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Autore: Domenico Del Coco
Il Quaderno di Madrid
Romanzo Storico
Lettori 3543 34 59
Il Quaderno di Madrid
Una guerra fratricida in una Nazione martoriata in passato da brevi e piccole rivoluzioni. È la Spagna degli anni '30. Alcuni giovani, tra cui anche tante ragazze, imbracciano un fucile. Combattono una guerra con tanti perché, tanto odio e tanta sete di democrazia. La guerra è il banco di prova non solo di una Nazione ma anche di tante Nazioni coinvolte in un territorio che per alcuni è divenuto il simbolo di avventura e ideale di democrazia. È la Guerra Civile Spagnola che anticiperà il secondo conflitto mondiale. Alcuni decenni successivi un giovane facendo una tesi scopre orrori che mai avrebbe potuto immaginare. E con quella tesi le vite dei repubblicani si intrecciano con quella del ragazzo che farà scoprire al lettore parole come democrazia e voglia di libertà. E nello svelare certe realtà non mancheranno colpi di scena. Il lettore non potrà fare a meno di scoprire quali misteri si celano dietro a un quaderno. Romanzo vivo e pieno di ritmo dove l'uomo lotta per necessità e per coraggio.

1936

Anno del Signore 1936.
La Guerra Civile spagnola del 1936-39, per la sua grande partecipazione, si può definire il preannuncio della Seconda Guerra Mondiale perché vede impegnate a sostegno delle due parti in lotta – più o meno direttamente e con diverso peso militare – da un lato Inghilterra, Francia e Urss, e dall'altro Italia, Germania e Portogallo. La Spagna, quindi, è il luogo del primo scontro armato tra fascismo e antifascismo, con gli italiani – le camicie nere di Mussolini da un lato, e gli oppositori del regime dall'altro – impegnati su entrambi i fronti. La Spagna degli anni Trenta è ancora una realtà precapitalistica, ad eccezione di alcune zone fortemente industrializzate. Ai pochi grandi proprietari terrieri, infatti, si contrappone la massa di braccianti agricoli, operai e minatori, tra cui trovano terreno fertile le idee e i movimenti socialisti; tra i ceti medi urbani, invece, si fanno strada, oltre a quelli socialisti, anche i movimenti democratico-repubblicani e anticlericali. Alle elezioni politiche del 1931 i repubblicani e i socialisti alleati ottengono una importante affermazione, che segna la caduta della dittatura di Primo de Rivera e del re Alfonso XIII. La destra cattolica, però, grazie anche al favore dell'esercito, torna al potere l'anno seguente. La situazione politica e sociale è incandescente. Nel 1934, per reprimere i moti insurrezionali dei minatori ottobre spagnolo , interviene la legione straniera comandata dal generale Francisco Franco. Due anni dopo, nel febbraio del '36, alle nuove elezioni politiche, le forze di sinistra tornano al governo grazie al primo esperimento di Fronte popolare ossia repubblicani moderati, socialisti, comunisti e cattolici baschi autonomisti. In estate però la situazione precipita: il 17 luglio le truppe di stanza nel Marocco insorgono ed il giorno dopo la rivolta si estende a tutto il paese. È l'inizio della Guerra Civile, con pesanti ripercussioni anche sul piano internazionale. Le forze governative, appoggiate da operai e contadini, stroncano la ribellione a Madrid, Barcellona e in molti centri industriali del Nord e dell'Est ma i ribelli riescono ad imporsi in Navarra, Galizia e Nuova Castiglia e ad occupare le principali città dell'Andalusia (Cadice, Cordoba e Siviglia). Nella sanguinosa guerra civile che si combatte in gran parte del paese sono contrapposti il governo repubblicano, che può contare sulle forze di polizia e masse di volontari in genere provenienti dalle regioni industriali, e le forze nazionaliste franchiste che riuniscono quasi tutti i quadri delle forze armate e le forze politiche nazionaliste, cattoliche e tradizionaliste. Il regime fascista italiano e quello nazista, prendendo spunto dall'assassinio del 13 luglio 1936 del monarchico José Calvo Sotelo, intervengono prima in forma quasi clandestina, appoggiando i militari ribelli che aderiscono al “pronunciamento” del generale Francisco Franco, poi in autunno in modo palese. Mussolini ed Hitler, uniti dal Patto d'acciaio dell'ottobre 1936, inviano notevoli rinforzi, e cioè uomini, armi e aerei a sostegno di Franco. Complessivamente gli effettivi italiani sono 78.846 tra esercito, marina e aviazione, di cui 6.000 caduti e 15.000 feriti. L'invio di aerei forniti da Hitler e Mussolini permette ai rivoltosi di trasferire sulla penisola l'Esercito d'Africa, le loro truppe più efficienti, che iniziano ad avanzare verso Madrid. Al cospicuo impegno di Italia e Germania, non corrisponde un eguale sforzo da parte di Inghilterra (governata dai conservatori che perseguono una politica di pace con la Germania) e Francia (governata sì da un fronte popolare formato da radicali, socialisti e comunisti, ma alle prese con pesanti difficoltà interne). Molto di più fanno l'Urss, che invia armi e consiglieri militari e organizza le Brigate Internazionali, e il Messico. In soccorso del Fronte popolare, si schierano anche i fuoriusciti italiani, gli antifascisti in esilio, soprattutto quelli facenti parte di Giustizia e Libertà (Carlo Rosselli organizza una colonna