- Come sei? - era il suo modo di chiedermi "come stai". - Come prima - risposi, me lo chiedeva in continuazione, fin dal primo giorno in cui mi aveva assunta. - Come prima... come una settimana fa? - Questa volta non risposi, feci solo un piccolo accenno con le spalle. - E vabbe', era grande ormai. - - Aveva 9 anni, non era ancora molto grande. - - Ma quanto poteva campare ancora? Altri due anni? - - Con la malattia non so se avrebbe raggiunto il mese. Ma se non fosse stata malata, be', poteva vivere ancora per un po'. Spesso arrivano ai 15 anni, certe volte anche ai 18. - - Siiii! 18 anni! - Avevamo già preso questo discorso, perché continuarlo? Non ne volevo parlare, né con lui e né con nessun altro, perché doveva impicciarsi sempre nei panni degli altri? - Ma quanto ha speso tuo padre per l'operazione? - - Io... ho speso 400 euro. - - Minchia... tutti sti soldi? Be', se fossi stato io avrei fatto “CRASH”! - Mentre, con le mani, gesticolava come se stesse schiacciando una noce. Lo guardai in cagnesco. Nonostante questo, continuava a parlare. - Eddai, basta essere triste, dopotutto era solo un cane. - Fu qui che la cosa mi fece saltare veramente i nervi. - Non era solo un cane. - - Ma certo! È solo un animale. - - Ed è per questo che il mondo è in rovina e fa così schifo, perché l'essere umano si sente superiore a tutto e a tutti, senza rendersi conto di essere allo stesso livello di qualsiasi essere che vive su questo dannato pianeta! - - Ma perché... tu vorresti dire che siamo allo stesso livello di un cane? Noi siamo i più intelligenti! - - E lei cosa ne sa di tutto questo? Anche loro sono intelligenti! Proprio come noi! C'è solo un problema di comunicazione... - - Ah si? Solo un problema di comunicazione? - Cominciò a ridere. - E allora perché ancora nessuno ha capito cosa dicono? Perciò, invece di imparare l'inglese potremmo andare a imparare il BAU BAU e il MIAO MIAO! Bah! - E così, finalmente, girò le spalle e tornò alla cassa, lasciandomi fare la guardia alla veranda e a quei pochi clienti rimasti. Quel discorso mi aveva fatto riflettere, e non poco. La comunicazione. Ripensai a quante parole Kyra avesse imparato da noi, sapeva cosa significasse “parco”, o “pesce” (il suo giocattolino), acqua, prosciutto, salame, sottiletta, lucertola, sasso... e non solo le parole, ma anche piccole frasi, come: “vai su”, “giù”, “vieni qua”, “esci fuori”, ma la frase che mi impressionò di più fu “butta il sasso”. Me ne accorsi in un giorno qualunque mentre passeggiavamo al parco. Lei adorava giocare solo con i sassi, ma non con quelli piccolini, lei voleva quelli enormi, più grandi della sua testa, per non dire il doppio, e dire che lei era solo una Pinscherina. Me ne accorsi per puro caso mentre giocavamo, le dissi: - Kyra, butta il sasso! - . E lei lo fece, istantaneamente, senza che glielo avessi insegnato, il bello fu che non è stato solo un caso. Provai e riprovai e tutte le volte che dicevo la medesima frase, lei lasciava andare il sasso vicino alle sue zampine. È questo ciò che pensai in quell'istante: noi esseri umani, che ci sentiamo così superiori, a malapena riusciamo ad imparare una seconda lingua, grazie ad anni di studio sui libri, incoraggiamenti e spiegazioni da parte dei professori. Però non siamo ancora riusciti a capire cosa significhi un semplice BAU BAU dei cani. Gli addestratori conoscono il linguaggio del loro corpo, ma nessuno sa cosa abbaiano ogni volta. I cani invece, vivendo con noi, capiscono cosa diciamo, cosa significhi quella determinata parola, o quel determinato comando, loro capiscono cosa abbaiamo noi! Perciò adesso mi viene il dubbio, ma siamo veramente così intelligenti e superiori agli animali? Di questo ne avevo già la risposta, ma adesso mi viene il dubbio se siamo veramente alla pari. Il nostro linguaggio probabilmente è più semplice di quello che pensiamo, se anche un qualsiasi cane che non è mai andato a scuola riesce a capire ciò che