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Autore: Luigi Quartucci
Iunilla
Romanzo Storico
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Iunilla
- Cosa c'è, Laura, perché ti sei fermata? -
- Ho caldo, sono stanca e non ho intenzione di fare neppure un passo in più! -
- Sediamoci qui, allora, e riposiamo un momento - le disse Loretta, sedendosi su uno degli alti gradoni che formavano gli attraversamenti del quadrivio di Holconius.
- Mi sembra di capire che la nostra visita di Pompei si possa considerare conclusa, o sbaglio? - chiese Gianni, sedendosi accanto a Loretta.
- Per quanto mi riguarda, sì - rispose Laura seccamente. Era fuori di sé, furibonda con Walter, il suo ragazzo, che viveva fuori dal mondo e pretendeva che lo facesse anche lei. Naturalmente, dal suo punto di vista.
L'incriminato mostrava di essere dell'idea opposta e taceva, con lo sguardo in apparenza distratto, simulando un'indifferenza che in realtà non provava, come si intuiva dalla contrazione nervosa della mascella.
- Che ne dici, Walter, chiudiamo qui la visita e ce ne torniamo in albergo? -
- Fate come credete. Io non ci penso proprio a tornare in albergo adesso, continuo la visita anche da solo. - E, senza aggiungere altro, li piantò in asso e si incamminò lungo la via dell'Abbondanza, confondendosi tra la folla dei turisti.
- Che si fa, ragazzi, andiamo almeno al bar, quello vicino al Foro? È inutile stare qui al sole. - propose Gianni.
- Andiamo - , decise Laura, alzandosi bruscamente.
- E se Walter torna e non ci trova? - si preoccupò Loretta.
- Si arrangia! - le rispose Laura con rabbia. - E in ogni caso sa dov'è l'albergo ed è in grado di tornarci da solo - .
La frase suonò minacciosa, lasciando capire che non intendeva fargliela passare liscia e che, in albergo, avrebbero fatto i conti.
Mentre i tre si avviavano verso il Foro, Walter camminava con passo svelto in direzione opposta rimuginando tra sé e sé gli ultimi avvenimenti.
Era venuto a visitare gli scavi con la sua ragazza e una coppia di amici che da tempo gli chiedevano di poterlo accompagnare in una delle sue periodiche gite a Pompei, l'antica città della quale conosceva vita, morte e miracoli; appassionato di archeologia e storia romana, amava in particolare studiare i graffiti lasciati dai pompeiani sui muri della città, piccoli spiragli sul loro mondo, sui loro pensieri, sui loro sentimenti. Nei graffiti pulsava la vita di chi li aveva scritti ed erano le tracce di questa vita che Walter cercava, con una passione instancabile che risaliva alla sua adolescenza.
In un vecchio libro sulla scoperta della tomba di Tutankhamon, aveva letto del ritrovamento di una ciotola di malta essiccata nella quale era rimasta impressa l'impronta di un dito; per 1'archeologo era stata la scoperta più emozionante, la traccia lasciata da un operaio che aveva lavorato alla tomba. Quell'impronta sembrava dire: "Io sono stato qui, guarda, sono esistito"!
L'episodio lo aveva molto colpito e da allora aveva visto l'archeologia come la ricerca delle storie di vita vissuta piuttosto che l'arido studio di antiche civiltà.
Non c'era stata volta, nelle sue precedenti visite agli scavi, in cui non si fosse chiesto come doveva apparire la città prima dell'eruzione, con le vie piene di gente, le botteghe che offrivano le merci ai passanti, i rumori dei carri sulle strade lastricate, gli odori che riempivano l'aria.
Davanti agli affreschi delle domus immaginava il padrone di casa che li mostrava, orgoglioso, ai suoi ospiti. Lo rivedeva davanti alla parete a illustrare i dettagli del dipinto, a esaltarne la fattura pregevole, a raccontare del pittore che gli era stato consigliato da un conoscente e che gli era costato una fortuna.
In particolare lo commuovevano i graffiti dei bambini, disegni approssimativi di navi, animali, persone viste attraverso gli occhi ingenui dell'infanzia.
Ma né Laura, la sua ragazza, né gli altri due amici condividevano il suo entusiasmo per la vita della città e dei suoi abitanti; si era accorto subito che, nonostante le insistenze per accompagnarlo, l'unico interesse di Gianni e Loretta era quello di scattare fotografie da mostrare agli amici, mentre Laura aveva dato a malapena qualche occhiata alle rovine, mostrando di non essere minimamente interessata né alla città né alle spiegazioni di Walter.