di volontari fin dall'estate del 1936), gli anarchici come Camillo Berneri; i comunisti confluiscono nelle Brigate internazionali, composte da uomini di diversa nazionalità ed anche di differenti tendenze politiche. La partecipazione dei volontari italiani, inquadrati nella Brigata Garibaldi, è consistente, circa 3.350 effettivi, e scendono in campo alcuni tra i maggiori esponenti dell'antifascismo: i comunisti Togliatti, Longo, Di Vittorio e Vidali, il socialista Nenni, il repubblicano Pacciardi. Guidate dal generale russo Emil Kléber, le Brigate internazionali hanno un ruolo determinante nella difesa di Madrid, distinguendosi nella battaglia di Guadalajara nel marzo 1937, dove si trovano di fronte gli antifascisti italiani del battaglione Garibaldi e i cosiddetti volontari fascisti del Corpo Truppe Volontarie, e nelle grandi offensive repubblicane su Belchite (agosto) e Teruel (dicembre 1937 - gennaio 1938) e sull'Ebro (luglio 1938). Nel fronte antifascista però non mancano contrasti e divergenze interne, specie tra comunisti e anarchici, che ne indeboliscono l'azione. Inoltre, se la guerra civile spagnola segna una prima generale mobilitazione delle forze antifasciste in Europa, il patto di non aggressione tra Germania e Urss del 1939 ne determina una secca battuta d'arresto, per ordine impartito dallo stesso Stalin ai comunisti europei; l'azione riprenderà con vigore solo con l'aggressione tedesca ai danni della stessa Unione Sovietica con il delinearsi dell'alleanza antinazista che vede Stalin impegnato al fianco delle democrazie occidentali. Nell'autunno del '38, su pressione delle democrazie occidentali impegnate nella politica di "non intervento", il governo repubblicano decide il ritiro dal fronte delle Brigate internazionali, tenendo una parata di addio il 29 ottobre 1938 a Barcellona. Dei 59.380 volontari accorsi in Spagna da cinquanta diversi paesi per combattere il fascismo, i caduti furono 9934 mentre 7686 furono feriti gravemente. Non riuscendo ad avere ragione della resistenza dei madrileni, i nazionalisti attaccano ed occupano le Province basche, le Asturie e l'Aragona dividendo la Catalogna dalla parte centrale. Per tentare di bloccare queste iniziative i lealisti effettuano delle operazioni diversive che culminano nelle battaglie di Brunete, Belchite, Teruel ed infine nel luglio del 1938 nell'offensiva dell'Ebro, dove i repubblicani riescono a penetrare in territorio nemico per circa quaranta chilometri, ma poi la superiorità di mezzi, soprattutto aerei ed artiglieria, degli insorti li costringe a ritornare alle basi di partenza. Il 23 dicembre del '38, dopo avere riorganizzato i reparti e raggruppato notevoli quantitativi di scorte e mezzi, l'esercito nazionalista scatena, da sud verso nord, l'offensiva finale dell'Ebro per conquistare la Catalogna. L'avanzata, pur contrastata dalle residue forze repubblicane della regione, oramai prive di armamento pesante, scardina uno dopo l'altro tutti i centri difensivi avversari posti a difesa del grande fiume e, dopo un mese di violenti combattimenti, il 26 gennaio 1939, le prime avanguardie motorizzate e blindate franchiste e italiane entrano trionfalmente a Barcellona. Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio del '39 circa 200.000 soldati repubblicani (insieme ad altre decine di migliaia di donne e bambini) chiedono asilo in Francia dove vengono internati in grandi campi di concentramento. La guerra sta volgendo al termine e il 27 febbraio Inghilterra e Francia optano per il riconoscimento ufficiale del governo del generale Francisco Franco. Il giorno seguente, il presidente repubblicano Azaña, che con un aereo si è rifugiato in Francia, da' le sue dimissioni da capo del governo. A marzo i nazionalisti occupano Madrid e Valencia. La guerra civile è finita. Dopo tre anni di violenti combattimenti, nel 1939, il generale Franco riesce ad imporre la propria dittatura. Siamo alla vigilia della seconda guerra mondiale, alla quale però la Spagna, dilaniata dal conflitto interno, non prenderà parte, permettendo al regime franchista di sopravvivere, a differenza di quelli fascista e nazista.
La storia della guerra civile spagnola è ricca di vicende i cui protagonisti sono persone comuni; da una parte ci sono coloro che combattono per affermare la democrazia, dall'altra sono schierati tutti quelli che credono nel regime franchista. Tra gli studiosi appassionati di storia c'è tanta voglia di scoprire come la popolazione spagnola, soprattutto la gente comune e in particolare i giovani, hanno vissuto quei drammatici momenti della guerra civile, in cui ognuno ha dovuto fare la difficile scelta in base alle proprie convinzioni personali, seguendo i propri ideali con la grande speranza di vederli realizzati. Tra i tanti studiosi c'è anche un ragazzo universitario che, dovendo svolgere la propria tesi di laurea sviluppando l'argomento sulla Guerra Civile Spagnola, va alla ricerca delle fonti. E proprio il suo lavoro di ricerca scrupolosa ed approfondita ci farà scoprire cose interessanti. Il quaderno trovato a Madrid è una fonte inestimabile: ci rivela emozioni, sentimenti, paure e speranze di tanti giovani che hanno combattuto per l'affermazione di grandi ideali.