diciamo. Naturalmente non parlo solo di Kyra o dei cani in generale. Tutti (o per lo meno, le persone con un minimo di cultura) sappiamo quanto sia intelligente un cavallo, un gatto, i cetacei. Ma i galli e i polli? Be', se troviamo una persona stupida, la definiamo un pollo, ma è realmente così? Ho avuto anche due galline ed un gallo, oltre a pesci, conigli, canarini e tartarughe. Ma quel gallo mi ha colpita particolarmente, mi ha fatto capire che il pollame non è stupido quanto possiamo pensare. Loro ricordano gli eventi e, in base a questo, sanno riconoscere chi gli vuole male e chi, invece, lo vuole bene o è innocuo. Nell'aprile 2012 mi trovavo nel centro commerciale della mia città. Mentre passeggiavo per i vari corridoi, mi accorsi di una cosa un po' insolita: molte persone tenevano con sé dei pulcini. Chiedemmo perché di questa cosa e ci risposero che al negozio di animali li regalavano come simbolo della Pasqua. Io e mio padre ci guardammo negli occhi, lui pensava alle uova, io ad un nuovo animale da coccolare. Ne prendemmo due, uno giallo e l'altro totalmente nero, con una macchia bianca sulla testa. Erano tenerissimi, pigolavano incessantemente, cosa che inizialmente portava anche allegria, ma dopo qualche ora diventò una tortura. Avevano quelle zampe grosse e robuste, morbide al tatto. Ero abituata con le zampine sottili dei canarini, quelle di quei pulcini mi sembrarono sproporzionate. Li mettemmo dentro una scatola e li lasciammo in veranda, ma quella notte la temperatura calò troppo e il giorno dopo trovammo il pulcino giallo, il più visto dei due, come paralizzato. Respirava, ma non riusciva a stare in piedi. Lo mettemmo immediatamente sotto una lampada, cercammo di riscaldarlo più che potemmo, ma non ci fu nulla da fare e quella mattina se ne andò. L'altro invece, quello nero, riuscì a superare quella notte, forse grazie al calore del fratello. Da quel giorno non lo lasciammo più in veranda, anche se chiusa era ugualmente troppo fredda. Un po' per i sensi di colpa, un po' per la paura che potesse succedere di nuovo, tutte le sere me lo accucciavo tra le mani, avvolto in delle pezze. Pigolava dolcemente sentendosi protetto. Guardavo la tv con lui in braccio e nel contempo pedalavo sulla cyclette. Kyra se la faceva sempre alla larga da lui, cominciò ad averne paura dal momento in cui Black (lo chiamai così il pulcino inizialmente) le morse la coda. Un bel giorno Black uscì dalla sua scatola, saltò sulla cesta dove era posizionato il vaso di mia madre, mangiandosi tutta la piantina di basilico. Alla sol vista, mio padre si infuriò e con uno schiaffo lo scaraventò in aria. Io mi precipitai prendendolo subito in braccio, Black piangeva come un bambino. Quel giorno lo odiai, a mio padre. - Era solo una stupida piantina! - - E quello è solo uno stupido pulcino. - Un giorno si vantò con i suoi colleghi per l'eroico gesto nell'aver vendicato il basilico, ridendo sul fatto che lo avesse scaraventato in aria. Essendo presente, lo ripresi davanti a tutti sottolineando quanto poco onore c'era in quel gesto. Lui rimase in silenzio e nessuno mi contraddisse. Per circa un mese Black rimase zoppo, il sol vederlo camminare in quel modo mi intristiva, ma per fortuna pian piano tornò nella normalità. La cosa strana di questo pulcino fu che non cresceva mai. Da che era totalmente nero (ad esclusione delle penne sul capo) col passare del tempo spuntarono altre piccole piume bianche, finché il suo manto si trasformò in una fantastica scacchiera. Aveva un piumaggio insolito, non ne avevo mai visti di così belli, era semplicemente spettacolare. Mia madre fece una ricerca su che tipo di razza fosse, apparteneva alla Plymouth rock. Dopo qualche mese, grazie ad una mia amica, riuscimmo a trovargli compagnia: due belle pollastre, provenienti sempre dalla stessa distribuzione pasquale. Ah, lui era un gallo, un bellissimo gallo. Lo scoprimmo quando lo portammo da mia nonna per un breve periodo, fu lì che