Tra le nuvole.
Il rombo dei motori si fa d'un tratto assordante e sovrasta quello ben più inquietante dei tuoni che, da oltre un'ora, si rincorrono con boati cupi e prolungati, tanto potenti da far salire il cuore in gola. Meno male, finalmente riusciremo a partire, pensa Mira. Scruta quel poco che riesce a vedere attraverso il piccolo finestrino opaco e solcato dalla pioggia e di soppiatto osserva anche Virginia, seduta alla sua sinistra, apparentemente impassibile. Il modo in cui stringe i braccioli del sedile, le nocche sbiadite delle sue mani tradiscono la sua apprensione. È in preda al panico, non per il viaggio, anzi per quello è molto eccitata, ma per i tuoni. Ci sono lampi ovunque, il cielo si illumina senza preavviso e il rumore le entra dritto nel cuore come una lama. Vorrebbe tornare bambina e sparire sotto le coperte, ma non può. È senza difese e questo non le piace affatto. Mira sa che ha paura dei tuoni perché una sera in cui avevano cenato insieme a casa sua, come era accaduto sempre più spesso negli ultimi mesi, un temporale improvviso aveva provocato un lampo di terrore nei suoi occhi scuri e fieri e un sobbalzo incontrollato. “Hai paura?” le aveva chiesto. Virginia aveva annuito dopo un breve attimo di esitazione. “Fin da piccola” aveva risposto. Per la prima volta, quella sera, era rimasta a dormire da lei, in un vero letto, tra lenzuola morbide e pulite a cui da tempo non era più abituata. Adesso Mira legge in lei la stessa paura, la intuisce dal suo corpo contratto, dal modo in cui si tormenta le labbra risucchiandole all'interno della bocca. Sotto la sua scorza indurita e adulta, Mira intravede la bambina che è, i suoi vent'anni, e trattiene a fatica un moto di tenerezza. Vorrebbe stringerla, accarezzarla e rassicurarla, ma non osa muoversi, né sfiorarla. Le spie della cintura di sicurezza, lassù, sotto il portabagagli, si accendono. Una voce femminile declama le solite spiegazioni, mentre una hostess in carne ed ossa si sbraccia per mimare istruzioni che restano oscure per Mira e, ancor più per Virginia che viaggerà in aereo per la prima volta. “Spegni il cellulare e allaccia la cintura” le suggerisce Mira che ha già esperienze di volo. Adesso è lei ad essere tesa e nervosa, non ha mai amato volare. Ad ogni decollo e ancor più ad ogni atterraggio, si trasforma in una visionaria e ha premonizioni di velivoli in picchiata e schianti al suolo. Adesso però si sta sforzando di dominare e soprattutto celare quello strano movimento che avverte all'altezza di stomaco e gola. Tenta di sembrare rilassata e tranquilla, soprattutto per non spaventare Virginia. Ma è una preoccupazione inutile la sua perché, dopo aver armeggiato un po' con la cintura, Virginia prende ad agitarsi sul sedile, appiccica il viso al finestrino, le rivolge un aperto sorriso, torna a guardare fuori, mentre l'aereo inghiotte la pista ad una velocità sempre più vertiginosa. Sembra felice come una bambina alle prese con il giocattolo dei suoi sogni. Mira dimentica le sue paure e si diverte ad osservare la sua eccitazione. Non può non confessare a se stessa che si è davvero affezionata a questa ragazzina orgogliosa e diffidente, sempre schiva, che non ama parlare di sé, che non chiede e non pretende nulla, tanto tenera nonostante l'apparente durezza, forte e fragile allo stesso tempo. Non sa quasi nulla di lei in realtà, tranne quel poco che le ha concesso spontaneamente e casualmente. Come quella sera in cui, dopo cena, si era alzata d'un tratto dal divano del suo salotto e si era avvicinata alla colonna di vetro che raccoglieva i suoi cd. Con espressione assorta ne aveva tirato fuori uno e lo aveva osservato a lungo. “Ti piace Renato Zero?” le aveva chiesto infine con sofferta dolcezza. Mira aveva sollevato il capo e l'aveva guardata, sorpresa. “Sì, mi piace molto” le aveva risposto, trattenendo a stento una domanda e rimanendo in attesa. Virginia aveva continuato a fissare il disco in silenzio e proprio quando Mira aveva smesso di sperare in una sua replica e aveva ripreso a seguire il drammatico confronto fra Matt Damon e Robin William nel film che stavano guardando quella sera, lei aveva ripreso a parlare. “Mi ricorda mia madre. Era il suo cantante preferito. Non c'è più da quattro anni” aveva detto in un sussurro appena udibile, quasi come se stesse parlando solo a se stessa. Allo stesso modo, attraverso frasi spontanee e inattese, Mira aveva man mano scoperto che era andata via da casa un paio di anni prima, quando suo padre si era risposato, e che da allora viveva per strada senza fissa dimora, vendendo i suoi disegni, arrangiandosi come capitava. Un vuoto d'aria fa sussultare all'improvviso il grosso aereo, interrompendo i ricordi di Mira. Sobbalza, sale e scende, vibra, si inclina leggermente su un lato, poi sull'altro. Il segnale luminoso che indica la cintura è ancora acceso, stanno attraversando la perturbazione che quel pomeriggio ha provocato lampi e tuoni nei cieli di Fiumicino e di tutta l'Italia centro-meridionale. Non è inconsueta nel mese di ottobre. Presto se la lasceranno alle spalle, sono diretti a sud, verso l'estate perenne del Kenya. “Non preoccuparti, è normale con questo tempo” dice Mira, soprattutto per rassicurare se stessa. Virginia infatti non ha bisogno di conforto, non ha più paura, continua a guardare fuori dal finestrino, anche se non c'è niente da vedere dal momento che sono le sei del pomeriggio ed è quasi buio. Sono avvolti dalle nubi, le stanno attraversando. Gigantesche volute di fumo si avvitano su se stesse, si spandono, si contraggono, poi li sommergono o spariscono. Virginia ne è affascinata, ha sempre sognato di raggiungere le nuvole, di vederle da vicino, di toccarle, di perdersi dentro di esse, di lasciarsene trasportare completamente libera. Un pomeriggio di agosto, Mira era in piedi davanti alla mercanzia di lei sparsa su un panno spiegato direttamente sul marciapiede e aveva notato un portapenne di legno scolpito, pieno di matite. “È in vendita anche questo?” aveva chiesto, incuriosita e attratta da quell'oggetto. “No, quello no, quello è mio”. L'aveva preso in mano, si era alzata e pazientemente glielo aveva