Prima parte: la guerra.

Tutto ciò che provoca morte è male. E la guerra è male, con mille sfaccettature e con tante conseguenze che fanno paura a tutti: dolore, fame, povertà, miseria, epidemie e morte. Tutti questi ingredienti dovrebbero scoraggiare la mente umana dal coltivare pensieri di guerra, e tuttavia la storia si ripete, con episodi di atrocità in ogni parte della Terra. E le guerre civili sono ancora più atroci. Basti pensare alla Guerra Civile Siriana, iniziata nel 2011 con manifestazioni pubbliche, sviluppatesi poi in rivolte su scala nazionale, per poi diventare guerra con tutte le sue imprevedibili conseguenze, senza poterne immaginare la fine. Di guerre civili la Storia ne ha da raccontare. Guerre in Europa, ma anche in Africa e nelle Americhe. Tra le guerre più cruenti emerge, per le sue nefandezze, la Guerra Civile Spagnola. E' da qui che parte il nostro racconto, ricco di tante verità, intervallate qua e la da nomi e dettagli scaturiti dalla fantasia. Spetta allo Storico ritrovare fonti certe, come diari, documenti scritti da pubbliche autorità, ordinanze, decreti, sentenze, testimonianze depositate nei fascicoli dei tribunali penali, da cui ricavare il pensiero sia degli oppressori che degli oppressi. I manoscritti hanno tanto valore, soprattutto quelli che provengono da gente comune. A volte emergono notizie interessanti più dagli scritti di persone comuni che dai manoscritti di personaggi politici come Palmiro Togliatti o Benito Mussolini. Ebbene sì. I diari dei politici o dei capi di governo non attraggono il lettore, perché sono freddi, in quanto manca di alcuni elementi fondamentali quali la spontaneità le emozioni. Leggere i resoconti di guerra invece aiuta a capire meglio il dramma delle persone, le speranze ancora vive, il senso di attaccamento alla vita e il desiderio di aiutare non solo sé stessi ma anche gli altri. E questi “sconosciuti” con le loro storie valgono di più di tanti personaggi tristemente celebri.
La ragazza che stava per morire si chiamava Josefa. Aveva 35 anni ed era sposata con un franchista. Sebbene questo matrimonio fosse consolidato, la passione della donna per il PCE non aveva limiti. Era stata arrestata perché aveva fatto dei volantini con altre sette amiche e cinque amici. Tutti erano di sinistra. Chi del JSU , chi appunto del PCE e chi del PSUC . Era una ragazza piuttosto carina. Alta con i capelli castano scuri e una pelle biancastra. Aveva un neo vicino alla bocca. I capelli erano raccolti da piccole mollette e l'acconciatura dimostrava che Josefa era attenta alla moda. Era una donna esile ma forte di carattere. Infatti sapeva sempre reagire in ogni circostanza usando l'intelligenza e il buon senso. Indossava una camicetta a tinta unita arancione e una gonna color marrone piuttosto fine che arrivava fino alle ginocchia che la rendeva molto distinta. Anche le scarpe erano belle, non nuove, ma comunque ben tenute. Durante il periodo trascorso nel carcere di Ventas era riuscita a farsi volere bene. Rispetto alle altre ragazze era l'unica che sapeva suonare il pianoforte e per questo una guardia carceraria le propose di suonare l'organo durante la santa messa. Josefa accettò volentieri. Quando al mattino c'era il ritrovo prima delle attività, Josefa cantava lo stesso l'inno Cara al Sol perché, sebbene odiasse la canzone, pensava tanto a suo marito. Era una di quelle donne che sentivano il peso del carcere e ancor di più sentiva la mancanza di suo figlio. Suo marito non si presentò mai in carcere, perché si vergognava di avere una moglie comunista.
Quella mattina del 23 giugno 1939 Josefa fu chiamata in tribunale per conoscere le decisioni sulla sua sorte. Il tribunale dichiarò esplicitamente:

Risultato provato, come dichiara il Consiglio, che la processata Josefa Sanchez Laffite è stata una delle più attive nell'organizzazione marxista e che il crimine commesso risulta civile secondo gli articoli 219 e 19 dei codici castrensi e ordinari rispettivamente e i decreti 108 e 10 del gennaio 1937, condanniamo la processata alla pena di morte e accessori di legge in caso di indulto.

Josefa non riuscì ad aprire bocca. Era come se qualcuno le avesse tolto la parola. Dietro di lei nessuno faceva espressioni stupite. Era risaputo che i franchisti non perdonassero e men che meno dopo azioni contro Francisco Franco. Josefa però aveva un cuore duro come una pietra e non aveva paura di morire. Anzi avrebbe preferito mille volte essere fucilata subito per mano dei franchisti senza dover aspettare inutilmente mesi in carcere con una condanna risaputa.
I genitori di Josefa dopo la sentenza prepararono in fretta e furia le loro valigie e presero un transatlantico che li portò in Argentina. Almeno riuscirono a salvarsi e mettere in salvo la loro figlia adolescente Luz. Grazie ad alcuni agganci con il Partito Comunista lasciarono Madrid e andarono in Sudamerica. Almeno lì erano al sicuro. Josefa non era triste per questo. Anzi! Preferiva sacrificarsi che far morire tutta la famiglia. Il giorno dell'esecuzione il marito, Paulino Morales, non era presente. Era impegnato a tenere a bada suo figlio e non sapeva cosa dirgli della mamma. Paulino Morales era un uomo di mezza statura con i baffi e la carnagione chiara. Era molto robusto. Mangiava tanto e bene. Per questo non
soffriva la fame anche perché i vertici del partito nazionalista lo invitavano spesso a cena. Era molto stimato dai franchisti e chi voleva essere protetto si rivolgeva a lui. Il bambino di due anni non capiva cosa succedeva ed era sempre con i nonni. Il figlio di Josefa era nato nel 1937 e fino al compimento del quarantesimo compleanno non lesse il diario di sua madre. Solo quando capì che il dittatore era morto il 20 novembre 1975 decise di rispolverare quei documenti nascosti che suo padre non voleva che leggesse. Ma quel 23 giugno del 1939 la tragedia stava per incombere.
Josefa sapeva che stava per morire. L'aveva capito dalla sentenza. L'unica cosa che le rimaneva era scrivere una lettera ai suoi genitori e a Luz. Era comunque una testimonianza importante che Josefa lasciava ai suoi famigliari e ai posteri. Poi solo la Storia può accendere i ricordi e stimolare i lettori a non dimenticare. La notte prima della fucilazione le fu data carta e matita e Josefa, adeguandosi sino all'ultimo istante alle proprie condizioni, scrisse la lettera.

25 giugno 1939

Miei cari, mamma, papà e Luz, la sorte ha deciso per me. Sono stata condannata a morte per una causa in cui ho sempre creduto. Sapevo a ciò che andavo incontro e sono stata sempre consapevole che fosse pericoloso, ma per il bene della Spagna ho voluto contribuire come hanno fatto e come faranno in tanti . Questa guerra ci ha rovinato tutti. La dittatura che dovremo subire sarà lunga e pericolosa e l'Europa se ne starà a guardare. Non capisco le nazionaliste convinte. Non sanno che per loro inizierà la miseria? Non pensano che forse dovranno stare agli ordini dei loro padroni e non potranno farsi le loro ragioni? Abbiamo combattuto per la libertà ma invano, e quando capiranno sarà tardi.
Il mio nome non si cancellerà dalla storia e prima o poi saremo riconosciuti per il nostro valore. Addio miei cari genitori e Luz. Raggiungo nel cielo altre persone cui ho voluto bene.