Si era sforzato di descrivere loro la Basilica, il Foro, il Comitium, l'Edificio di Eumachia; li aveva portati anche alla Villa dei Misteri, ma di fronte al grande affresco del triclinio avevano dato un'occhiata, scattato qualche foto, e poi gli avevano chiesto cos'altro ci fosse da vedere.
Voltandosi per uscire dalla stanza si era accorto che Laura non c'era più, così era andato a cercarla e l'aveva trovata che passeggiava, col cellulare attaccato all'orecchio, sotto il porticato della villa e parlava, accalorandosi, di titoli azionari, di costi bancari e di futuri guadagni. L'aveva apostrofata chiedendole, con voce irritata, se davvero le sembrava il caso di stare al telefono a parlare di mercati azionari mentre visitavano un posto così pieno di storia e di arte come quello; lei lo aveva zittito con un brusco gesto della mano, accompagnato da un'occhiataccia, e si era allontanata continuando la conversazione come se niente fosse.
Quando finalmente si era decisa a chiudere la comunicazione, si era girata verso di lui scura in volto e lo aveva aggredito con una frase raggelante: - Ti ho detto mille volte di non disturbarmi quando sono al telefono per lavoro, accidenti a te! Cosa vuoi che mi importino questi quattro sassi quando abbiamo in ballo un'operazione che vale milioni? Tanto saranno lì anche dopo, no? -
Gli erano cadute le braccia, ma Laura era fatta così, una professionista della finanza, le interessavano soltanto il mercato mobiliare, le grandi transazioni gestite dal suo ufficio, il successo a ogni costo. Ciò che non poteva essere monetizzato per lei non aveva alcun valore, non aveva tempo da perdere con gente vissuta duemila anni prima.
Del resto bastava guardarla per capire il tipo, impeccabile nel vestire, neppure un capello fuori posto, il trucco perfetto, le mani curate, le scarpe senza un filo di polvere, nemmeno lì a Pompei, dove la polvere invadeva ogni cosa!
Se non fosse stata così dannatamente bella Walter avrebbe preso da tempo altre strade; i loro litigi erano diventati proverbiali fra gli amici e talvolta, al termine di qualche diverbio più acceso degli altri, era arrivato alla conclusione che sarebbe stato meglio finirla una volta per tutte piuttosto che andare avanti così.
Ma Laura era una donna vincente, non gli avrebbe mai permesso di lasciarla senza prima aver fatto di tutto per trattenerlo, non avrebbe accettato pacificamente quella che per lei sarebbe stata una sconfitta, ed era maestra nel manipolarlo stuzzicando, con le sue raffinatissime arti seduttrici, il suo orgoglio maschile e ammansendo con il sesso le sue intenzioni bellicose. In questo modo tutto sembrava rientrare nella normalità e, per qualche giorno, Laura era la compagna più deliziosa che un uomo potesse desiderare, affettuosa, calda e sensuale. Ma poi tornava di attualità il lavoro e la giostra ricominciava.
Avevano vagabondato ancora un po' per la città, ma Walter si era stancato di parlare a chi non aveva nessuna intenzione di ascoltarlo, così erano andati avanti immusoniti, irritati l'uno con l'altra, senza più scambiare una parola.
Per questo, quando Laura si era impuntata per fermarsi, coinvolgendo anche l'altra coppia, non se l'era sentita di affrontare i malumori della ragazza né le sue recriminazioni e aveva deciso di continuare la visita da solo; nonostante conoscesse molto bene gli scavi, non intendeva perdere l'occasione di un'ennesima visita, certo che avrebbe comunque colto qualche nuovo particolare mai notato in precedenza. Ogni volta, per lui, girovagare tra le rovine di Pompei costituiva un'esperienza nuova.
In una zona che non aveva mai visitato con attenzione, fu attirato dai resti di una popina, un locale tipico dell'antichità, non troppo grande, dove si poteva mangiare e bere, non si affittavano stanze ai viaggiatori e non c'erano celle meretricie, i cubicoli con un letto in muratura nei quali le cameriere, in molti locali, si prostituivano.
Nella stanza principale c'erano i resti di un tipico bancone di marmo, con un ampio spazio destinato ai tavoli per i clienti. Le pareti erano spoglie, ma questo non significava niente, l'eruzione poteva aver cancellato eventuali affreschi.
