Adele e Spank sola andata
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"Adele, 3 luglio. Nello zaino ho trovato un completino leopardato. Incredibile. Primo perché il leopardato mi fa seriamente cagare. Secondo perché proprio non mi spiego come abbia fatto qualcosa che non uso dal settecentotrentasei a.C. a materializzarsi nel mio Ferrino. Prima di fiondarlo nel sacco nero dell'immondizia l'ho tenuto tra le mani una manciata di minuti e mi sono ricordata di averlo preso quattro anni fa in un sexy shop insieme a un paio di manette col pelo rosso. Già. All'inizio ero così rincretinita da comprare tutta una serie di roba così. Roba sexy. Autoreggenti a rete bende mascherine mutande in miniatura olii eccitanti al profumo di avocado e puttanate simili. Fino a una domenica di maggio. L'ultima. Cinquanta minuti in bagno per prepararmi, dovevo andare fino al tavolo della cucina. Sono uscita di rosa, a piedi nudi, con una sottoveste di seta doppio strato nuova che mi scopriva la schiena. Avevo armeggiato con le mollettine per un'acconciatura fai da te, mi ero messa il lucidalabbra rosa, la crema color pesca sulle guance, e gli orecchini di corallo che Giulio mi aveva comprato di nascosto al mercatino sotto le stelle di Forte dei Marmi mentre io ero a fare la pipì nel bar davanti. Mi ero fatta i peli, tutti. Prima la ceretta e poi a martoriare le ombre, i fantasmi sotto pelle, a tirar fuori quelle radici che erano rimaste sotto terra. Il profumo afrodisiaco egiziano. Lo smalto. Era stato bello guardarmi allo specchio. Ripresa in quell'attimo di felicità, le ciglia laccate di mascara, sembravo una piccola bambola di porcellana, silenziosa e perfetta. Sono sgusciata fuori in punta di piedi. Giulio era steso sul divano che guardava la Moto GP con un cuscino sulla pancia. Quando sono passata ha spostato la testa per non perdersi una ruota. Ho fatto la mia sfilata da sola, come un gatto bellissimo in uno scantinato di periferia. Si è accorto di me solo quando ho sbattuto di proposito il bicchiere sul tavolo di legno. Ero di schiena, le orecchie in attesa, lo sguardo inchiodato sulle mattonelle della cucina. - Sei bellissima. – Ho ricominciato a respirare. Allora c'era salvezza. Mi sono voltata. - Mancano solo tre giri amore... poi sono tutto tuo. – mi ha detto senza guardarmi. E io che mi ero messa il sorriso sulla bocca per quella frase, per quel riscatto, sono rimasta lì. Marmorea come il piano di lavoro a guardare i suoi occhi già restituiti all'asfalto, all'inquadratura di una puttanella con l'ombrellino. Immobile con quel sorriso di troppo, l'espressione fuori tempo che si è incriccata sulla mandibola di chi non ha ancora capito che non c'è un cazzo da ridere. Ha aspettato la premiazione. L'ha guardata in piedi con una gamba già in mezzo al salotto e la faccia di uno che vorrebbe proprio rimanere ma deve scappare o farà tardi al lavoro. E poi è venuto in camera. Quel giorno l'amore è stato come una finestra finta, di quelle che t'illudono di mare e poi quando le apri non ci trovi altro che freddo e crepe. Ho guardato il muro per dieci minuti, evitando lo specchio, mentre Giulio mi prendeva da dietro e mi tirava i capelli. - Come sei bella... - Quando è andato a farsi una doccia sono rimasta in camera e ho affogato la testa nel cuscino. Buttata nel letto sfatto, con tutto quel rosa addosso imbevuto di sudore, sembravo un confetto sputato. Lui non si è accorto di niente. Non c'è sempre il tempo, la voglia, di andare a vedere cosa c'è dietro una finestra. E il mare è faticoso. Succede. Non dovrebbe ma succede. E mica dal giorno alla notte. Così ti potresti sedere e affrontare il problema, tirare fuori il paracadute d'emergenza, la mascherina dell'ossigeno da sopra la testa. No. Succede impercettibilmente, giorno dopo giorno, da quale giorno non si sa. Diventi distratto. Non ti guardi più. Ti sei abituato ad averlo lì quel corpo, quella terra sconosciuta di cui hai esplorato tutti gli anfratti, catalogando ogni centimetro, il colore di ogni neo. L'hai annusata giorni e notti quella pelle, ci hai inzuppato il naso dentro e sei rimasto lì. Per mesi e mesi a non fare altro che abbandonarti dentro a quell'odore nuovo. Adesso lo conosci a memoria. Non t'interessa più andare a vedere cosa c'è su quelle strade, che storia si nasconde sotto una cicatrice, studiare la lunghezza dei peli sul braccio. Non ci vai a controllare se i capezzoli stanno bene, se fa freddo nelle scarpe, come sta quel taglio piccolo e gravissimo. Cristoforo Colombo è tornato. Il Nuovo Mondo è conquistato. Meravigliosamente Tuo. Hai spolverato via