La vita leggendaria di Eustachio, il Monaco di Boulogne (1170 – 1217). Courset, 1170. Il castello di Courset del distretto di Calais era in fermento. La baronessa riempiva gli anditi di pietra con le sue grida che rimbalzavano sulle pareti possenti quando si aprivano le porte dei suoi appartamenti. Era suo figlio che nasceva. Ma il dolore non era direttamente colpa sua, era la natura che si prendeva gioco della madre, come sempre faceva con ogni donna. Una lotta per la vita, una lotta per la morte. Era tutto un correre su e giù dalle scale verso le cucine, ritornare con mastelli pieni d'acqua che debordavano dalla fretta. Il paggio era caduto sulla pietra scivolosa e aveva lacerato la livrea prendendo una botta al gomito. Ciò nonostante aveva ripreso le sue corse verso gli appartamenti della signora, agli ordini perentori delle donne che l'assistevano. - Porta altra acqua e che sia calda! - Lui abbassava la testa e riprendeva le scale coi mastelli vuoti. Sbirciava dietro la porta e poi sentendo le grida non resisteva e fuggiva veloce verso le cucine. E ora la levatrice aveva ordinato una pozione di tè alle foglie di lampone. Naturalmente nel castello non si trovava la preziosa erba e una squadra di servi fu mandata verso i boschi dei dintorni a cercare l'arbusto. Sulle pendici del monte Hulin, lontano dalle cave di gesso in cui gli schiavi legati al lavoro picconavano la roccia, Germana adocchiò i cespugli bassi tra la fitta vegetazione. Senza avvertire nessuno si sedette nei pressi e cominciò a mangiarli, incurante d'altro. Se facevano bene alla sua signora, avrebbero fatto bene anche a lei. Ma suo padre la teneva d'occhio e distinse il grembiule, una volta bianco e ora sporco di macchie scure, emergere dal verde del sottobosco. - Lazzarona, non hai voglia di far nulla! Hai trovato la pianta e non chiami. - Le mollò un ceffone che la spettinò, sempre che fosse stato necessario, dato che i capelli stopposi le inondavano già la faccia. Nessuno doveva accorgersi del suo cambiamento. Si scostò veloce di lato per schivare il colpo al quale era abituata. Alzò le spalle e abbandonò il bottino. Aveva già fatto una scorpacciata, lasciò che loro prendessero le foglie. Il padre ne riempì un canestro, badando bene a lasciare le radici. A ogni nascita le mandavano a prendere. In cucina la cuoca le lavò e le mise in infusione in acqua calda. Presto la bevanda fu pronta e il profumo si sparse per l'aria. Riempì una brocca e la fece portare dalla figlia insieme a una tazza. La ragazza bussò alla porta mentre la nobildonna, senza ritegno, gridava immersa nei dolori. Non volle entrare, le sembrava di essere sconvolta lei stessa. Ma per una signora di nobili origini poteva trattarsi di una cosa normale, non era abituata alla sofferenza. La sua vita si era svolta nella bambagia. Lei senz'altro non si sarebbe comportata in quel modo. Anche perché non sarebbe stato così grande il dolore per lei, il suo corpo era forte. La padrona era una schifiltosa. Infilò tazza e caraffa dentro lo spiraglio della porta, che faticò ad aprirsi, pesante di borchie e di legno spesso. Una donna vestita di bianco con un fazzoletto in testa le prese gli oggetti dalle mani e lei fuggì, senza attendere le sue parole. - Prima di avvicinarti alle stanze della tua signora, vai a ripulirti! - Saltò i gradini a due alla volta, nonostante il ventre prominente nascosto sotto i vestiti dalla vita alta, larghi a balze fino a terra. Arrivò in fondo e si tenne la pancia. Sotto di lei una macchia di liquido bianco insozzò l'ultimo gradino. Poteva essere acqua. Sentì un malessere impossessarsi di lei e d'istinto si allontanò. Il bosco era poco distante. Camminò più in fretta che poté, quando una fitta la fece desistere ad andare oltre. Si appoggiò al tronco di un castagno con le mani, vi si aggrappò con le unghie fino a inciderne la corteccia. Non doveva gridare, non avrebbe dovuto. In quel mentre sua madre la cercava. Udì la sua voce fendere l'aria, presto sarebbe arrivata. L'avrebbe vista in quel modo. Che doveva