Non c'era niente di interessante in quella popina, identica a tutte le altre, ma Walter sentiva un'inquietudine che non riusciva a spiegarsi e che lo spingeva a trattenervisi nonostante tutto. Visitò le altre stanze, la cucina, un paio di cubicoli spogli dove probabilmente dormivano i proprietari della locanda e, convintosi che non ci fosse nient'altro da vedere, stava per andare via quando si accorse che, nell'oscurità di uno stanzino che, fino a quel momento, aveva ignorato, si intravedeva qualcosa che sembrava il primo gradino di una scala; si avvicinò per capire di cosa si trattasse, forse da lì si accedeva a un locale sotterraneo, probabilmente una cantina, del quale però non era rimasta traccia perché il pavimento appariva compatto. Pensò che, durante l'eruzione, i detriti potessero averla ricoperta.
Poggiò entrambi i piedi sul gradino. Sembrava solido, ma all'improvviso sembrò cedere sotto il suo peso. Ebbe la sensazione di sprofondare in un abisso senza fondo prima che tutto intorno a lui svanisse. Cadendo, perse i sensi.
Lo risvegliò una sensazione di freddo. Aprì gli occhi ma nel buio non riusciva a vedere niente. Voci miste a risate e al rumore di stoviglie sbattute sui tavoli sembravano provenire dal piano di sopra.
La confusione nella sua testa era totale; cercò di riordinare le idee e di ricordare cosa era accaduto. Non gli sembrava di avere battuto la testa, ma doveva essere svenuto e adesso non riusciva a capire dove si trovava.
Dal piano superiore continuavano a giungergli voci confuse, forse quelle dei turisti, magari erano Laura e gli altri che alla fine avevano deciso di raggiungerlo; tastò il terreno alla ricerca del cellulare che, ne era sicuro, al momento della caduta aveva in mano, ma non lo trovò.
Non se ne preoccupò, pensando che fosse rimasto di sopra, si scosse la terra dai vestiti e cercò a tentoni le scale dalle quali era ruzzolato giù, le risalì con cautela facendo attenzione a non cascare nuovamente di sotto.
Sentiva il bisogno di una boccata d'aria fresca per snebbiarsi il cervello, ancora intorpidito.
Raggiunta la sommità della scala si avviò verso l'ingresso della popina e, qui giunto, si guardò intorno, incredulo; aprì e chiuse più volte gli occhi per scacciare la visione che aveva davanti a sé. Non poteva essere reale quello che stava vedendo, non c'erano rovine nè turisti che scattavano fotografie, ma persone in abiti da antico romano, uomini e donne in tunica e sandali che parlavano una lingua gutturale, a un tempo sconosciuta e familiare.
Ebbe l'impressione di vivere un incubo nel quale niente era come avrebbe dovuto essere, i luoghi e le persone erano estranei, ogni cosa conosciuta era scomparsa; uno di quei sogni oppressivi nei quali ci sentiamo coinvolti e non capiamo se si tratta di un'illusione o della realtà, gli interrogativi restano senza risposta, l'ansia inizia a penetrare in ogni fibra e poco alla volta si tramuta in angoscia. Se si tratta davvero di un incubo, quando la disperazione giunge all'apice, di solito ci svegliamo; ma non fu quello che accadde a Walter.
Si sfregò gli occhi nel tentativo di far sparire la visione, ma questa rimaneva immutata davanti a lui.
Sforzandosi di capire cosa stesse accadendo, si mise ad ascoltare i discorsi delle persone sedute ai tavoli. Con un po' di fatica, riuscì a cogliere qualche parola qua e là e si rese conto che lui quella lingua la conosceva bene, nonostante la pronuncia fosse molto diversa da quella cui era abituato e che insegnava ai suoi studenti.
Stavano parlando in latino, come gli abitanti dell'antica Pompei!
Alcuni erano seduti ai tavoli e mangiavano tranquillamente, altri erano in piedi davanti al bancone in muratura e bevevano da coppe di terracotta.
Al suo ingresso nella sala le conversazioni cessarono di colpo; tutti gli sguardi si concentrarono su di lui. Gli avventori del locale lo stavano guardando stupiti come se un essere alieno fosse apparso dal nulla e sembravano chiedersi chi fosse quell'uomo vestito in modo così strano.