quegli sporchi indigeni che volevano la tua terra, che avanzavano un pretesto per il solo fatto di averla trovata prima di te. Hai portato abitudini nuove e un nuovo modo di fare l'amore, hai piazzato le tue chitarre, hai riempito le foto ricordo col tuo bel sorriso, stampato come un francobollo davanti alla Tour Eiffel e ai mercatini di Natale. Adesso non c'è più niente da difendere. Quel graffio è una sciocchezza. E le cose piccole ritornano semplicemente cose piccole. La Nuova Terra non è più nuova. È conosciuta, sbranata, bevuta fino alle viscere. Tutte quelle notti passate a guardarvi non servono più. Sono lontane come le piccole barche sul lago di Massaciuccoli, quando al tramonto portano gli innamorati a vedere l'accoppiamento dell'Airone Rosso. Ora quel tempo lo usi per fare le tue cose al pc, studiare uno spartito, mettere a posto i vestiti. Rimetti a posto anche il tuo naso. Quello che hai tenuto in apnea fra le sue cosce, ci hai passato gli ultimi mille anni fra quella carne. È meglio che anche lui torni a fare il suo mestiere. Ad avvertirti se bruciano i popcorn nel microonde, a sentire un profumo per strada che ti fa ricordare che è un sacco di tempo che non ti compri un profumo. Succede che diventi un cane stanco di annusare il solito albero. Tanto è lui, quello davanti casa. Ci pisci da quattro anni, su quella corteccia. Guardo le roulotte stagionali in fondo alla strada, sul lato che dà sulla Geodetica. Le ruote arrugginite, tutte in fila davanti ai lampioni, sembrano vecchi militari in pensione. Non è difficile montare una tenda. È difficile stare qui, su questa terra in affitto, in mezzo a questa gente, sola. È difficile decidere cosa fare dopo che l'hai montata, la tenda. Trovarsi seduta su una cassetta di legno, stappare una Heineken, Spank che mi porta la pallina e aspetta un lancio. Rassegnarsi alla gente che passa col suo passeggino, un pallone, il giornale sotto il braccio. Ti accorgi che c'è la vita, intorno. Nelle vacanze degli altri, nell'odore di brace che arriva dai camper vicino alla rete di recinzione. E invece tu sei ferma, è inchiodata qui la tua vita, rinchiusa in questo spazio provvisorio, in questa pausa delimitata da una ventina di picchetti conficcati nella plastica. Cosa farò domani? Anzi ora, adesso. Che faccio? Che facciamo, Spank? Saranno quaranta minuti che siamo su questa plastica, immobili, io e Spank. Io a fissare i ricordi, lui la sua pallina, sbavata ai miei piedi nell'illusione di un volo. Mi guarda. Lo guardo. Mi alzo. Intasco il Golden Virginia, le chiavi della Twingo. Aggancio il guinzaglio nero e butto una All Star davanti all'altra in una direzione a caso. Anche quando hai le gambe molli e l'anima esausta. Anche quando vorresti chiudertici dentro, alla tenda che hai appena montato, tirare su la cerniera e rimanere lì, in attesa. Seduta a gambe incrociate con in mezzo la testa del tuo cane e nient'altro. A morire di caldo fra ragni e plastica, le cosce che si appiccicano al materassino. E restarci per anni, millenni dentro quella pancia, mentre fuori cigolano le biciclette, l'acciottolio dei piatti nel pomeriggio. Ad aspettare che passi, che finisca o che torni ma che succeda qualcosa perché altrimenti muori. Anche quando ti senti così, non lo so cosa ti dice con quegli occhi, come fa, ma un cane riesce a darti una buona ragione per alzarti e camminare. Torniamo che è sera. Butto le scarpe impolverate sul telo verde, infilo le infradito con Spank che mi trotta intorno, è tempo di crocchette. Abbiamo camminato per ore senza sosta e senza meta fianco a fianco come uccelli migratori, ognuno coi suoi pensieri inutili. Mentre lui inzuppa il muso nella ciotola io mi apro una scatoletta di fagioli e una bottiglia di Tocai. Guardo i camper laggiù in fondo, vicino ai bidoni, raggruppati e compatti come un esercito. Stendono i loro tavoli formato famiglia nella strada e preparano il barbecue, l'odore acro della carne si mischia a quello di mare e pece portato dal vento. In risposta ai lampioni che frizzano loro accendono tutte quelle finestrelle rettangolari con le zanzariere e i costumi attaccati agli stendini ripiegabili. Sembrano tante piccole lucciole in quella terra di mezzo fra la spazzatura e i cessi, passeggeri in prima classe di un aereo che non vola più. Poi guardo la mia tenda, questo tetto di plastica che scrocchia al vento. Se ne sta lì innalzata in mezzo al nulla come la bandiera rossa sull'apice della Pania, sotto la croce. Anche lei a dimostrarmi che è fatta. Sono arrivata in cima."
Valentina De Luca
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