Josefa

La notte del 25 giugno Josefa non chiuse occhio e insieme ad altre donne incarcerate discutevano e piangevano. Verso le 5 del mattino fu presa con altre persone e portate in aperta campagna vicino al carcere di Carmona. Il plotone di esecuzione attendeva l'ordine del comandante:

- In piedi. Disponetevi. Prima fila in ginocchio a terra!

Una ragazza, di nome Mercedes, uscì dal gruppo e corse verso i soldati urlando:

- Voi non siete uomini. Siete senz'anima e senza cuore! Siete assetati di sangue!!!!

Un soldato la prese e la mise in fila. Il comandante intanto stava dando ulteriori ordini:

- Plotone, caricate! Puntate! Fuoco!

I corpi dei condannati caddero per terra sotto i colpi dei fucili. Josefa morì subito, ma alcuni giovani forse respiravano ancora e il capitano, con la pistola in pugno, verificava e nel dubbio che qualcuno non fosse ancora morto, dava l'ultimo colpo di grazia, sparandogli in testa. Tra quelle vittime c'era anche il ragazzo di Mercedes.

Tre anni prima: 1936. Nella città di Toledo, alle sette del mattino in piazza Zocodover, un capitano dell'Accademia militare dichiarò lo - Stato di Guerra - ed emise dei mandati di cattura per tutti gli attivisti di sinistra conosciuti. Il governo di Madrid inviò immediatamente nella città assediata un contingente di soldati. Le truppe repubblicane si stabilirono nell'ospedale cittadino, per poi assaltare la locale fabbrica di armi presidiata da un contingente di militari della Guardia Civil. Questi militari iniziarono delle trattative con i repubblicani, che fecero di tutto pur di distruggere la fabbrica e trafugare le armi, portandole sull'Alcázar. Il 22 luglio i repubblicani, che controllavano gran parte della città di Toledo, tentarono di conquistare l'Alcázar con un bombardamento dell'aviazione. I nazionalisti si limitarono a una difesa passiva del forte, aprendo il fuoco solo quando stava per partire l'attacco. Iniziava così l'assedio dell'Alcázar. Un comandante del fronte popolare decise di chiamare il Colonnello Moscardò, intimando di lasciare il forte, ma questi rifiutò e così giustiziò il figlio Luis. In realtà la vicenda della morte di Luis avvenne il mese successivo, il 23 agosto, durante un bombardamento. La mattina del 23 luglio del 1936 Jacob Deronda, un ragazzo nato nel 1916 a Madrid, dopo aver fatto colazione decise di andare a trovare i suoi amici nella capitale. Prese la sua macchina e si diresse verso la città. Intorno a Toledo c'era un caos totale, ma Jacob non lo sapeva. I suoi genitori, che erano mattinieri, si erano recati nel loro negozio di camicie molto presto. La mamma, Marisa, era una modista mentre Juan Diego era un avvocato e dedicava qualche ora al negozio. La notizia dell'Alcázar li allarmò alquanto e quindi si ritrovarono con loro figlio Jacob al giardino del Buen Retiro. La mamma era molto preoccupata, mentre il padre cercava di trovare una soluzione.
- Abbiamo molti soldi. O andiamo in Inghilterra o in Svizzera. Cosa preferite?
- Ma dobbiamo per forza lasciare tutto? – disse la madre.
- Sì, i nazionalisti non perdonano e sono esseri spregevoli. Qui sta per scoppiare una guerra a mio avviso sanguinosa. Non mi sento al sicuro.
- Io rimango qua. Sono iscritto al JSU e vorrei lottare contro i nazionalisti. È pericoloso ma lo devo fare.
- Jacob ti rovinerai la vita per niente. Non sei fidanzato e non hai nessuno. Come farai a vivere? – disse la madre piuttosto preoccupata.
- Con la JSU a Toledo ho un ruolo preciso. E poi oggi mi hanno detto di reclutare tanti giovani. C'è bisogno. Lo capisci vero mamma?
- Si, lo capisco. Non posso obbligarti. Hai vent'anni e devi sentirti libero. Ma con una eventuale guerra?
- Siamo già in guerra. I repubblicani vogliono impossessarsi di tutta la Spagna e il generale Mola con altri vogliono fare la guerra contro chi è di sinistra. Questo è il tutto. È il caos totale. Inoltre hanno esultato nei confronti di Francisco Franco e i nazionalisti hanno già conquistato Granada.