fare? Si allontanò ancor più mentre il dolore le dava una tregua. Capì perché la signora del castello gridava tanto e così acutamente. Quando un'altra fitta le lacerò le carni si accasciò mugolando sull'erba, in ginocchio. Sua madre le era sopra. Il viso accigliato, parole di rimprovero che le morirono in bocca. - Che ti succede figlia mia? - Un misto di terrore, di rabbia e di incredulità le brillava negli occhi. Vide il sangue scorrere lungo le gambe. Germana trasse un respiro e gridò, cercando di trattenersi. Il dolore era fuori controllo, ma non voleva cedere. - Aiutami! - La madre finalmente capì. Non volle infierire, lo avrebbe fatto dopo. Aiutò la figlia a reggersi in piedi. Qualche passo e si scostarono dalla vista del castello, avvicinandosi al ruscello, restando sotto le fronde. La avvicinò alla riva e cercò di lavarla. La tenne in ginocchio, mentre la massa del suo ventre diventava visibile e si abbassava. Raccolse foglie ed erbe, caso mai il bimbo le fosse sfuggito. Sono nonna, ma nessuno deve saperlo. Sorrise, ma non parlò, lasciò che la natura facesse il suo corso. Per fortuna il neonato aveva fretta. Le spinte del parto divennero efficaci e lei riuscì a raccogliere la testa e a deporlo sull'erba, mentre i primi vagiti diventavano strilli, che si sarebbero sentiti a distanza. Tagliò il cordone col coltello. Strappò la sua veste, mentre la puerpera si stendeva sull'erba spossata. Ne fece strisce a pulire il piccolo intingendo più volte nell'acqua gli stracci e lo depose in braccio a sua figlia. Era poco più di una bambina, cosa le era successo? Certo il padre del neonato non poteva sapere, forse la ragazza era stata solo un frutto goloso che qualcuno aveva raccolto per la voglia di un momento, come spesso accadeva. Lasciò che si riposasse e le diede pezze per tamponare il sangue. Avrebbe dovuto cambiarsi o tutti si sarebbero accorti che qualcosa di strano le era capitato. Il sangue era schizzato in più punti. Le ore passavano. - Ti aiuterò, ma dovrai restare nascosta. Chi è il padre? - La domanda era sorta spontanea, se l'aiutava doveva anche sapere. Germana non mentì: - È Giovanni, il boscaiolo. Io lo amo, anche lui... forse... - . - Povera figlia mia! - Un sentimento di comunanza le fiorì in fondo al cuore. Donne succubi, donne vittime. - Se te la senti ti accompagno alla cava abbandonata. Nessuno verrà lì a disturbare, gli schiavi lavorano lontano. Troveremo un posto tra il verde e se pioverà avrai un luogo dove ripararti. Non fare piangere il bambino, mi raccomando. Verrò ogni giorno a portarti da mangiare e domani avrai il latte per il piccolo. - La sorresse attraverso il bosco, fermandosi quando il sangue si metteva a scorrere. - Dovrai riposare, accenderò un fuoco. - Sul pendio del monte trovarono un luogo riparato e la madre raccolse sterpi con cui fece un castello arioso riducendoli in piccoli pezzi e ricci di legno. Usò l'acciarino che portava sempre con sé e con una pietra fece scaturire scintille che presero fuoco facilmente, facendo salire il fumo tra gli alberi. Qualcuno lo avrebbe visto, ma non era raro che gli abitanti del villaggio si fermassero per la notte e un fuoco non avrebbe destato il sospetto di nessuno. - Resta nascosta. Torno domani. - Il cuore in subbuglio, prese la corsa verso le cucine che aveva abbandonato. Un pensiero le arrovellava la mente, mentre il fiato diventava corto. Il castello torreggiava sull'altura, ma lei non ci fece caso. Trafelata aprì il grosso portone e fu nella corte. Di lì si sentiva l'odore del maiale arrostito. Il trambusto per il parto della castellana sembrava cessato. Ognuno attendeva ai suoi doveri con calma e qualcuno aveva assolto anche il suo compito. Il marito l'aspettava. - Dove eri finita?! Qui c'è bisogno, i signori mangiano tutti i giorni! - la rimproverò. Senza parole si mise ai fornelli. Come sarebbe uscita da quella situazione? Obbedì agli ordini del marito, ne impartì altri alle sguattere. Dio l'avrebbe aiutata.
Ivana Tomasetti
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