Le onde chiamano il tuo nome
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Paesaggio d'inverno.
Ogni giorno guardo lo stesso panorama: le foglie di una quercia che cadono in mucchi o una a una. Una fontana dà l'impressione di innaffiare i suoi rami chinati e stanchi. Quando la temperatura scende, l'acqua si gela e la miriade di goccioline che attacca l'azzurro si trasforma in pezzi di ghiaccio. Non so in che stagione siamo, o da quante ore giaccio qui. So soltanto che la mia vita è limitata a questa stanza, a un noioso armadio di legno che mi fissa, a un pezzo di natura oltre il vetro della finestra. Qual è la mia storia? Certamente, ne ho avuta una anch'io come tutti gli altri, ma chi si ricorda? Ci sono molte domande alle quali cerco di trovare risposta. Forse rimarranno un enigma fino all'ultimo respiro. Ce ne sono altre che non voglio nemmeno fare a me stessa perché le risposte non si trovano, o io non ho la forza di trovarle. Se qualcuno mi chiedesse come mi sento, gli direi: confusa. Sto sdraiata sul letto con le lenzuola bianche e fredde, e quando tento di alzarmi, le membra non obbediscono. Guardo con attenzione queste gambe magre che una volta percorrevano chilometri. Ora sono come trasformate in due bastoni per suonare la batteria, rugose e piene di vene. Non le sento parte del mio corpo, dal momento che non riesco più a comandarle. O forse potrei, ma sono semplicemente esausta. Le mie figlie dicevano che ultimamente dimenticavo spesso le cose, ripetevo più volte la stessa domanda e scrivevo sui fogli le azioni che avrei dovuto compiere durante la giornata per non scordarle. Non mi interessa, loro possono dire ciò che vogliono. Cosa c'è di sbagliato nel ripetere la stessa domanda? Specialmente quando la risposta che ricevi la prima volta non ti soddisfa e speri che la seconda volta l'interlocutore cambierà idea. Mi sembra più che normale scrivere su un pezzo di carta i compiti da svolgere, con le centinaia di cose che ho da fare! Sono arrabbiata con tutti, specialmente con le mie figlie e mio marito che non si sono fatti vivi. È inaccettabile per me stare qui, in questa casa di riposo, magari manicomio o ospedale. Io, che venivo onorata e rispettata da tutta la città! Come posso essermi ridotta così? Mi sento abbandonata dal destino. La mia figlia più grande o quella più giovane, non riesco a ricordare i nomi ora, mi dicevano che se avessi avuto bisogno avrei potuto chiamarle. D'accordo, e quando il cellulare lo lascio a casa come si fa? Sono stanca, voglio riposarmi un po'. E che nessuno mi dia fastidio! Ci siamo capiti, credo. Mi rivolgo a voi, persone in camice bianco che avete trasformato questo posto in un paesaggio d'inverno. Come potete chiamare lenzuola queste? Sono carte che fanno venire i brividi. Che freddo fa!
Il tuo sorriso.