Dietro al bancone troneggiava una donna dalla faccia burbera che lo fissava come se fosse incerta se ignorarlo o cacciarlo via, mentre una ragazza correva avanti e indietro servendo ai tavoli. Fu lei a farglisi incontro chiedendogli qualcosa che Walter capì parzialmente.
- Quis tu ...? ...vestitus? - .
Gli era sfuggita qualche parola, ma immaginò che la ragazza gli stesse chiedendo qualcosa circa il suo vestito; aveva un'espressione a dir poco sbigottita e guardava i jeans e la maglietta di Walter come se fossero oggetti misteriosi provenienti da un altro mondo.
Non rispose. Rimase per un attimo imbambolato a guardarsi intorno, poi chiese, in un latino che suscitò l'ilarità della ragazza:
- Per favore, dove sono? -
- Parli il latino, allora. Mi fa piacere, ma hai una pronuncia orrenda! Sei nella popina di Fortunata, dove pensavi di essere? - e rise.
“Che avrà da ridere questa sciocca?” si chiese, mentre la ragazza lo guardava con aria beffarda.
- La popina di Fortunata? -
- Vedi quella donna? - e gli indicò il donnone dietro il banco che continuava a fissarlo perplessa. - Lei si chiama Fortunata ed è la padrona di questa popina. -
- E siamo a Pompei? -
- Certo che siamo a Pompei, dove dovremmo essere? Per caso sei minus habens? -
“Non solo ride a ogni parola che dico, ora mi sta dando anche dell'idiota, magnifico!”
- Che anno è? - si azzardò a chiedere, aspettandosi un altro scroscio di risate o qualche battuta velenosa.
- Neppure questo sai? Ma da dove vieni? È l'anno dei duoviri .... - disse due nomi che Walter non capì e che, comunque, non lo avrebbero aiutato per nulla. Vedendo che restava in silenzio con l'aria smarrita di chi non si rende conto di quello che accade, la ragazza cambiò espressione. Ora sembrava essersi mossa a compassione per lui e aggiunse, parlando lentamente per farsi capire: - Se non sei di Pompei forse i nomi dei duoviri non ti dicono niente. Ma saprai quello che succede a Roma, Tito è appena diventato imperatore perchè suo padre Vespasiano è morto da poco più di un mese. -
“Non può essere,” pensò Walter incredulo, “questa ragazza si sta facendo beffe di me. Se quello che dice fosse vero saremmo nel 79 dopo Cristo, l'anno dell'eruzione del Vesuvio alla quale, con Tito appena diventato imperatore, mancherebbero pochi mesi. Ma dovrei aver viaggiato nel tempo, e questo è impossibile, perciò, se questo non è uno scherzo, potrebbe essere un reality per mostrare le reazioni di un uomo moderno proiettato nel passato.
“O magari è l'ennesimo film ambientato nell'antica Pompei, hanno allestito la scena mentre ero svenuto e, uscendo dalla cantina, mi ci sono trovato in mezzo.
“ Quello che è certo, a meno che io non sia impazzito, è che tutto quello che sto vedendo è una finzione. Perciò adesso uscirò in strada e sarò di nuovo tra le rovine di Pompei, fuori dal set di questo film o reality o quel che è. A proposito, chissà dove avranno nascosto le macchine da presa, non le vedo. E dovrei fare i complimenti ai truccatori e ai costumisti, questi attori sembrano pompeiani autentici.”
- Ehi, dove scappi? - gli gridò la ragazza nel vederlo correre via, ma Walter non rispose, uscito in strada si era fermato di colpo e guardava allibito la scena che gli si presentava davanti agli occhi.
Neppure fuori dal locale c'erano rovine o turisti, le case erano intatte, le strade affollate e la gente era vestita in abiti romani come quella della popina. Dove la strada faceva angolo con via dell'Abbondanza c'era una fontana; Walter ricordava benissimo che quando le era passato davanti, poco prima, dal rubinetto non usciva neppure una goccia. Ora invece la fontana gettava un flusso d'acqua abbondante che cadeva nella vasca e tutt'intorno c'erano donne che la raccoglievano con le anfore.
Ma che stava succedendo? Aveva le allucinazioni? Magari era stata la caduta, forse aveva battuto la testa e adesso immaginava di vedere cose che in realtà non esistevano.
