonfiavano la sottana o la schiacciavano contro le gambe divaricate per il passo facendolo sbandare. Poi c'era l'imbarazzo che girare bardato in quel modo gli procurava, Antonello era solito indossare il clergy-man, la veste gli era sempre apparsa un'ostentazione inutile. Ma oggi andava al nord per incontrare il vescovo e sapeva quanto il vecchio tenesse al rispetto delle tradizioni. Un sacerdote è come un poliziotto o un vigile del fuoco, soleva ripetere Don Luca, devi poterlo individuare a colpo d'occhio in mezzo a una folla di persone.
Don Luca, la sua guida spirituale, colui che lo aveva forgiato come uomo e come prete. L'idea di ritrovarsi al suo cospetto, il pensiero di dover affrontare il suo sguardo severo e inquisitorio agitava Antonello nel profondo. Andava a dirgli che la sua fede vacillava, che di questo mondo stava smarrendo il senso. Un tempo tutto era apparso chiaro, ma ora, nelle dispute, il sacerdote non sapeva più da quale parte stare. Si ritrovava a dar ragione all'una e all'altra, e subito dopo torto a entrambe.
Le parole che lanciava dal pulpito mancavano di sincerità e di mordente. Per controbattere alle obiezioni dei fedeli doveva far ricorso a risposte apprese sui libri e non al cuore.
Un gruppo di ragazzine adolescenti veniva avanti sospinto dal vento. Si accorsero di lui e lo puntarono sfacciatamente. Antonello era ancora giovane, un uomo piacente sulla soglia dei quaranta, il fisico asciutto, le tempie appena brizzolate. Conosceva l'effetto che faceva su alcune parrocchiane che cercavano il suo conforto di continuo. Quelle donne parevano godere a stuzzicarlo nel sacro atto della confessione, indugiando e soffermandosi su dettagli intimi e indecenti che avrebbero tranquillamente potuto essere omessi. Intrappolato nel mezzo metro quadro del confessionale, alle prese con erezioni persistenti, dolorose, lui non poteva fare altro che distogliere lo sguardo dal rosso della bocca incorniciata nella grata. Di tutte le rinunzie il sesso era stata la più grande.
Le ragazzine gli furono addosso saltellando come cavallette. Indossavano minigonne inguinali e fuseaux che aderivano alla pelle come bucce. Presero a tormentarlo con richieste fittizie di informazioni, un mero pretesto per sbattergli in faccia i seni alzati dai toppini. Le sgualdrinelle ridevano di lui più o meno apertamente, si liberò di loro in fretta e proseguì per la sua strada.
Un tempo Antonello aveva creduto che dai giovani sarebbe partita la rinascita, invece nascevano già guasti, contaminati, marci.
Più avanti si accese un parapiglia. Due tizi si fronteggiavano a colpi di insulti. Le vene del collo ingrossate, le teste incassate nelle spalle, i pugni protesi, colti nell'atto di scagliarsi come due caproni.
Come potevano gli uomini essere fatti a immagine e somiglianza del Divino? E se davvero era così, nostro Signore differiva molto dall'idea che padre Antonello ne aveva sempre avuto.

Stefano Soli

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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