Il ricordo più bello dell'infanzia è il tuo sorriso, mamma. Quando papà era sereno, parlava e giocava con noi, e i tuoi occhi diventavano più luminosi, più dolci. Ti seguivo con lo sguardo mentre giravi per casa, assomigliavi a una farfalla. Non camminavi, ma volavi. Mi auguravo che il tuo sorriso vivesse in tutte le stagioni, ma dopo la primavera arriva l'inverno, la tempesta o la pioggia – e le lacrime che cercavi di nasconderci. Il tuo sorriso non si spegneva, diventava solo malinconico. Le critiche di papà erano quotidiane come i pasti che preparavi. Nemmeno io e mia sorella ci salvavamo da loro, anche mentre mangiavamo: “Non parlate, non sbattete le posate sui piatti, non bevete acqua, non ridete”. Una volta stavamo guardando un concerto in TV, e quando il cantante, famoso per essere spesso ubriaco, comparve sul palco notai che aveva abbottonato male la giacca. Entrambe esplodemmo in una fragorosa risata, interrotta dal grido arrabbiato del papà: “Quante volte vi ho detto di non sogghignare a tavola? Non avete nemmeno un po' di educazione!” Noi continuammo a mangiare a testa bassa, senza osare guardare lo schermo fino a quando la canzone finì. Tu, mamma, ti alzasti e ti allontanasti in silenzio dalla cucina. Non ti vidi più. Anche quando non stavi con noi, eri sempre presente. Sistemavi i vestiti, rimuovevi la polvere, lavavi il pavimento. Il ritmo dei tuoi passi era la cosa più reale della mia infanzia, quella presenza eterna che mi calmava e mi diceva che non dovevo avere paura del mondo che mi circondava. Passò del tempo e tu non ti facevi vedere. Dove eri andata? Mi alzai e ti trovai lì, nella stanzetta. Guardavi fuori, appoggiata al davanzale della finestra. La nebbia aveva coperto la città e il mare aveva assunto un colore grigio scuro, annegando il blu nelle sue profondità. Nelle sue acque turbolente alcune barche oscillavano lasciate all'oblio. Un triste paesaggio invernale. Cosa guardavi oltre il vetro, mamma? Sognavi di fuggire nella nebbia? Scappare lontano da queste mura che non ti regalavano più la felicità? Non mi sentisti quando ti chiamai. Non eri in quella stanza, eri lontana, dove solo la forza dell'immaginazione può portare. Mi avvicinai lentamente e ti appoggiai la mano sulla spalla. Per un secondo vivesti con l'illusione che quella fosse la mano di papà. Che si fosse pentito e fosse venuto a dirti: “Scusa, ho esagerato”. Non l'aveva mai fatto prima, ma magari avrebbe potuto farlo ora. Rimanesti stupita nel vedere me e sorridesti, mentre i tuoi occhi erano pieni di lacrime. “Mamma, stai piangendo?” ti chiesi e dentro di me sentii la stessa morsa allo stomaco che provavo ogni volta che ti vedevo triste. “No”, mi rispondesti, “mi è solo entrato qualcosa nell'occhio”. La tua voce, che una volta mi raccontava le fiabe e mi sussurrava parole d'amore che sembravano carezze, si stava smarrendo e non la sentivo più. Una volta cantavi mamma. Quando andavamo alle feste eri sempre la prima a intonare una canzone. Decine di altre voci ti seguivano, ma la tua era la più dolce. Dove sono andate a finire quelle note? In quali cieli si sono disperse come uccelli spaventati? “Mamma, volevo farti una domanda. Tu... sei felice?” Tacesti per un instante. Mi guardasti e poi lanciasti lo sguardo oltre la finestra, dove la nebbia fitta adesso assomigliava al fumo. Che cosa stava bruciando là fuori, mamma? Case, persone o illusioni? “Certo che lo sono. Io ho voi due”. “Hai anche papà?” “Il papà è stanco dal lavoro, figlia mia, perciò a volte è nervoso e alza la voce. Ma... il suo cuore è tenero. Non prendertela con lui. Comunque sia, lui è e rimarrà sempre vostro padre e mio marito. Vi vuole bene e ve ne vorrà per sempre”.