I genitori di Jacob lasciarono Toledo nel giro di qualche giorno e, recatisi a Barcellona, riuscirono ad imbarcarsi sulla nave diretta negli Stati Uniti. Volevano essere al sicuro. Non erano contenti di lasciare il loro figlio in balia di sé stesso, soprattutto in un contesto dove nessuno immaginava cosa sarebbe successo il giorno dopo. Jacob invece organizzava la campagna reclutamento. Sapeva dove poter trovare chi la pensasse come lui. Vicino a Sol c'era una mensa per i bambini dove molte ragazze e ragazzi si alternavano a servire dei piatti caldi ai bambini poveri. Jacob conosceva Verònica, Marta e Pilar. Tra i ragazzi c'erano Sebastian, Javier e Andrés. Tutti erano schierati per la Repubblica e andavano d'accordo senza problemi.
Jacob con i suoi vent'anni, occhi azzurri e capelli neri, era sempre attivo. Leggeva il giornale tutti i giorni. Correva velocemente e ed era preciso nel dare informazioni ai suoi amici che combattevano. Era sveglio e captava le mosse nemiche.
Verònica Peña Gonzalez era una ragazza mora. Aveva venticinque anni, un corpo esile e non era tanto alta. Oltre a dedicarsi alla mensa, faceva la modista insieme a Marta Sanchez Gutierrez e Pilar Serrano. Avevano aperto un negozietto vicino a Cuatro Caminos. Di giorno producevano camicie femminili e maschili, gonne e pantaloni. Di sera invece si riunivano per esaminare la situazione e trovare le giuste soluzioni.
Sebastian invece insegnava tedesco ai ragazzi delle superiori. Era un giovane di 34 anni. Piuttosto alto, longilineo e con un collo da cigno. Era un buon insegnante ed era molto stimato. Si iscrisse al partito PCE perché sapeva che in Germania la democrazia era totalmente sparita. I suoi genitori erano ben visti e comunque tutti sapevano che la famiglia di Sebastian Calleja era nazionalista, ad eccezione del figlio, di cui pochi erano a conoscenza e tacevano. I genitori di Sebastian non opposero resistenza alla scelta politica del figlio. Era talmente maturo sin da quando era bambino che lo lasciavano fare e lui non sbagliava mai. Era fidanzato con Mercedes Cañete Pardo, una brava ragazza di statura media. Era robusta, con la pelle piuttosto scura, capelli castano chiari e un viso tondo. I suoi genitori erano proprietari terrieri vicino a Toledo, non si iscrissero mai ad un partito, ma simpatizzavano per quello comunista. Solo la figlia s'iscrisse perché c'era già tra i tesserati il suo ragazzo Sebastian.
Javier e Andrés invece erano due fratelli di 38 anni che lavoravano nell'azienda pubblica dei trasporti urbani. Non avevano studiato e il loro tempo lo passavano al cinema o al bar per capire meglio la politica, talvolta facevano le ore piccole per poter sapere sempre di più. Si iscrissero al JSU perché il loro padre era un socialista convinto. Erano alti e macilenti perché tiravano la cinghia, ma si vestivano sempre dignitosamente. Javier metteva sempre la cravatta, sebbene molti glielo sconsigliassero perché sembrava un borghese creso, mentre Andrés indossava maglioni di cotone di vari colori con rappezzi.
Marta, trentenne, era una ragazza che amava la libertà, era iscritta al JSU e ne andava fiera.. Voleva la democrazia in Spagna o almeno ci sperava. Piuttosto robusta con una pelle quasi scura, era soprannominata la “pellerossa”. Le piaceva tanto la tortilla, il salmorejo e lavorava come contadina e amava leggere.
Pilar, coi suoi trent'anni, era una ragazza riservata, giudiziosa e molto stimata. Aveva frequentato l'Università, insegnava letteratura Spagnola e studiava pianoforte. Una ragazza praticamente bianca di pelle, con un corpo longilineo. Era talmente filiforme che era chiamata la magra. Questi erano gli amici di Jacob: ognuno con una loro storia. Tutti erano volontari e credevano al motto di Dolores Ibàrruri “ Non passeranno”. Non immaginavano le conseguenze della guerra ed erano fermamente orgogliosi di combattere per la loro patria.

Verònica sapeva che il giorno 19 luglio 1936 ricorreva il compleanno di Sebastian e quindi suggerì agli amici di preparare un regalino simpatico. Le ragazze confezionarono una camicia a righe, mentre i ragazzi riuscirono ad acquistare un fucile di seconda mano. Sebastian apprezzò molto questi doni, soprattutto perché ne sentiva proprio la necessità e quindi ne apprezzava l'utilità. Tutti prevedevano che le esasperazioni dei politici avrebbero portato ad una inevitabile rottura nel giro di poco tempo. Anzi, sarebbe bastato solo qualche giorno. Sebastian sui possibili sbocchi della situazione politica era piuttosto preoccupato. Immaginava come sarebbe andata a finire, e cioè che i nazionalisti si sarebbero fatti aiutare dagli italiani e dai tedeschi. Il che non lo tranquillizzava. Quel giorno al café Cervantes si discusse lungamente sulle possibili soluzioni in base agli orientamenti degli alti dirigenti dei diversi partiti che erano emersi nel corso di conversazioni tenutesi in segreto nelle varie sedi e circoli cittadini. Nella sala circolare del café si era formata una nuvola di fumo e in quell'atmosfera pesante le voci dei ragazzi si affievolivano col passare delle ore.

- Non vedo bene questa guerra. – disse Sebastian.
- Neanche un po'. I nazionalisti verranno aiutati sicuramente. – disse Marta.
- Certo. E sai da chi? Dagli italiani fascisti e dai tedeschi nazisti. – concluse Sebastian.
- Sei sicuro? – disse Javier.
- Credo che finirà così. Bisogna darsi da fare e cercare di arruolare quanta più gente possibile contro i nazionalisti. Questi conquisteranno Granada sicuramente. Ci sono 17 legionari comandati da Francisco Franco. – disse Andrés.
- Avete già sentito parlare del Generale Franco? Dalle Canarie si è messo a disposizione della Junta de Defensa Nacional. Ha già represso una rivolta due anni fa. – disse Sebastian
- Sappiamo chi è e ci dispiace che tante persone credono in lui perché siamo convinti di trovarci di fronte a uno che non vuole la democrazia essendo un nazionalista convinto. – disse Javier.
- Come facciamo a far valere la democrazia? – disse Marta.
- Io un'idea ce l'ho. – disse soddisfatto Sebastian.