mostrato come una maestrina fa con una piccola allieva un po' ottusa. “Viene dall'Africa. Vedi questa? È un'aquila con le ali aperte, sta volando nel cielo, al di sopra dei monti e tra le nubi, lo vedi? È libera e felice, voglio essere come lei. La libertà è il bene più prezioso...” Virginia lascia spesso le frasi in sospeso, come se desiderasse aggiungere altro. Molte volte Mira si è sorpresa ad attendere un seguito che, però, è arrivato di rado. “Guarda Mira, guarda quante nuvole” le sta dicendo, festosa. “Io non vedo niente” replica Mira, divertita. Il segnale luminoso si è finalmente spento, possono slacciare le cinture. Devono aver superato la perturbazione perché l'aereo ha ripreso il suo assetto normale e viaggia sicuro e silenzioso. “Sembra di essere fermi” dice Virginia che ha smesso di contorcersi per guardare fuori dal finestrino. Oramai è buio pesto. Il film sta per cominciare. Le cuffiette, che la hostess ha distribuito poco prima e che entrambe indossano, diffondono nelle loro orecchie la voce di Mel Gibson che parla in inglese. Hanno avuto la possibilità di scegliere una versione in francese, in arabo e perfino in tedesco, ma niente italiano. Virginia fa fatica a seguire, il suo inglese è molto scolastico, ma forse non le importa nemmeno. La gioia le si legge in viso, è il suo film preferito, lo conosce talmente bene che non ha bisogno di capire ogni parola, le basta vedere in scena ancora una volta le gesta del suo idolo, quel Wallace che, ad un certo punto, in groppa al suo destriero e con il viso dipinto di blu, trascinerà la sua gente in battaglia urlando a gran voce. Non scorderà mai la prima volta che ha guardato questo film. Era stata letteralmente conquistata dalla forza di quest'uomo, aveva pensato a come quella storia potesse aiutarla a superare i suoi limiti e a vivere senza paure. Aveva ammirato il suo coraggio fino alla commozione, aveva cercato a lungo una motivazione che la spingesse oltre, a vivere solo della sua arte e l'aveva trovata in quella frase che Wallace aveva rivolto alla sua gente, quella frase che era diventata il suo motto, che aveva riportato nei suoi quadri e nella sua vita. Mira invece conosce l'inglese abbastanza bene, a vent'anni ha passato alcuni mesi a Liverpool come ragazza alla pari, poi ha avuto tante occasioni per praticarlo, anche per motivi di lavoro. Con le cuffiette, poi, è ancora più agevole comprendere le battute degli attori di un film che è prevalentemente di azione. Tuttavia si distrae facilmente, continua a chiedersi qual è il vero motivo che l'ha condotta su questo aereo diretto a Nairobi, alla ricerca della foto che potrebbe cambiarle la vita. Continua a tornarle in mente l'ultimo colloquio avuto alcune settimane prima con Franco Di Maggio, l'uomo per il quale ha lavorato per oltre vent'anni, che ha fatto di lei una brava fotografa, specializzata in servizi matrimoniali. “Con questa crisi economica, sono costretto a rinunciare ad alcuni dei miei collaboratori. Tu sei molto brava ma ...” Franco era imbarazzato. Mira lo aveva ascoltato in silenzio sforzandosi di celare la rabbia. Le aveva insegnato tutti i trucchi del mestiere, gli doveva indubbiamente molto, ma aveva lavorato per lui senza risparmiarsi così a lungo che non si aspettava di certo di essere liquidata in tal modo. Nei giorni seguenti, aveva riflettuto a lungo e si era sorpresa nel provare un certo sollievo al pensiero di non essere più costretta a fotografare coppie felici. Aveva rinunciato ai beni della sua famiglia benestante tanti anni prima, quando aveva deciso di tagliare tutti i ponti con una madre alcolista e instabile e un padre indifferente, ma quella somma di denaro ricevuta in eredità dalla sua amata nonna paterna era ancora al sicuro in banca e le offriva una certa serenità. Il sollievo era però misto a sgomento poiché si era resa conta che la sua vita, alla soglia dei cinquant'anni, era ad una svolta, anche se non aveva la più pallida idea di quale fosse. Di solito, alla sua età, la maggior parte delle donne ha già fatto le scelte più importanti della propria vita, lei invece era nuovamente al punto di partenza e non sapeva davvero se doveva rammaricarsene o rallegrarsene. “Guarda, hai visto? Hai sentito? Ha detto: non ci toglieranno mai la libertà”. Virginia le sta scuotendo il braccio per attirare la sua attenzione. Mira le sorride annuendo. Sì, ha detto proprio così, sembra volerle dire. Il film sta per terminare. Tra poco atterreranno sulla pista dell'aeroporto della capitale egiziana. Faranno uno scalo senza cambiare aereo e ripartiranno subito dopo. “È un peccato essere stati qui e non aver potuto visitare la città” dice Mira quando ormai l'aereo è nuovamente in volo e lei si è tranquillizzata. Virginia alza le spalle con una smorfia di indifferenza. Lei ha un'unica meta, un'unica priorità, vuole scoprire la savana africana e i suoi abitanti, uomini e animali. Li ama in modo viscerale, anche se li conosce solo attraverso i libri e i documentari televisivi, che ha divorato fin da bambina. Mira sorride ripensando al momento in cui le aveva detto che avrebbero fatto insieme questo viaggio in Africa. Si era alzata tardi quel mattino di tre settimane prima. Era uno dei vantaggi derivanti dal licenziamento, non aveva più obblighi nei confronti di niente e di nessuno, poteva fare tutto ciò che voleva, ma cosa voleva davvero? Di certo era stufa di fotografare coppie di sposi. Ci aveva riflettuto a lungo e desiderava mettere la sua arte al servizio di foto più significative e interessanti. Finalmente avrebbe potuto dedicarsi alla fotografia free lance come desiderava da tempo, raccogliere un cospicuo numero di immagini da proporre alle agenzie di archivio o da collezionare per la propria personale soddisfazione. Del resto, nel poco tempo libero, aveva già cominciato a farlo da alcuni anni. Si stava tormentando ormai da giorni, ma quel mattino tutto le era apparso improvvisamente chiaro. Voleva fare un viaggio che le offrisse l'opportunità di scattare splendide foto e, se fosse riuscita nel suo intento, avrebbe partecipato ad un importante concorso fotografico internazionale. Non le restava che scegliere la