Le domande si affollavano nella mente, mettendo a dura prova la sua incredulità, ma rifiutava ancora di accettare l'idea che quello che stava vedendo intorno a sé potesse essere reale.
Eppure il dubbio cominciava a insinuarsi nei ragionamenti che stava imponendosi di fare per tranquillizzarsi, intuiva che quello che vedeva era troppo grande per essere una finzione, chi avrebbe potuto organizzare una cosa simile e a che scopo?
Anche l'ipotesi che si trattasse di un trucco cinematografico cominciava a sembrargli improbabile; una messinscena di quelle dimensioni sarebbe costata un patrimonio e, a parte questo, per realizzarla non sarebbero bastati i pochi minuti che aveva trascorso incosciente dopo la caduta.
Preso da un'ansia incontrollabile si mise a correre. Imboccò la via dell'Abbondanza, che lo avrebbe portato direttamente al Foro. Cercava qualcosa che lo aiutasse a capire cosa stava succedendo, dov'era finito, come si era trovato in questa incredibile situazione; intanto l'angoscia gli montava in gola e un pensiero tremendo cominciava a fare capolino nella sua mente, nonostante questa continuasse razionalmente a respingerlo.
Raggiunse il quadrivio dove Laura e gli altri si erano seduti, stanchi di girovagare; non vide nessuno di loro, ma questo non significava nulla, potevano essere andati ovunque, così decise di proseguire.
Con la coda dell'occhio intravide, sull'altro lato della strada, il thermopolium di Vetuzio Placido.
Era pieno di gente che consumava cibo e bevande, ma non poteva essere, Vetuzio Placido era morto da duemila anni! Gli archeologi avevano trovato in un orcio un piccolo tesoro di monetine, da lui dimenticato nella fretta di fuggire dall'eruzione. Come poteva essere lì a servire la clientela? Era morto e sepolto, nel vero senso della parola!
Ancora pochi passi e si imbattè nel thermopolium di Asellina.
Quando era passato lì davanti insieme a Laura, Loretta e Gianni il locale era chiuso con una grata, lo aveva visto bene e le scritte elettorali sulla facciata erano sbiadite; perché adesso era aperto, dov'era finita la grata e perché sul bancone c'erano orci fumanti da cui provenivano odori di cibo? Come mai le scritte sembravano fresche come se fossero state appena dipinte? E chi era la donna che stava sulla soglia facendo battute ai passanti e invitandoli a fermarsi mentre dietro di lei tre ragazze ammiccavano con disinvoltura? La risposta gli salì immediata alle labbra: Asellina! Asellina e le sue ragazze, Maria, Egle, Smyrina. No, non era possibile, erano morte da venti secoli, non potevano essere loro che gli sorridevano invitandolo a fermarsi!
Vetuzio Placido?! Asellina e le sue ragazze?! Si chiese se non stesse impazzendo.
Andò avanti con la forza della disperazione e puntò con decisione sul Foro. Lì avrebbe visto le rovine della Basilica, del tempio di Apollo, del tempio di Giove!
Un paio d'ore prima aveva descritto ai suoi amici e a Laura quegli edifici, li avrebbe ritrovati immutati nella loro desolazione e tutto sarebbe andato a posto!
Lì le cose sarebbero tornate alla normalità, l'incubo sarebbe finito e lui sarebbe rientrato in albergo, dove si aspettava di trovare una Laura furibonda, era certo che avrebbero finito per litigare, ma almeno avrebbe avuto la certezza di non essere diventato pazzo!
Giunse trafelato al Foro. Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa di familiare, che lo rassicurasse, che gli facesse capire che non era pazzo, che quella non era la Pompei dell'anno 79.
Sul lato meridionale, alla sua sinistra, troneggiava la Basilica, il tribunale della città, che si ergeva intatta e solenne; mostrava le tracce dei danni subiti nel terremoto dell'anno 62, ma non c'era nessun dubbio sul fatto che fosse integra e in funzione!
Davanti a lui, dall'altro lato della piazza, il tempio di Apollo sembrava anch'esso in buone condizioni. Da una porticina vedeva gente entrare e uscire, e non erano sicuramente turisti.
Il colonnato che circondava il Foro era danneggiato in alcuni punti ma sembrava in condizioni molto migliori di quelle che aveva ostentato fino a qualche ora prima; il tempio di Giove, a sua volta, incombeva sul lato settentrionale del Foro, ancora in restauro dopo il terremoto, ma sempre maestoso, a protezione di Pompei.