Sebastian pensò di creare una comunicazione in codice. L'idea piacque agli amici e la misero in atto, conoscendo bene il credo politico di tanti madrileni. Ovviamente non era semplice raggiungere il risultato, perché dovettero scontrarsi con la realtà. Constatarono che molte donne, soprattutto quelle più giovani, erano fermamente convinte dell'azione di Francisco Franco. Infatti, il 22 luglio cominciarono ad arrivare i nazionalisti con la camicia blu e le giovani simpatizzanti franchiste inneggiavano, cantando molto volentieri Cara al Sol . Sebastian che non sapeva trattenersi, commentava subito

- Quello non lo sopporto. Maledetto nazionalista. – diceva sottovoce con un'espressione sdegnata.
- Taci una volta tanto. – disse Verònica.
- Si, va bene, taccio ma non lo vedi? Non lo noti quanto è ridicolo? Dai, fa spisciare i polli....– disse Sebastian con tono sarcastico.
- Si, lo vedo. È un pagliaccio vestito di blu. E allora? Vuoi farti menare? – disse Verònica.
- No di certo. Non sono idiota. Ma è che mi sta...si hai capito. – aggiunse Sebastian.
- Sistemati il colletto. Senti, faccio io. – disse Verònica sistemando il colletto della camicia a righe di Sebastian.
- Grazie. – rispose il ragazzo arrossendo.
- Sebastian....
- Si, Verònica che c'è?
- No, niente. Sei pronto a parlare con il pubblico? Aspetta che vada via e sentiamo cosa dicono le persone. – concluse Verònica.
- Si, son pronto. – disse sospirando il ragazzo.

Finita la canzone, il franchista urlava “Arriva Spagna, Spagna Una, Grande e Libera!”. Appena il nazionalista e alcuni suoi compagni ripartirono con la camionetta, Sebastian e Pilar iniziarono a parlare con il pubblico lì presente, che era attento e perplesso e non sembrava volesse reagire. I due ragazzi provarono comunque a coinvolgere le persone:

- Dobbiamo essere in grado di reagire – disse Pilar.
- Di riprendere la nostra libertà tanto agognata. – aggiunse Sebastian.
- Siamo in una repubblica e non in una dittatura come sta succedendo in Europa. – concluse Pilar.
- Dobbiamo salvare la nostra dignità, avere più coraggio e prendere in mano i fucili. Non dobbiamo lasciarci prendere dalla paura. L'unica soluzione giusta è prendere in mano i fucili e combattere e resistere contro i falangisti. – disse Pilar con molta grinta.
- Si, ma tutto questo come può avvenire? – disse una donna sulla quarantina con in testa un foulard di cotone dai colori un po' sbiaditi dal tempo.
- E poi questi falangisti picchiano e uccidono facilmente. – disse un anziano sulla ottantina.
- Siamo costretti a tenere segreto il nostro credo politico. – disse un quarantenne dichiaratamente rosso, conosciuto nel quartiere letterario di Madrid.
- E poi la cosa peggiore è la mancanza del pane. Stiamo soffrendo la fame, i franchisti cercano di fare propaganda regalando una pagnotta per ogni famiglia pur di conquistare le simpatie del popolo. Cosa scorretta...- aggiunse una signora vestita di nero, vedova da alcuni anni.
- La Spagna sembra una nazione morta. – disse un bambino lì presente piuttosto scarno e malnutrito.
- Si, ma dobbiamo reagire a tutto ciò! – incitò Sebastian.

Finita la propaganda politica, ognuno se ne ritornò a casa propria. Sebastian andò a casa di Mercedes e la trovò intenta a preparare una zuppa di cipolle. Il ragazzo le chiese dove fossero i suoi genitori e lei rispose che erano andati a trovare dei parenti. Gustarono insieme quella zuppa fumante con del pane secco mentre continuavano a guardarsi negli occhi che sprigionavano speranza e preoccupazione. Una volta finito di mangiare, Mercedes gli chiese cosa avesse deciso di fare, vista la situazione politica. Sebastian rispose che il clima non era dei migliori e che bisognava progettare ogni intervento nei minimi particolare. Lei era segretaria del PCE di Alcobendas e quindi era impegnata ad organizzare la propaganda politica, con la collaborazione dei suoi compagni di partito. Sebastian, che era un laboratorio di idee, progettò un volantino con slogan chiari e incisivi. La giovane quella sera non aveva voglia di sentir parlare di politica; desiderava fare ben altro e, approfittando dell'assenza dei suoi genitori, accese il giradischi e, trascinata dal sottofondo musicale, a luci spente, o meglio a lume di candela, incominciò a spogliarsi mentre il suo ragazzo la guardava molto incuriosito con lo sguardo sognante. Lei continuava la sua danza lenta e provocante, appoggiava con tanta grazia i propri indumenti sulla sedia e, completamente nuda, si aggrappava come l'edera sulle braccia tese di Sebastian, che, coprendola di baci, si lasciò guidare verso il letto. Mercedes, come una piuma leggera si adagiò su di lui, lo aiutò a svestirsi e, rotolandosi, come fanno giocando i bambini sul prato, s'intrecciarono tra le loro braccia nella maniera più affettuosa, toccando il culmine del piacere finché, sazi l'una dell'altro, si addormentarono. Sebastian rimase estasiato e avvolto dalla grinta di Mercedes che non si stancava di baciarlo e abbracciarlo con tutte le sue forze, rischiando di ferirlo con le sue unghie graffianti. I genitori di Mercedes sapevano di questa relazione, ma non fecero mai alcun commento.
Intanto, nei luoghi d'incontro si parlava alquanto di Francisco Franco e del suo obiettivo di conquistare la capitale. Egli aveva già espugnato Talavera e il giorno 29 settembre riuscì a “liberare” l'Alcazàr. La Junta de Defensa che lo aveva nominato Generalìsimo, tra non molto l'avrebbe nominato “capo del governo di Stato”. Franco e i suoi uomini cercarono di formare un esercito. Nel corso di una conferenza stampa il Generalìsimo Franco, ai giornalisti accorsi numerosi, aveva pronunciato con vigore queste parole: “Adesso la guerra è vinta, la liberazione del Alcazar è stata la vittoria delle mia vita”.
I ragazzi nei mesi successivi cercarono di organizzarsi il meglio possibile sapendo che comunque non era facile fronteggiare un uomo dotato di un esercito piuttosto nutrito.
Sebastian, Andrés e Javier decisero di combattere, abbracciando i fucili, mentre le ragazze aspettavano indicazioni dal PCE e dal JSU. Verònica, Marta, Pilar erano delle buone amiche e non mancavano mai di dimostrarsi solidali l'una con l'altra. Quando andavano in mensa facevano del loro meglio per i bambini orfani, che erano poco seguiti. Verso il pomeriggio tardi Mercedes era solita incontrare Sebastian. E proprio in uno di quei pomeriggi Marta, Pilar e Verònica fecero amicizia con la ragazza di Sebastian. La guerra intanto continuava con le sue atrocità. Infatti, la capitale tra il 16 e il 19 novembre subì altri bombardamenti aerei. La stessa città universitaria fu teatro di guerra.
I combattimenti tra franchisti e appartenenti alle brigate internazionali avvenivano nelle varie facoltà e addirittura nelle aule. La cosa peggiore fu che Mussolini, da non interventista, si schierò a favore del Caudillo Franco. Infatti quel 28 novembre 1936 fu ricordato come la data dell'invio delle truppe italiane a sostegno del Generalissimo. Le camicie nere si fecero riconoscere subito per la loro violenza e per il loro inno Faccetta nera.
Nel mese di dicembre anche Hitler mandò una parte del suo esercito a favore di Franco che proseguiva la sua avanzata verso la conquista. Le giornate passavano tra un bombardamento e l'altro senza tener presente che spesso le vittime erano anziani o bambini. Sebastian, Andrés e Javier combattevano con i fucili, e riuscivano a sparare nascosti nelle case disabitate. Sapevano chi colpire. Purtroppo sotto i loro colpi cadevano al suolo non solo i nazionalisti in divisa, ma a volte, senza volerlo, anche alcuni civili che camminavano per le strade da soli. In guerra, purtroppo, accade di tutto e l'odio scatena azioni impensate. I ragazzi facevano sempre attenzione a colpire i nazionalisti ma era inevitabile che anche i civili restassero coinvolti loro malgrado. Sebbene la Chiesa non si fosse esposta, gli anarchici uccisero molti religiosi e distrussero tante chiese. Già qualche mese prima a Madrid si era scatenata una follia collettiva perché si era sparsa voce che i preti e le suore avessero fatto morire dei bambini con caramelle avvelenate. Questo accadde il 5 maggio e, sebbene non fosse vero, la popolazione nervosa irrompeva negli istituti religiosi e massacrava preti e suore. Le giovani monache, quelle costrette dalle proprie famiglie alla vita monastica, abbandonarono il velo molto volentieri, ma le altre preferivano morire e altre ancora dismettere temporaneamente il saio, nascondendo sotto gli abiti civili il crocifisso, al solo scopo di salvarsi.
Una suora, che era pronta a lasciare il velo, si avvicinò al gruppo di repubblicani e chiese di aggregarsi con loro per combattere insieme.