meta. Quella stessa mattina era andata a trovare Virginia a piazza Navona, dove la ragazza era solita esporre i suoi quadretti. Disegnava di tutto, ma il soggetto prevalente dei suoi lavori era l'Africa. Le si era seduta accanto, sul marciapiede, e aveva atteso in silenzio osservando la semplicità con cui tratteggiava paesaggi raffiguranti la savana, gli indigeni e gli animali selvaggi che la popolano, come se ne avesse una profonda esperienza diretta. Aveva ammirato la naturalezza con cui lasciava scorrere la matita sul cartoncino bianco e creava dal nulla il suo personale mondo fantastico. Era davvero sorprendente. In quell'istante un'idea un po' folle aveva preso forma nella sua mente. “E se andassimo in Africa insieme?” aveva buttato lì senza troppa convinzione. Virginia aveva smesso di disegnare e aveva sollevato il capo in cerca di un indizio che le provasse che si trattava di uno scherzo. “Dico sul serio” aveva aggiunto Mira per fugare ogni dubbio. La reazione di Virginia l'aveva spiazzata. Credeva che avrebbe suscitato l'entusiasmo della ragazza, invece lei aveva ripreso a disegnare quasi con indifferenza. “Non ho soldi” aveva replicato. “Non te ne servono, penso a tutto io.” “No, grazie” aveva ribadito con un tono che non ammetteva repliche. Testarda e tanto orgogliosa, pensa Mira lanciandole un'occhiata affettuosa. Virginia dorme, è notte oramai. Mira si guarda attorno, quasi tutti i passeggeri dormono, c'è un gran silenzio. Anche i bambini hanno smesso di piangere o rumoreggiare. Solo il lieve rombo dell'aereo, attutito e regolare, li accompagna in questo viaggio tranquillo. La testa di Virginia scivola impercettibilmente verso la spalla di Mira, il suo corpo è rilassato, i tratti del viso distesi, la bocca semiaperta. Appare vulnerabile, indifesa e tanto dolce, ma Mira sa bene che è testarda come una calabrese. Sa quanto è stato faticoso convincerla a partire con lei. Per un'intera settimana aveva dovuto ripeterle che non le stava facendo un favore, ma che piuttosto glielo stava chiedendo. Le aveva spiegato e rispiegato che non aveva voglia di affrontare questo viaggio da sola, che aveva bisogno di una compagna, che, per dirla tutta, aveva un po' paura. Quando le sue difese erano finalmente crollate mettendo a nudo la sua anima, solo allora, Virginia le aveva buttato le braccia al collo mostrandole tutto il suo entusiasmo per quel viaggio che avrebbe realizzato il suo sogno più grande. I ricordi si dissolvono nell'incoscienza, anche Mira è scivolata pian piano nel sonno mentre l'aereo vola con il suo carico umano ad una velocità di 900 chilometri all'ora, immerso nel buio della notte. Si risveglia solo dopo qualche ora avvertendo un peso sulla spalla sinistra. Intontita dal sonno, impiega alcuni secondi prima di rendersi conto che Virginia dorme seraficamente, appoggiata su di lei. Non osa muoversi per non disturbarla, mentre il suo istinto materno negato si ridesta insieme alla sua mente assopita. “Desidero avere un figlio” aveva urlato furiosa, quel drammatico mattino di alcuni anni prima in cui aveva messo la parola fine a un decennale rapporto sbagliato che le aveva tolto tanto senza darle mai nulla in cambio. “Io no, ne ho già tre, di figli” le aveva risposto seccamente Giorgio, con ostentato distacco. Oramai aveva capito che stavolta lei faceva sul serio e lo stava lasciando per sempre. Mira ripensa con amarezza a quella triste storia. Non prova più rabbia verso quell'uomo egoista e infantile del quale, per anni, aveva voluto fidarsi contro ogni logica e ogni buon senso, ma non riesce a capacitarsi di essere stata tanto stupida da credere che, prima o poi, lui avrebbe lasciato sua moglie e il suo bel quadretto familiare, tanto perfetto quanto falso. Non le manca affatto la presenza di un uomo al suo fianco, ma rimpiange di non aver avuto figli. Si intenerisce ancora guardando Virginia, osservando il suo respiro regolare, sentendo il suo soffio caldo sul collo e la carezza dei suoi capelli biondi sul viso. Inaspettatamente, il destino aveva mandato sul suo cammino questa ragazzina che, fiduciosa, adesso le dorme addosso. Mira la rivede su quel marciapiede di piazza Navona, seduta all'indiana, intenta a disegnare dietro ai suoi quadretti venduti a pochi euro. La prima volta che l'aveva vista, indossava una t-shirt rosa e un paio di jeans bucherellati ed era ripiegata in avanti su se stessa con alcune ciocche di capelli che le ricadevano mollemente sul viso accaldato, coprendoglielo parzialmente. Era un mattino di luglio talmente afoso che i numerosi turisti stazionavano sfiniti attorno alle fontane, quasi incapaci di proseguire il loro tour della città. Virginia occupava un piccolo spazio tra un pakistano che se ne stava ritto in piedi dietro una bancarella di monili e un artista romano che, seduto su una sedia pieghevole, faceva caricature ai turisti. Mira stava frettolosamente attraversando la piazza quando aveva scorto quella poetica figuretta, immersa in un universo parallelo. Armata, come sempre, della sua inseparabile macchina fotografica, aveva avvertito l'impulso irrefrenabile di scattarle una foto, si era bloccata di colpo e, ancor prima di riflettere, aveva premuto il pulsante. Chissà cosa aveva spinto Virginia a sollevare il capo proprio in quell'istante, forse aveva creduto che si trattasse di un potenziale cliente, forse aveva sentito su di sé il suo sguardo insistente, fatto sta che, non appena si era resa conto di essere stata fotografata, era balzata in piedi con uno scatto felino e l'aveva aggredita verbalmente come una furia. Mira si era sentita colta in fallo e si era dispiaciuta, ma soprattutto si era sorpresa per quella reazione forse anche un po' eccessiva da parte di una ragazzina che, a prima vista, le era sembrata tanto fragile e indifesa. Aveva fatto di tutto per rabbonirla e, per rimediare e farsi perdonare, aveva cancellato la foto e comprato uno dei suoi quadretti. Le sembra incredibile che quella stessa ragazzina furente, adesso, a distanza di poco più di un anno da quel giorno, stia dormendo al suo fianco, fiduciosamente abbandonata sulla sua spalla e, cosa ancora più incredibile, che lei si senta così