“No, no, no, non può essere, è stato distrutto tutto dall'eruzione, siamo entrati agli scavi da Porta Marina e quando sono passato di qui un paio di ore fa il colonnato era in rovina, la pavimentazione del Foro non c'era, la Basilica e i templi erano crollati. Questi edifici non possono essere intatti come se l'eruzione non ci fosse mai stata!”
Dov'era il Vesuvio, che doveva stagliarsi contro il cielo dietro il tempio di Giove? Lo aveva fotografato lui stesso da quel che restava del colonnato della Basilica, un gigante tranquillo dall'apparenza innocua ma che, per i pompeiani, si era rivelato un implacabile assassino. Perchè non era al suo posto come sempre, con la sommità incavata, prodotta dall'esplosione che ne aveva fatto saltare la cima, con la sagoma familiare che si ammirava in tutte le vedute di Napoli?
Adesso si vedeva un monte con la cima a cono, come appariva nell'unico affresco ritrovato che lo raffigurava prima dell'eruzione.
“Non può essere, è una follia.” continuava a ripetersi, disperato.
Come sempre accade quando ci si sente persi in un posto sconosciuto, la sua mente cercava di ritrovare qualcosa di familiare; pensò che c'era un altro posto dove, forse, avrebbe potuto far cessare l'incubo.
Imboccò la via che fiancheggiava il Macellum sulla destra del tempio di Giove; conosceva bene la pianta della città, anche se camminare tra case integre non era la stessa cosa che farlo tra le rovine.
Si divincolò dall'abbraccio di una prostituta che stava in attesa di clienti sulla soglia della cella meretricia proprio accanto a una popina; la donna gli si era aggrappata e cercava di trascinarlo nel suo stanzino promettendogli mille delizie in cambio della modesta somma di due assi. Liberatosene con decisione, proseguì fino a quando non trovò quello che cercava, la casa col balcone pensile che ospitava il lupanare.
Quante volte era entrato per fotografare le centinaia di graffiti che ne ricoprivano le pareti, quante volte si era chiesto come dovesse apparire quando era in funzione, con le sue cellette squallide, i letti in muratura, la latrina in fondo al corridoio, gli affreschi erotici alle pareti!
La porticina era aperta e sulla soglia giganteggiava un servo nerboruto; gli fece cenno di entrare dall'altro lato dell'edificio, da quella parte si usciva soltanto, proprio come avrebbero fatto i turisti duemila anni dopo.
Walter si fece coraggio e superò lo stretto angolo che costituiva il vertice della casa; quando raggiunse l'ingresso fu investito dal tanfo che usciva dal bordello, un misto irrespirabile di puzzo di urina, di feci, di sudore, di fluidi corporei; certamente non era qualcosa che invitasse a entrare.
Si fece forza e varcò la soglia. Dentro era ancora peggio. Una ragazza completamente nuda gli venne incontro e, gettandogli le braccia al collo, gli sussurrò qualcosa in un latino rozzo, misto a un qualche dialetto, che Walter non comprese; ma non occoreva conoscere la lingua per capire che lo stava invitando a fare sesso con lei e, con ogni probabilità, gli stava descrivendo i piaceri che avrebbe saputo dargli.
Nelle celle meretricie altre ragazze erano al lavoro, chiunque poteva guardare dato che non c'erano porte o tende a nascondere agli occhi dei visitatori quello che accadeva sui letti in muratura ricoperti da sudici giacigli di paglia e stracci.
In fondo al piccolo corridoio, seduto su uno sgabello e con le spalle appoggiate al muro della latrina, stava un uomo che lo guardava con aria interrogativa; doveva essere uno schiavo al quale i clienti pagavano il prezzo dei servizi goduti prima di uscire dal locale.
La nausea lo sopraffece e corse fuori. Respirò a fondo più volte per riprendere fiato e togliersi dalle narici l'odore acre del bordello. Aveva respinto finora con decisione il dubbio che tutto questo potesse essere realtà, perché il suo cervello razionale rifiutava di considerarlo possibile ma, dopo quello che aveva visto nel bordello, non aveva più nessun dubbio.
“Non sto sognando, sono sveglio e cosciente,” ammise a se stesso, “non capisco come sia potuto accadere, ma mi trovo davvero nella Pompei di duemila anni fa, prima dell'eruzione! E adesso che faccio? -

Luigi Quartucci

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
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