***
Un pomeriggio mia madre stava parlando al telefono con una sua cugina. Questo per lei era uno dei momenti più felici: quelle conversazioni erano l'unico filo che le teneva vicine nonostante la lontananza. Era seduta con le gambe accavallate e, ogni tanto, spostava i capelli dietro l'orecchio. La sua risata deliziosa riempiva la casa di sole. Quando papà era a casa, lei non poteva chiacchierare quanto voleva, perché lui si innervosiva dicendole che le bollette del telefono erano sempre più alte. In quei casi la cugina capiva dalle risposte laconiche della mamma che papà era a casa e si affrettava a chiudere la chiamata. Io stavo leggendo, mentre Dea guardava la televisione. Sentimmo bussare alla porta e ci guardammo l'un l'altra. Riconoscevamo la mano di papà, bussava forte e in modo insistente. La sua severità cominciava già sulla soglia dell'appartamento. Dea, concentrata sullo schermo della TV, mi fece cenno con gli occhi di andare ad aprire. Mi trovai di fronte la vicina che abitava nell'altra scala, si chiamava Allegra, ma nella sua persona non c'era nulla di allegro. I suoi capelli assomigliavano a una spazzola, lo sguardo era sempre stizzito, sembrava odiare il mondo intero. Provavo antipatia per lei, anche perché uno dei suoi due figli mi prendeva in giro e spesso mi seguiva mentre andavo a scuola. “Tuo padre è in casa?” chiese senza salutarmi. “No, non è ancora tornato”. “E tua madre?” “Vuole parlare con papà o con la mamma?” “Voglio incontrare tua madre e sarebbe meglio se Dino non fosse qui”. Non riuscii a cogliere il significato di quella frase. “Un minuto, chiamo la mamma”. Mia madre fu costretta a chiudere la sua chiacchierata al telefono e si avvicinò alla porta. “È successo qualcosa?” “Non mi inviti a entrare?” “Entra, entra, sei la benvenuta!” Se avesse saputo il vero motivo della sua visita, la mamma sicuramente non si sarebbe mostrata così gentile. Allegra entrò nel soggiorno e Laura la seguì. Dopo aver lanciato uno sguardo critico alla stanza, come se volesse valutare se fosse degna o meno di essere considerata tale, si sedette sulla poltrona. Io e Dea ci inchiodammo sulla soglia, aspettando che aprisse bocca, quando lei ci fulminò con un'occhiataccia. Fissò la mamma e, senza battere ciglio, disse: “Le ragazze non le voglio qui”. La mamma fece un segno e noi, volenti o nolenti, ci allontanammo. La porta si chiuse e le loro voci si abbassarono, trasformandosi in un sussurro. Pensavo che fosse venuta per me, forse avevo detto una parola di troppo a suo figlio? Appoggiai l'orecchio dietro la porta, cercando di ascoltare la conversazione. “Sono venuta per Dino”. “Oh, non dirmi che gli è successo qualcosa”, disse mia madre allarmata. “Che cosa vuoi che gli succeda, è più vivo che mai. L'ho visto con i miei occhi che se la spassa con un'altra donna”. “In che senso, se la spassa con un'altra donna?” Nemmeno io avevo capito che cosa intendesse. “Hai ragione, non mi sono espressa chiaramente. Dino se la spassa con altre donne, tutto qui”. “C'è qualche malinteso. Conosco bene mio marito, stiamo insieme da una vita. Non farebbe mai una cosa del genere, né a me né alle nostre figlie”. Sentii la risata sarcastica di Allegra riempire l'intera stanza. “Lo hanno visto nei club e nei parchi con altre donne. E ci ha provato anche con me. O pensi che anche questo sia un malinteso?” “Allegra, noi due non siamo amiche. Ti ringrazio per essere venuta, ma conosco mio marito meglio di chiunque altro. Questa città si nutre di pettegolezzi. Riguardo a te, non so cosa dire, probabilmente hai frainteso. A Dino piace scherzare. Lui è fatto così”. “Io non voglio essere né amica tua, né di tuo marito. Se vuoi chiudere gli occhi, fallo. Ma prima o poi tutti conosceranno questa storia”. La vicina iniziò ad alzare la voce, rendendo il mio compito più facile, ma io non avevo più voglia di ascoltarla. Mi staccai dalla porta e mi diressi verso la stanzetta. Mi veniva da piangere. “Di che cosa stavano parlando?” mi chiese Dea distratta, senza distogliere lo sguardo dallo schermo della TV. “Beh, non riuscivo a capirle. Parlavano a bassa voce”. La porta del soggiorno si aprì rumorosamente. “Bene, ci siamo chiarite, credo...” disse la mamma, cercando di simulare una voce normale. Allegra continuò a borbottare qualcosa tra i denti mentre scendeva le scale. “Mami, che cosa ti ha detto?” “Oh, niente d'importante, cuore della mamma”. In quella notte cupa e senza luna, quando il domani non prometteva nulla di buono, sul viso di mia madre vagava ancora un sorriso, il più bello che io abbia mai visto, stranamente capace di provocarmi un dolore indicibile.
Irma Kurti
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