felice per questo. Il cielo è ancora scuro ma, guardando attentamente attraverso il finestrino, Mira si accorge che si possono già distinguere le nubi. Sembra una distesa infinita di cumuli di lana color grigio fumo, mentre all'orizzonte si profila già una striscia sottile di cielo celeste chiaro. Virginia sarebbe di sicuro felice di guardare un tale spettacolo. Mira la scuote con delicatezza per svegliarla, lei apre gli occhi a stento, sbadiglia, si tira su ma, non appena lancia un'occhiata fuori, si ridesta di colpo e ritrova l'entusiasmo della sera prima. “Guarda Mira, guarda laggiù. C'è una pozza di luce, sembra un lago tra le nuvole” esclama entusiasta. È vero, sembra un luogo magico che custodisce il mistero della sorgente della vita. Mira non sa resistere alla tentazione di fotografarlo, nonostante il finestrino sporco. Nel volgere di pochi minuti, da quella pozza di luce fuoriesce un disco incandescente che incendia le nuvole intorno in quello che ha tutte le caratteristiche di un tramonto al contrario. Ormai il giorno ha scacciato l'oscurità, le nuvole sono diventate candide e lattiginose, distese di neve per sciatori instancabili. Virginia non riesce a staccare gli occhi da così tanta bellezza neanche per un istante, come se fosse ipnotizzata, come se fosse persa in un'altra dimensione da cui è impossibile ritrovare la via del ritorno, sorda ad ogni altro richiamo. Mira ha smesso di fare foto, non vuole disturbare la sua concentrazione e il piacere che sta provando. Il segnale luminoso delle cinture intanto si è riacceso, l'aereo sprofonda tra le nuvole, poi comincia la sua discesa verso l'aeroporto internazionale di Nairobi Jomo Kenyatta, sulla cui pista, fra poco, finalmente si poserà.
Tra stupori e delusioni.
La strada scorre come un nastro mobile senza intoppi. È dritta e le due eleganti corsie sono separate da un prato verdeggiante, come non ci si aspetterebbe di trovare in un paese africano a cavallo dell'equatore. Si incominciano già ad avvistare le alte costruzioni della città. Si stagliano in un cielo azzurro punteggiato di nuvolette candide, sospese al di sopra dei grattacieli, come cappelli improvvisati. Sulla destra Mira riconosce la forma cilindrica del Kenyatta Conference Centre, uno dei più alti e interessanti edifici della città con i suoi 33 piani e l'aspetto singolare di una capanna africana tradizionale. Mira però non può distrarsi, né contemplare il paesaggio perché non è abituata a guidare sulla sinistra, all'inglese. È molto tesa, concentrata e silenziosa. Virginia invece divora con gli occhi tutto ciò che vede e si contorce sul sedile per non lasciarsi sfuggire niente. Un paio di ore prima sono atterrate sulla lunga pista di quell'aeroporto dalla forma circolare che, attraverso uno squarcio tra le spesse nubi, era parso sbucare fuori dal nulla, nel bel mezzo della grande pianura. Un brivido di freddo le aveva colte scendendo dall'aereo, nonostante i vestiti non proprio leggeri dell'autunno italiano. “Non dovrebbe fare caldo in Africa?” aveva chiesto Virginia, sorpresa. “Sì, dovrebbe, ma è ancora presto e considera anche che siamo a 1600 metri di altitudine” le aveva risposto Mira. Si erano ritrovate all'interno di un aeroporto moderno, pulito e ordinato. “Sembra di essere in Europa” aveva esclamato Virginia, un po' delusa. “È l'aeroporto internazionale della capitale, cosa ti aspettavi, i leoni sulla pista?” l'aveva presa in giro Mira. “Però in Europa non ci sono sculture di elefanti” aveva aggiunto, indicandole un paio di zanne in legno appese ad una delle pareti del lungo corridoio. Un'enorme scritta in inglese: Smile. You're in Kenya aveva dato loro il benvenuto. Avevano sbrigato tutte le formalità, dal controllo dei passaporti al visto di ingresso, avevano cambiato gli euro in scellini kenioti, comprato una cartina di Nairobi e del paese e affittato la jeep sulla quale adesso stanno viaggiando. Un mezzo discretamente nuovo, con ben due ruote di scorta in buono stato appese sul retro dell'auto. Speriamo che bastino, aveva pensato Mira, sentendo affiorare un pizzico del suo consueto pessimismo. Ora stanno percorrendo la A 109, la Mombasa Road che collega la capitale alla costa orientale. La città le accoglie con il suo traffico caotico e Mira è sempre più tesa. Quando un matatu, sorta di minibus a 14 posti, la sorpassa sulla sinistra, impiega qualche secondo di troppo prima di rendersi conto che non avrebbe dovuto farlo. Bloccata dietro vecchi camion fumosi, ha la sensazione di trovarsi in mezzo a tanti autisti ubriachi che non hanno alcuna intenzione di rispettare le regole della strada. Al confronto, Roma le sembra la città più disciplinata del mondo. “Dimmi quando incrociamo Kenyatta Avenue” dice a Virginia che sta armeggiando con la cartina della città. “Eccola, eccola, era quella”. Mira prosegue dritto e poco dopo svolta a destra, poi ancora a destra e finalmente si ferma davanti ad un imponente edificio azzurro di sette piani. “Ma qui si chiama tutto Kenyatta?” chiede Virginia mentre scendono dalla jeep. “Eh sì, perché il primo presidente del Kenya si chiamava Kenyatta. Ha lottato molto contro il dominio coloniale britannico e quindi...” L'ingresso dell'hotel è situato proprio all'angolo smussato fra due ampie vie e un bel sole ridente campeggia accanto al nome dell'albergo. Mira e Virginia vi entrano con il loro magro bagaglio, appena due borsoni e due zainetti, e vengono accolte da un uomo in giacca e cravatta che le accompagna nella loro camera al terzo piano, già prenotata dall'Italia. “Siete donne sole? Dovete fare attenzione, soprattutto la sera e la notte” dice l'uomo in inglese. “Domani mattina andremo già via, ma staremo attente, grazie” gli risponde Mira, uscendo dall'ascensore. La camera è piccola e spartana. Il letto matrimoniale, appoggiato alla parete dell'ampia finestra, è ricoperto da un copriletto a righe verticali con motivi e colori dall'ispirazione vagamente africani, uguali a quelli della tenda. Sul lato destro vi è un unico comodino. Un piccolo tavolo, una sedia e un armadietto completano il semplice arredamento della camera. Sopra il letto, appesa al soffitto e per il momento arrotolata, una