Scardinare i soprusi di una morale delirante e accogliere scelte felici.
Ho letto infinite volte negli occhi delle mie coetanee l'ombra del disagio e dell'inadeguatezza, di fronte a una società sempre pronta a giudicare, quando si tratta di scelte legate alla maternità. La donna naufraga sulla zattera del più debole e diventa oggetto di una violenza psicologica inaccettabile. Tale violenza la vessa sin da giovanissima, quando le si pone sulle spalle il fardello dell' autorealizzazione a ogni costo; poi la infilza senza remore, allorché i tempi biologici della procreazione vanno in scadenza. Il femminile è la grande vittima del giudizio morale che, pronto a inquadrarlo nell'icona della figura materna di provenienza cattolica, impone di conciliare l'obbligo procreativo con l' imprescindibile necessità di provvedere al proprio sostentamento. In tal modo la donna diviene pur sempre attaccabile, sia che si dimostri feconda ma incapace di realizzarsi professionalmente, sia che si dimostri economicamente indipendente, ma incapace di assolvere a quella richiesta di fertilità avanzata da una società antropocentrica. Se si mettono da parte i falsi intellettualismi e si pone attenzione alla realtà, si dovrà ammettere che realizzazione professionale e maternità sono due elementi spesso non conciliabili, che impongono una dolorosa scelta. Scelta che porta talvolta al fallimento congiunto di entrambe le opzioni. Mi chiedo cosa resti a una persona se le viene strappata la possibilità di strutturare se stessa attraverso il lavoro, l'indipendenza e la famiglia. Noi della “Generazione senza figli” siamo come l'Odradek di Kafka, quell'oggetto simile in tutto e per tutto a un uomo, che appare però privo di senso. - Può morire? - si domanda Kafka - Tutto ciò che può morire ha avuto un tempo una specie di meta - . Qual è la meta, qual è il senso di questa mia generazione? Per anni ho torturato il mio Io più profondo con questa domanda. Mi sono ritrovata a scontrarmi con un dovere di procreazione, privo di ogni diritto, che ha sortito in me un profondo senso di repulsione; finché la risposta, affacciatasi come un fievole lanternino, è deflagrata con veemenza e mi ha spinta a considerare diversamente il concetto di donna, e di famiglia, sulla strada tortuosa della felicità. Per far ciò, è necessaria l'analisi storica e contingente del grande tabù costruito attorno al concetto di maternità. Partiamo da una serrata critica al senso comune, inteso come quella vocina che ci illudiamo provenga da noi stessi, ma in realtà è imposta da una società che vuole indirizzarci su vie obbligate. Il senso comune ci spinge a volgerci verso il mondo con occhi bendati, arroccandoci su posizioni insostenibili, come quella che individua nella natura un serbatoio di valori immutabili, mentre in essa nulla è assoluto, ma tutto si adatta al contingente, attraverso un processo evolutivo continuo. L'umanità, discostatasi dalla mentalità pragmatica della natura, è infelice proprio perché ignora il Panta Rei.
2. La morale assoluta.
Soggiorniamo nel “crepuscolo del dovere”. Così il filosofo novecentesco socialista Lipovetsky definì quel periodo storico nato a partire dagli anni ottanta, in cui l'uomo ha assunto la tendenza a concentrarsi sul presente, adottando una forma mentis di sostanziale indifferenza nei confronti degli altri. Un'epoca siffatta può essere definita anche “epoca dei diritti”, giacché ognuno vanta prerogative verso la comunità, ma accantona l'idea tradizionale del proprio dovere morale. “Il dovere per il dovere” kantiano ha intrapreso il viale del tramonto. Secondo l'originalità provocatoria espressa dal filosofo tedesco Friedrich W. Nietzsche in Genealogia della Morale, la morale è il risultato della brama di vendetta degli spiriti deboli che, in maggior numero rispetto agli spiriti forti, cercano di ridimensionarne le potenzialità per mantenere saldi i propri interessi. La società, asservita alla moltitudine, invia uomini travestiti da rimproveri viventi a - Rappresentare la giustizia, l'amore, la saggezza, la superiorità, ma la loro è solo volontà di far espiare, amaramente espiare. - Nel filosofo tedesco viene meno qualsiasi valore puro che possa giustificare una morale assoluta, e si pone la necessità di identificare l'uomo con la natura stessa e con la materia, dando a ogni valore rilevanza solo nella contingenza storica . Un altro illustre pensatore del secolo scorso, Sigmund Freud, neurologo austriaco nonché padre della psicoanalisi, autodefinitosi come “colui che ha scosso il sonno del mondo” , rintracciò lo stesso profilo problematico nel rapporto tra morale sociale e libertà, collegandolo alla necessità di mantenere determinati equilibri, vitali per la comunità. Nell'opera del 1929, Il Disagio nella Civiltà, Freud si proponeva di utilizzare le conoscenze psicoanalitiche per studiare le origini della moralità e del conflitto . Secondo Freud, la tensione tra società e individuo ripercorre lo scontro tra libertà istintiva e limitazioni imposte. Molti istinti primitivi, tra cui l' appagamento sessuale, sono antitetici rispetto alle esigenze di sopravvivenza della società, che cerca di inibirli, spingendo l'uomo a svariate forme di sublimazione, ovvero di spostamento delle mete pulsionali verso oggetti sostitutivi:
- Il problema che si pone è di spostare le mete pulsionali in modo che non subiscano la frustrazione del mondo esterno. Un aiuto in tal senso viene dalla loro sublimazione. I risultati migliori si ottengono se si riesce ad accrescere a sufficienza il piacere derivante dalle fonti del lavoro psichico e intellettuale - . Simili soddisfacimenti, come la gioia dell'artista nel creare o quella dello scienziato nei risolvere i problemi, hanno però il grosso limite di costituire un metodo accessibile solo a pochi, che - Neanche a questi pochi riesce a garantire una protezione completa contro la sofferenza - . Sostenendo, quindi, che fosse proprio la società il primo fattore di destabilizzazione mentale del singolo, costretto a seguire regole lesive della sua natura originaria, Freud metteva in evidenza come il tessuto sociale non fosse pronto a supportare una piena autonomia sessuale e decisionale dell'uomo, perché portatrice di eventualità disgregative, ma dovesse tendere a conformare visioni divergenti a quella comunemente accettata:
- Il risultato finale dovrebbe essere un diritto al quale, sacrificando le proprie pulsioni, abbiano contribuito tutti, e che protegga tutti dalla forza bruta - .
Eravamo agli inizi del secolo scorso, quando Marx, Nietzsche e Freud smascheravano l'ipocrisia di una morale che vantava concetti umanisti, ma condannava la persona a subire una continua invasione di campo da parte di meccanismi manipolatori collettivi, capaci di privare l'individuo di quelle stesse libertà tanto acclamate. Cosa è cambiato da allora? I diritti sono proliferati; la scienza ha fornito gli spunti per guardare il mondo da un'altra prospettiva, moltiplicando a dismisura gli interessi meritevoli di tutela; la bioetica ha preso a cuore le tematiche che sorgevano; ma quanto la società ha davvero voglia di allargare la propria visuale, scrollarsi di dosso una polverosa coperta anacronistica, per volgere lo sguardo a quelle novità che impongono una meticolosa riflessione? Quanto è più semplice mascherare, con la retorica delle belle parole, la volontà di mantenere salde radici destinate a far crepare un vaso troppo stretto? La società propone format comunicazionali che enfatizzano il valore della procreazione, giungendo a ghettizzare chi non ha eredi, o chi dispone per l'aborto. Per conferma, basta analizzare la pubblicità dei beni di largo consumo, da cui emerge che, nonostante il calo demografico, il sistema comunicazionale continua a vertere su nuclei familiari con due/tre figli piccoli. Sono completamente tralasciati i fenomeni dei figli adulti che restano in famiglia e dei genitori single o separati. Infine, le situazioni che mettono in scena coppie non tradizionali riguardano solo prodotti a domanda elastica, quali profumi, abbigliamento, tempo libero, e non prevedono mai la presenza di bambini che potrebbero generare confusione circa l'idea tradizionale di famiglia. La stessa società schizofrenica che enfatizza la positività del modello famiglia, però, non mette in atto le misure adeguate a far sì che tutti possano permettersela, a prescindere dalle circostanze fisiche, economiche e sociali che sono capitate loro in sorte. Affinché un valore, come appunto quello della genitorialità, possa essere incluso nella categoria dei diritti, occorre che la società predisponga tutte le misure atte a tutelarlo. Sul diritto alla genitorialità tutto questo viene meno e si ha la chiara sensazione che la comunità agisca in modo contraddittorio, su binari a rischio collisione, tra i modelli che promuove e gli strumenti che predispone per raggiungerli. Nulla viene posto in campo a reale sostegno di una maternità ormai priva delle certezze tradizionali del lavoro a tempo indeterminato, intrisa invece di quella dimensione precaria che ha travolto la nostra epoca, facendo sprofondare la nuova generazione in una crisi esistenziale collettiva. Se, dunque, la legge, che dovrebbe essere uguale per tutti, non pone tutti nella stessa condizione di diritto, e la società non fa nulla per meglio indirizzare tale sistema normativo, si può davvero ritenere che quello relativo alla genitorialità sia un diritto? O resta, piuttosto, inquadrato nel duplice e contraddittorio ambito del dovere, il cui adempimento è obbligato per chi può, relegando tutti gli altri in una sorta di limbo che traccia le coordinate di un discorso indegno e impronunciabile?
Carmen Trigiante
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|