- Vaffanculo alla Religione che mi è stata imposta...- disse Suor Mònica Lòpez
- Sorella, va bene, ma è molto rischioso...- disse Félix Resines, un volontario repubblicano che aveva un aspetto accattivante.
- Ma se vuole aggregarsi lasciala fare...- aggiunse Sergio Ozores
- Va bene, sorella vieni con noi e ti diamo il fucile e la salopette. E cerca di tenere gli occhi ben aperti...ah e togliti quella cazzo di croce dal collo. – ordinò Félix.

La suora soddisfatta si strappò la collanina con la croce e la buttò a terra fregandosene altamente dei voti pronunciati sotto costrizione. Amava la libertà e si sentiva orgogliosa di combattere per affermare la democrazia..
D'altro lato alcuni preti morirono in condizioni davvero tristi. I miliziani repubblicani, in particolar modo quelli più feroci, pretendevano che i preti, prima di morire, pronunciassero bestemmie inaudite, ma i religiosi, rifiutandosi, pregavano perdonandoli e benedicendoli mentre partivano i colpi dei fucili. Ancora peggio erano gruppi di repubblicani che entravano in chiesa, distruggevano statue sacre e irrompevano nell'ostensorio, imitavano i preti e bevevano il vino come se fosse un giorno di festa. I preti guardavano e poi messi in ginocchio venivano uccisi con un colpo di pistola dietro la nuca con sottofondo le risa dei repubblicani soddisfatti delle loro azioni. Di questa situazione Sebastian non era per niente contento. Jacob, Javier e Andrés rimasero stupefatti della mattanza, mentre Sebastian era molto contrariato perché non condivideva simili orrori e, ancor peggio, quelle scene con suore spogliate del loro saio, violentate e poi uccise tra risate isteriche. Era nettamente avverso a quei comportamenti disumani. Eppure si era scatenato un odio troppo violento contro i religiosi che nessuno poteva fermare. Le chiese e i conventi furono incendiati e i miliziani, soprattutto gli anarchici, giocherellavano con gli oggetti sacri raccolti nelle chiese profanate e scattavano le fotografie come ricordo, sorridendo sguaiatamente. Tali avvenimenti accadevano non solo a Madrid. Un amico di Javier scrisse una lettera da Barcellona che confermava le stesse cose nella città costiera.

Caro Javier e Andrés
Come state? Non ho belle notizie. Qui a Barcellona la gente è infuriata, impazzita contro i religiosi. Hanno riesumato i cadaveri di diciannove suore salesiane, sepolte nel loro convento. Tutti sono corsi a vederle sul sagrato. Inoltre Don Antonio Diaz del Moral è stato rinchiuso in un corral pieno di tori da combattimento. È morto massacrato dalle cornate. Ma la cosa ancor più triste è che gli hanno tagliato un orecchio come di solito si usa fare con i tori nelle arene in onore del matador. Le miliziane sono anche peggiori dei ragazzi. Hanno inventato certi supplizi per i preti e le monache. Ti dico solo che venivano denudati e costretti alla promiscuità. I confessionali trasformati in edicole dove si vendevano giornali e sigarette. È il caos totale. Per me c'è la mano degli anarchici. Sono troppo accaniti contro la Chiesa. Ne fanno davvero di ogni. Preti uccisi per strada oramai se ne contano a centinaia. Alcuni per fortuna, si salvano la loro pelle travestendosi da civili. Altri invece si lasciano uccidere perché non vogliono togliere la loro divisa religiosa. Eppure non mi sembra che la Chiesa si sia messa in mezzo durante la sollevazione.
Credo che dopo tutte queste atrocità contro la Chiesa, i religiosi e i cattolici praticanti si metteranno dalla parte dei nazionalisti
e li sosterranno. Siamo diventati peggio degli animali perché quello che ho visto è molto raccapricciante. Se potete, non fatele certe cose, anche se siete socialisti. Non so se mai ci rivedremo. Abbiate cura di voi stessi e di vostro padre che ricordo sempre volentieri.
Addio Joaquín Calvo

E intanto i mesi passavano velocemente. E arrivò il primo Natale di guerra. I ragazzi la sera tra di loro commentavano questo odio contro la Chiesa.