leggera e trasparente tenda bianca farà da zanzariera, ricordando a Mira e Virginia che la malaria è uno dei rischi a cui si potrebbe andare incontro durante un soggiorno in Kenya, soprattutto quando non si è fatta, come nel loro caso, una profilassi antimalarica. Non appena chiudono la porta, però, Virginia resta immobile per alcuni istanti a contemplare il letto. Sembra perplessa e contrariata. “Cosa c'è?” chiede Mira, sorpresa. “C'è un solo letto.” “Sì, è vero. Lo so, è una camera piccola e bruttina, ma è l'albergo più economico e più decente che ho trovato in centro. In compenso possiamo andare subito a fare un giro in città. Ti va?” Mira ha tirato fuori dalla sacca vestiti più leggeri e si sta cambiando. “Certo che mi va” le risponde Virginia distrattamente. Continua a fissare il letto, come se stesse cercando la soluzione ad un problema molto serio. “Ehi, c'è perfino l'acqua calda” dice Mira dal minuscolo e antiquato bagno. “Te l'ho detto che sembra di essere in Italia” ribatte Virginia, mentre d'un colpo solleva il copriletto e le lenzuola, ammucchiando tutto su un lato. Il sollievo le si stampa in viso quando si accorge che i letti sono due. Con una rapidità sorprendente sposta il comodino verso destra, separa i letti e li rifà usando un lenzuolo per ciascuno. Poi ripiega il copriletto e lo poggia sul letto di sinistra, accanto al muro. “Lo userai tu, a me non serve” dice a Mira che la sta guardando divertita, appoggiata allo stipite della porta del bagno, le braccia conserte. Poi Virginia si butta, soddisfatta, sul letto di destra sprofondando su un materasso, a dir poco, troppo morbido. Non le importa, è abituata a vivere per strada e le comodità non le mancano affatto. “Bello, bello, bello!” esclama, felice. Poco dopo, sono per le vie di Nairobi in mezzo ad una moltitudine di persone. Devono avere scritto in faccia che sono turiste appena arrivate perché, dopo pochi passi, un giovane nero propone loro di accompagnarle in un'agenzia che organizza safari in uno dei tanti parchi nazionali della regione. Mira rifiuta cortesemente ma con fermezza. “Perché no? Sembrava gentile” dice Virginia. Mira scuote la testa. “Ma ci andiamo a fare il safari, vero?” “Ma certo. E cominceremo oggi stesso. Nel pomeriggio andremo al parco nazionale di Nairobi.” “C'è un parco nazionale a Nairobi? Con gli animali?” chiede Virginia, stupita. “Sì, sì, è a 7 chilometri da qui. Pensa che è l'unico parco nazionale al mondo che si trova così vicino ad una grande città.” Mira e Virginia passeggiano tra una quantità inverosimile di persone, arabi, africani, orientali, europei, che vanno e vengono per le vie del centro di questa città cosmopolita. Devono procedere a zig zag per evitare di sbatterci contro. Quasi urlano per sentirsi, costrette ad alzare il tono delle loro voci, sovrastate dagli insistenti clacson dei matatu e dalla musica assordante che fuoriesce dai negozi. Anche il traffico di mezzi è sbalorditivo. Una quantità infinita di bus e automobili, con il loro straripante carico umano, occupa ogni più piccolo spazio e ingorga ogni via. Un lamento dall'alto le guida verso il maestoso complesso architettonico della moschea Jamia, con i suoi due minareti laterali, coperti da bulbi argentati, una delle più belle del mondo musulmano. Il loro timido tentativo di visitarne l'interno non va a buon fine, bloccato all'ingresso del luogo sacro dalle parole cortesi, ma risolute di un uomo con una tunica lunga e il capo coperto da una guthra bianca: “I non musulmani non possono accedere nella moschea durante una funzione religiosa”. Mira e Virginia si dirigono allora verso il mercato municipale che si trova a pochi passi dalla moschea e si immergono nei colori, nei suoni e negli odori di questo angolo di Africa. Vi si trova di tutto, dal cibo all'abbigliamento ai tradizionali souvenir: gioielli in pietra dura, oggetti, scatole, maschere di ebano lavorato, batik colorati, pelletteria, tamburi e altri oggetti spacciati come autentico artigianato masai, e soprattutto statuette di pietra saponaria. Sono talmente belle, calde e artistiche che Mira, di solito refrattaria all'acquisto di souvenir, ne è affascinata e, dopo lunghe, estenuanti e divertenti trattative, finisce con l'acquistarne due, una madre e un bambino intrecciati per sé e un piccolo bufalo cafro per Virginia. Una bancarella in particolare stimola il loro olfatto e il loro appetito. L'odore è così buono che pranzano con delle sambusas, frittelle triangolari ripiene di carne macinata o di verdure, di origine araba. Infine tornano in albergo per riposare un paio di ore. Mira sprofonda subito nel sonno, ma non prima di essersi lamentata del materasso troppo morbido. Virginia invece non ci pensa proprio a riposare e, seduta all'indiana sul suo letto, così come era solita fare sul marciapiede di piazza Navona, si mette a disegnare. Il suo borsone infatti non è pieno di vestiti, ma di fogli di cartoncino bianco o nero, di matite e colori. Non li porta in giro con sé, non ne ha bisogno perché è dotata di una straordinaria memoria fotografica. Lei non disegna quello che vede, ma quello che la sua mente rielabora in modo originale e personale. È una vera artista, Virginia. Mira invece ha sempre con sé la sua fotocamera, fotografa ciò che vede dalla sua prospettiva, cogliendo colori, significati e dettagli, trasformando l'obiettivo in uno sguardo ricco di sfumature che tenta di penetrare nell'anima di cose e persone. Alle tre del pomeriggio sono nuovamente in auto, dirette al parco nazionale di Nairobi. Virginia è su di giri, non sta nella pelle, non vede l'ora di scoprire la sua Africa, quella che ha sognato per anni, quella che è incisa fra le anse del suo cervello, scolpita nella sua mente come l'aquila in volo lo è sul suo portapenne. Molte persone vengono colpite dal mal d'Africa dopo aver soggiornato in Kenya o in altri paesi africani, Virginia però non rientra in questa categoria. Lei è nata con il mal d'Africa, se lo porta dietro forse da una vita precedente, lo ha coltivato ancor prima di avere messo piede in questo straordinario paese che deve ancora scoprire, ma di cui è già perdutamente innamorata. Stanno percorrendo all'inverso la strada del mattino, ma stavolta svoltano subito per la Langata Road che le porterà all'ingresso del Nairobi Safari Walk. Dopo pochi chilometri, però, il loro sguardo è catturato da qualcosa di indefinibile, un'enorme distesa di quadratini marroncini che si estendono a perdita d'occhio, in una massa informe laggiù, a destra della strada. “Ma quella non è Kibera?” chiede Virginia. “Sì, penso proprio di sì”. “Ci andremo?” “Vorresti andarci? Ne sei sicura? Non è un bel posto, lo sai...” “Voglio andarci”. È un tipo risoluto, Virginia. Sa quello che vuole e Mira non desidera altro che accontentarla. “In albergo ho dei recapiti, quando torniamo vediamo cosa si può fare. In ogni caso, non è un posto dove possiamo andare da sole... Per ora, godiamoci il nostro safari, ok?” Una sorta di grande capanna di legno dal tetto a triangolo le accoglie per il Nairobi Safari Walk. Hanno deciso di lasciare fuori la jeep e seguire questo percorso guidato a piedi. All'esterno della capanna sulla sinistra c'è un grande cartello verde con tutte le istruzioni che riguardano il parco. Mira sorride vedendolo. “Guarda” dice a Virginia, “c'è il simbolo del Kenya Wildlife Service, un elefante, proprio qui, dove l'unico animale che manca è proprio l'elefante.” È un piccolo parco quello di Nairobi, delimitato su tre lati, a nord, a ovest e a est, da una recinzione elettrica per proteggere la città, ma ci sono tutti gli animali tipici della savana: leoni, leopardi, bufali, giraffe, gazzelle, zebre, gnu, eland e perfino rinoceronti neri che, anzi, qui sono talmente numerosi da rifornire anche altri parchi nazionali del paese. A sud il confine del parco è delimitato dal fiume Mbagathi ed è libero per consentire le migrazioni stagionali di gnu e zebre. Nel fiume sono presenti coccodrilli e ippopotami. Anche paesaggisticamente si trovano in questo parco i principali habitat del Kenia, dalla foresta fluviale alla savana alla foresta tropicale secca nella parte più settentrionale. Tutto ciò non basta a soddisfare Virginia. “Cosa? Una recinzione elettrica? Ma che posto è? Dove stiamo andando? In uno zoo?” protesta, palesemente irritata. “Non è uno zoo, gli animali sono liberi...” “Sì, liberi di muoversi in una gabbia più grande...” Per Mira, questo parco sarebbe l'ideale: piccolo e pratico, selvaggio ma addomesticato alle esigenze umane, un breve e semplice compendio di tutto ciò che offre il Kenya, a due passi dalla città. Dice di amare la natura e l'avventura ma forse più in teoria che in pratica e di sicuro preferirebbe non rinunciare alle comodità cittadine. L'irritazione di Virginia invece cresce alla vista della passerella di legno che dovranno percorrere. È ampia e comoda come un'autostrada, sopraelevata e recintata ai due lati e all'inizio vi sono gabbie grandissime. Poi però man mano che procedono, il paesaggio si apre in splendide viste e dalla comoda passerella si possono avvistare quasi tutti i tipi di animali che sono ospitati nel parco. Il primo ad essere scovato è un leone che se ne sta placidamente accovacciato sotto un albero a sonnecchiare, ma ciò che attrae l'attenzione di Virginia, di Mira e degli altri turisti è una numerosa famiglia di scimmie che li scruta da lontano. Anche se questa passeggiata addomesticata non è quello che desidera veramente, l'entusiasmo di Virginia si riaccende all'improvviso davanti ad una grossa scimmia dal pelo beige che, imperturbabile, passeggia sul bordo della protezione laterale della passerella proprio davanti a lei. Procede lentamente a quattro zampe, incurante del vuoto sottostante e del pericolo. Poi accelera di colpo e scompare su un albero. La passerella serpeggia tra la vegetazione e a poco a poco riescono a scorgere, su ampie collinette erbose ed alberate, un bellissimo esemplare di leopardo, bonghi e zebre albine che difficilmente si possono vedere negli altri parchi nazionali, gazzelle e struzzi e soprattutto, in lontananza, un enorme rinoceronte nero. Mira, però, sta cercando qualcos'altro e finalmente lo trova. “Guarda Virginia, non è pazzesco?” Una giraffa sta passeggiando lentamente con la sua andatura elegante e oscillante che l'aiuta a sostenere il lunghissimo collo, talmente alto da superare i grattacieli di Nairobi che appaiono dietro di lei come un miraggio nel deserto, avvolti dalla foschia tremolante dello smog cittadino. “In quale altro luogo del mondo si possono vedere animali selvatici con uno sfondo di grattacieli?” esclama Mira. Virginia alza le spalle, ma Mira non se ne accorge perché sta fotografando quella che, per lei, è una visione fantastica e surreale. In quel momento un jet attraversa il cielo con il suo rombo assordante, diretto al vicino aeroporto. Per fortuna, le foto non registrano i rumori. Virginia si accorge, con una fitta al cuore, che gli animali restano indifferenti a tanto frastuono, evidentemente sono ormai abituati. Non sa bene perché, ma tutto ciò le appare insensato e perfino degradante. Non riesce a nascondere la sua delusione, né il sollievo di andar via. “Un po' di pazienza, Virginia, vedrai che troveremo quello che stai cercando. Siamo venuti qui più per me che per te ed è solo la nostra prima tappa” le dice Mira per consolarla, mentre ritornano alla jeep. Kibera