- Piuttosto non prego, ma di certo non andrò a bruciare le Chiese. – disse Sebastian
- Stai attento a non farti sentire in giro. Che passi per un nazionalista bigotto. – disse Javier
- Comunque che sia, uccidere i religiosi in quel modo è da animali. Meglio una fucilazione diretta. – disse Mercedes.
- In fondo vogliamo pari diritti, ma così non mi sembra il metodo giusto per raggiungerli. – disse Marta.
- Non credo che sia una buona soluzione. Si certo la Chiesa vive nel lusso e noi siamo la povera gente che vive di stenti. – disse Jacob.
- E poi la Chiesa è sempre esistita. Non sono certe queste azioni che la cancellano dalla faccia della terra. Non prego, ma comunque arrivare a fare questo mi sembra assurdo. Certo, al massimo potrei rubare i soldi delle questue. – concluse Andrés.
- Tra poco si avvicina Natale. – disse sconsolato Javier.
- E forse capiremo lo stato d'animo di tutti. – concluse Mercedes con un sospiro.
- Già Natale. Senza regali che Natale è? – domandò Sebastian in maniera infantile.
- Sebastian sei adulto oramai. – sentenziò Javier in maniera fredda.
- Si, ma ha ragione, Natale senza i regali è davvero triste...- sospirò Mercedes.

Le ragazze non sapevano cosa inventare per il regalo di Natale. La guerra aveva già abituato tutti a grandi rinunce e in un clima di distruzione e miseria anche il più piccolo gesto prendeva valore. Nei giovani era condivisa la necessità delle rinunce per preparare un futuro migliore. Pilar ricevette in regalo dalle sue amiche uno spartito musicale per pianoforte. Era una canzone contro la guerra e il titolo era J'attendrai. Verònica ricevette un libro di Vélez de Guevara Los novios de Hornachuelos e Marta ricevette come regalo il libro El Perro del Hortelano di Lope de Vega. Le ragazze invece regalarono a Andrés, Javier e Sebastian dei maglioncini di lana fatti con le loro mani. Andrés e Javier rimasero molto contenti del regalo ricevuto e anche Sebastian era compiaciuto. I ragazzi apprezzarono quanto avevano fatto le loro coetanee. In quei maglioni si vedeva il lavoro curato e la soddisfazione di aver fatto qualcosa di utile. Mercedes invece aveva regalato a tutti la frutta, i mandarini. Era il primo Natale in cui si sentiva la carenza di tutto. In giro c'era tanta miseria e tanta paura di morire. L'organizzazione andava a rilento e per fortuna l'intervento delle Brigate Internazionali sembrava dare speranza ai repubblicani. La prima unità, detta “11ª Brigata mista internazionale” venne inviata a Madrid, già sotto assedio; era composta da operai, studenti, liberali, socialisti, comunisti, anarchici. Le Brigate si distinsero principalmente nella difesa di Madrid e nella battaglia di Guadalajara. Madrid era continuamente assediata e non v'era giorno che non si contassero i morti. I ragazzi innalzarono barricate con sacchi si sabbia e alcuni si andavano a nascondere nelle case sventrate per colpire meglio dall'alto i franchisti. A volte però passavano aerei a bassa quota che mitragliavano indistintamente gli avversari. A fine giornata le vittime tra enormi chiazze di sangue non si contavano. Le ragazze erano molto veloci a far partire i colpi dei loro fucili. Sparavano senza farsi notare e con una certa grinta. I ragazzi tra di loro si dividevano le zone dove sparare contro il nemico. Avevano ascoltato con molta attenzione il discorso della Ibarruri e avevano memorizzato quanto pronunciato con profonda convinzione “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio”. Sebastian vedeva di buon occhio l'arrivo dei volontari, pur sapendo che la maggior parte erano disoccupati e alcuni avventurieri. I repubblicani non facevano troppi complimenti a far fuori i filofranchisti. Sebastian era quello più combattivo e testardo. Sapeva dove poter andare a prendere gli armamenti e il fatto che conoscesse sia l'inglese che il tedesco gli permetteva di captare più informazioni possibili. Sapeva che l'esercito tedesco era sadico nei confronti dei repubblicani e le giustizie sommarie erano frequenti. Ma anche gli italiani non si smentirono per la loro crudeltà. Michele Corelli era uno squadrista violento e spericolato. Grosso con barba e zazzera rosse, emanava dagli occhi un certo fanatismo. Costituì un corpo speciale di circa mille uomini e li chiamò L'occhio del diavolo. Prendeva i prigionieri irlandesi e americani e scaricava su di loro tanti colpi di pistola sopra la testa fino a che non usciva il cervello dal cranio. Poi si faceva fotografare mentre guardava i corpi delle vittime. Nessuno tra gli spagnoli aveva immaginato che gli italiani si sarebbero comportati in modo così violento. Per questo alcuni comunisti spagnoli, quelli più decisi, tesero un'imboscata a Michele e, conoscendo molto bene il suo itinerario che era solito fare con la camionetta, decisero di farlo saltare in aria. Michele era uno che non cambiava mai né percorso né orario, perciò l'attentato riuscì perfettamente. Ma il fascista morì dopo aver assassinato oltre duecento persone. I ragazzi intanto erano sempre attenti e vigili. Soprattutto Sebastian, che non lasciava mai il fucile. E poco importava se doveva tenerlo con sé giorno e notte.

Domenico Del Coco

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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