Incontrano James davanti all'albergo. Questa mattina la luce filtra appena attraverso le spesse nubi nere, il grigiore si confonde con lo smog e smorza ogni colore, rendendo tutto uniforme. Però non piove. James ha 22 anni, è un ragazzo di Kibera che ha avuto la fortuna di poter studiare grazie ad un'associazione per la quale adesso porta avanti iniziative a sostegno dello slum più grande del Kenya. Ieri sera Mira ha contattato la sua associazione, manifestando il desiderio di visitare Kibera e ora James è lì ad accoglierle con il suo bel sorriso, pronto ad accompagnarle e a guidarle nella baraccopoli dove vive ancora con sua madre e i suoi fratelli. Arrivano nello slum con un matatu spericolato e sovraccarico di persone e subito comprendono che l'enorme distesa di quadratini marroncini, vista il giorno prima, altro non è che l'insieme dei tetti di lamiera arrugginita di queste tane quadrate di tre metri per tre, senza finestre, che sono le case ammassate di Kibera. James intende condurle a casa sua attraverso uno stretto sentiero. Mira esita, tutto in lei si rivolta e la spinge a fuggir via da questo luogo, a voltare le spalle e chiudere gli occhi a questa realtà inimmaginabile e inenarrabile. Virginia, invece, segue senza esitazioni James. Ma è difficile, non ci sono strade a Kibera, solo stretti e scomodi sentieri in terra battuta, pieni di fango quando piove. Accanto a questi percorsi insidiosi e ricoperti di immondizia, scorrono fiumiciattoli di un liquido nero, denso e terribilmente puzzolente. James si muove con agilità, Virginia e Mira invece saltellano a fatica per evitare i cumuli di questo composto melmoso e scivoloso e la spazzatura sparsa ovunque. Mira ricorda di aver letto che questi slum sono fogne e discariche a cielo aperto, ora comprende il perché. Vorrebbe tapparsi il naso con una mano, ma ha paura di perdere l'equilibrio e di scivolare nel fiumiciattolo. In certi punti è così ampio che ci sono delle assi di legno messe di traverso a formare una specie di ponticello. Ogni tanto si vedono delle donne chine che cercano di liberarlo da pezzi di copertoni, sacchetti di immondizia o quant'altro potrebbe ostruirne il corso, riversando quel liquido maleodorante nelle loro povere case. Si sale e si scende in continuazione, sfiorando con la testa i bassi tetti di lamiera, in alcuni punti così aguzza che potrebbe tagliare la carne in un istante. Virginia sembra a suo agio, ma anche lei è molto vigile e attenta. James ha spiegato loro che è facile prendere antipatiche infezioni, se si scivola nella melma. Quando arrivano nella via del mercatino, Mira si blocca di colpo, portandosi una mano al petto e tirando un sospiro di sollievo. “Aspettatemi” dice a Virginia e a James che la precedono. Anche qui la strada è sterrata e con tante buche, ma almeno è più larga e non c'è il temibile fiumiciattolo. Ci sono invece le botteghe, perfettamente identiche agli altri tuguri dello slum, e i banchetti che non sono altro che assi di legno poggiate su qualcosa. Vendono poca roba, qualche patata, pomodori, zucchine, alcuni pesciolini secchi o cibo fritto. Un banchetto espone tessuti, un altro bidoncini di plastica. Un cane, tanto magro da potergli contare le costole ad una ad una, si aggira tra i banchetti alla ricerca di cibo. Qua e là, svolazza una gallina. A vendere la poca merce ci sono soprattutto donne e ragazzini, del resto sono tantissime le mamme che abitano nello slum, spesso sole con quattro o cinque figli piccoli. I loro uomini le hanno abbandonate o sono morti di AIDS. Anche il padre di James è morto di AIDS quando lui aveva solo dieci anni. La vita media in questo luogo dimenticato da Dio e dagli uomini è di trent'anni. Virginia e Mira si avvicinano a un banchetto, sono sconvolte da ciò che stanno vedendo, dai racconti della loro guida. Vorrebbero aiutare queste povere persone, ma non sanno cosa fare. “Compriamo qualcosa?” suggerisce Virginia. Mira annuisce. “Matoke?” chiede con un sorriso una giovane donna, che dimostra più anni di quelli che ha. Virginia e Mira interrogano con lo sguardo James. “Vi sta offrendo queste piccole banane che si chiamano matoke. Sono molto gustose” spiega loro il ragazzo. “Potrebbero servirci nei prossimi giorni” dice Mira. Mentre la donna ne compra un casco intero, Virginia si è distratta e sta fissando un giovane alto e muscoloso che è appena arrivato con due grossi secchi. Deve essere il figlio dell'anziana signora che vende patate e cipolle crude e cotte nella bottega accanto. In effetti il giovane si siede su uno dei bidoni svuotati e capovolti e, con aria corrucciata e assorta, comincia a pelare le patate che ha appena trasportato. Quando, poco dopo, solleva la testa e i loro sguardi si incrociano, Virginia si sorprende nel leggere nei suoi occhi tutta l'ostilità e il risentimento che esprimono. Sembra un duello a distanza e i due continuano a fissarsi fino al momento in cui Virginia è costretta a riprendere il difficile percorso ad ostacoli con Mira e James. Ci sono bambini dappertutto, di tutte le età, i più piccoli in braccio alle sorelline più grandi. Giocano tra i rifiuti, tra lo scolo delle fogne, tra i panni stesi su fili appesi ai tetti di lamiera. Rincorrono una palla di stracci, attraversano come equilibristi un grosso tronco di albero, che serve da passerella per andare da una parte all'altra del fiumiciattolo, in un punto in cui il fosso è più profondo. “Guardate laggiù” dice Virginia. Una bambina è seduta su uno di questi tronchi nel tratto che poggia sul terreno, un'altra vi è seduta a cavalcioni, sospesa sul fiumiciattolo, un bambino è addirittura in piedi in bilico sul tronco. Agitano le manine per salutarli. “Accidenti, potrebbero cadere” dice Mira. “Non cadono, sono abituati” replica James. Un bimbo piccolo, di tre o quattro anni, gioca con una bicicletta senza ruote e senza sellino, solo un ammasso di ferraglia. Un altro si avvicina a Virginia e allunga la manina. Lei la stringe, poi lo prende in braccio e gli chiede in inglese come si chiama. “John” risponde il piccolo sorridendo, felice per il suo abbraccio caloroso. Poi le tocca la tesa del cappellino che indossa. Lei se lo toglie e glielo porge. “Lo vuoi?” gli chiede. Il bambino annuisce con gli occhi che gli brillano di gioia e lei lo mette sulla sua testolina. Altri bambini si sono avvicinati, i più grandi li guardano seri, diffidenti. Virginia chiede a James se possono fermarsi un poco con loro. Si sfila lo zainetto e tira fuori un cartoncino e una matita. Stamattina li ha portati con sé perché desiderava fare un ritratto ai bimbi di Kibera. Alcuni di loro la circondano, osservano il modo in cui disegna e ridono quando vedono che ha tratteggiato il volto di una delle bambine. “E' Jane, è Jane” gridano in coro. Jane si avvicina incuriosita, guarda il suo ritratto e ride. “Tieni, è tuo” le dice. “Volete disegnare anche voi?” I bambini annuiscono, felici. Mira e James li stanno guardando. Ammirano la naturalezza e l'amore con cui Virginia tratta questi bambini e li intrattiene come se non avesse mai fatto altro nella sua giovane vita. Si siede sul terreno spoglio in mezzo a loro, distribuisce cartoncini e matite colorate e mostra come usarli. Ha immaginato tante volte questo momento, lo ha desiderato fin da piccola, fin da quando guardava in televisione queste realtà tanto diverse dalla sua. E ora è qui, immersa in un paesaggio irreale, con bambini sporchi che la guardano incuriositi. Si sente a disagio perché è cresciuta avendo tutto, mentre ora guarda e tocca il nulla. Eppure, malgrado ciò, sente energia positiva dentro e fuori di sé. Si lascia travolgere e trasportare dal loro entusiasmo, gli offre quello che sa fare meglio, ritratti e caricature, disegnano insieme e per la prima volta si sente viva. Una sensazione strana, nuova le si espande dentro colmando tutti i vuoti, i punti oscuri e donandole un gran senso di pienezza e allo stesso tempo di dolore. Mira li sta fotografando. Un bambino che è rimasto un po' in disparte, le si avvicina. “Ni pige picha” le dice. “Vuole che tu gli faccia una foto” interviene James. Mira gli sorride e lo fotografa. Il bambino batte le mani mentre si guarda soddisfatto nel display della macchina fotografica. Virginia intanto si è rialzata e sta affidando a Jane il suo zainetto con i cartoncini e i colori rimasti. Anche Mira è turbata. Sta toccando con mano l'orrore che vi è in luoghi come questo, luoghi che calpestano ogni traccia di umanità e di dignità e condannano questi bambini a condizioni di vita disumane e degradanti, senza futuro, senza speranza. Non si può restare indifferenti a tutto questo, lei non ci riesce. Ora le sono tutti attorno. Vogliono essere fotografati. Ad ogni scatto, si raccolgono a guardare e parte una risata collettiva. “Dobbiamo andare” dice James. “Aspetta, ancora un attimo” dice Mira mentre scatta un'ultima foto di gruppo. Virginia prende le banane che hanno comprato poco prima e le distribuisce ai bambini. Ancora uno sguardo e un saluto a quei piccoli volti sorridenti, che riempiono il cuore di gioia, e alle loro manine sollevate e poi bisogna tornare a fare attenzione per non sprofondare nella melma. Poco dopo arrivano a casa di James. “In queste case di tre metri quadrati, sei, sette o più persone vivono insieme. Noi siamo più fortunati, siamo solo in quattro” dice il ragazzo. In questo momento c'è solo la madre, i suoi fratelli lavorano anch'essi per l'associazione, hanno seminato degli ortaggi lì vicino per mostrare a questa gente in che modo possono cercare di provvedere al proprio sostentamento. James invece si occupa di monitorare i bambini, li incontra, ne individua le problematiche, ma anche le predisposizioni e le attitudini. Ancora una volta, Mira preferirebbe sparire pur di non entrare in quel buco, ma ancora una volta fa violenza a se stessa per seguire James e Virginia. Impiegano qualche secondo prima di riuscire ad adattarsi alla scarsa luce che proviene dalla porta, ma forse per Mira sarebbe stato meglio continuare a non vedere. Le pareti sono annerite dalla fuliggine che si diffonde ad ogni cottura, il soffitto è di lamiera arrugginita. La piccolissima stanza è divisa in due da una vecchia tenda che adesso è ammucchiata su un lato: a sinistra ci sono due letti a castello, a destra la “zona giorno” con un piccolo tavolo, un paio di sedie di plastica e un divanetto mezzo sfondato. La cucina è una grossa pietra ad angolo con sotto un grande foro dove viene messo il carbone, a destra un incavo fa da lavandino. Naturalmente non c'è acqua, né corrente elettrica né servizi igienici, non ci sono armadi, né altri mobili. La madre di James fa accomodare le due straniere sulle sedie di plastica. Mira è tesissima, specie dopo aver visto un grosso ragno scappare nella direzione opposta alla sua sedia e infilarsi sotto uno dei letti. Per tanti anni dopo la morte del marito, l'anziana donna ha avuto un banchetto di frutta, anche se spesso non aveva niente da vendere. Adesso sono i suoi figli a provvedere a lei. “Sono bravi ragazzi” dice, stringendo fra le sue le mani di Virginia, “sono fortunata”. Sono mani ruvide, rugose, piene di calli e piccole cicatrici, mani che hanno lavorato per tutta la vita. Virginia sta fissando un dipinto appeso alla parete, ci sono tre palme, una spiaggia e il mare. “Lo ha fatto Robert, il più piccolo dei miei figli, è molto bravo, vero?” chiede con occhi che sprizzano orgoglio. “Sì, è vero, è molto bello” le risponde Virginia, commossa. “La sera e la notte qui diventa molto pericoloso” racconta James, “gli uomini si ubriacano e diventano violenti. Bisogna chiudersi in casa fino al giorno dopo. Dei sacchetti di plastica vengono utilizzati come servizi e l'indomani vengono buttati fuori, dove capita.” “Non tutti sono fortunati come noi,” dice ancora, “la nostra vicina Liza, per esempio, ha sei figli, lava vestiti e li rammenda per pochi scellini. I suoi ragazzi, anche i più piccoli, vanno ogni giorno in città a trascinare carretti o a lavorare nei cantieri o a mendicare, oppure rovistano tra la spazzatura in cerca di qualcosa da cui ricavare qualche scellino. È la normalità qui.” Mira ha dimenticato il ragno e le condizioni estreme di questa specie di casa, dove non avrebbe messo piede neanche sotto lauto compenso. Come Virginia, anche lei è commossa, ma anche molto triste e piena di vergogna. Pensa all'incapacità, sua e delle persone che vivono nel mondo del benessere, di godere di ciò che si ha, all'insoddisfazione perenne e crescente, alla dignità perduta, perduta in questi slum, in questi luoghi invivibili, sepolta dalla miseria di questa gente, dall'incapacità del mondo cosiddetto civile di reagire e lottare contro l'ingiusta esistenza di realtà come queste. “Io continuerò a lottare per la mia gente” sta dicendo James, “io ci credo, voglio continuare a credere che le cose possano cambiare e che, un giorno, posti come questo non esisteranno più. Ci sono molte associazioni qui, molti volontari, molte persone, anche italiani come voi, che vivono negli slum e si prodigano per aiutare la mia gente e questi bambini. La cosa più importante è non arrendersi, continuare a sperare. Pole pole, piano piano.”
Salvina Alba
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