cantò la prima volta. Dopo di che, li portammo tutti in campagna. Vi era un piccolo magazzino diviso in tre stanze: sgabuzzino, forno e sala grande. La sala con la fornace era quella più adatta, non la usavamo, c'era la luce giusta per loro e la porta non era altro che un cancelletto in metallo. Si divertivano a salire in cima alla fornace per poi lanciarsi da lì. Per quanto riguarda il rapporto tra Black e mio padre, divenne abbastanza problematico. Mio padre non poteva assolutamente avvicinarsi o rischiava di essere attaccato da Black. I galli non dimenticano. Solo io e mio fratello potevamo aprire lo stanzone, pulire e mettere da mangiare. Naturalmente le coccole non mancavano mai. Anche se i tre pollastri si trovavano da tutt'altra parte, non appena li chiamavo fischiando e battendo le mani, correvano immediatamente da me, con quel passo goffo che trapelava tenerezza da tutti i pori. Prendevo Black in braccio, lo mettevo a pancia in su e poi gli facevo i grattini tra le penne della testa. Lui stava lì fermo a godersi le coccole ad occhi chiusi, battendo velocemente il becco come segno di apprezzamento. Anche mia madre aveva problemi con lui, si era divertita a stuzzicarlo con un legnetto, per questo diventò ostile anche con lei. Non posso negare di essermi divertita anche io a stuzzicarlo, muovendogli la ciabatta ad un palmo dal becco, ma senza mai fargli male. Si agitava un po', cercando di colpire la scarpa con le sue potenti zampe, ma nulla di più. Quelle zampe erano affascinanti, forti e robuste, davano un senso di preistorico. Le galline cominciarono a fare le uova e i miei genitori furono felici. Una delle due un giorno scappò, la trovammo sbranata dai cani randagi. Per quanto riguarda Black (che mia madre cominciò a chiamare Carletto) e Rosita (la gallina superstite) non vi è stata nemmeno per loro una bella fine... Come ogni giorno, mio padre andava a portargli da mangiare, ma ce ne fu uno in cui trovò il cancello aperto. Qualcuno aveva rotto il lucchetto con una pietra, portandosi sia Black che Rosita. Non abbiamo più saputo nulla di loro. Vi ho raccontato tutto questo solo per farvi capire che il pollame non è come normalmente ce lo immaginiamo, un ammasso di piume che cammina e mangia senza un minimo di cervello o sentimento. Potrei mettere l'intelligenza di un pollo alla pari di quella di un Cacatua. Ogni animale è fatto per l'ambiente naturale in cui avrebbe dovuto vivere, è normale che un pollo non è predisposto ad avere un legame con un umano, perché si sa, l'uomo è un predatore e la gallina è una preda. E naturalmente l'esperienza che ho avuto con Black non è paragonabile alla vita che ho vissuto con Kyra. Ma ora dovremmo andare indietro nel tempo di qualche anno, nel lontano 2005. Per anni mio padre è stato contrario ad avere un cane, è sempre stato un tipo schifiltoso. Poi, mia madre cominciò a pressarlo, voleva un cane, ne voleva uno. Io non avevo mai avuto questo desiderio, non so il perché, nessuno mi aveva avvicinata a questo mondo. A dir la verità, ho sempre vissuto in un mondo tutto mio, fatto di casa-studio. Non uscivo mai sola e di amici non ne avevo molti, non frequentavo nessuno al di fuori della scuola. Nonostante fossi stata agli scout e praticassi sport, stentavo a relazionarmi. Dopo il tanto insistere di mia madre, cominciammo a cercare una razza piccola, la più piccola possibile con il pelo raso. Pensammo al Chiwawa, cominciammo ad informarci nei vari negozi di animali sia per le sue caratteristiche comportamentali, ma anche per il prezzo. I negozi li vendevano a costi esorbitanti, poi lasciammo perdere quando ci dissero che questa razza tiene per tutta la vita la “fontanella” aperta, rendendo il cane più delicato. La fontanella è una caratteristica anatomica del cranio dei neonati, di qualsiasi specie mammifera. Quando nasciamo, le ossa piatte del nostro cranio non sono saldate, ma unite da uno spessore di cartilagine, in modo tale da rendere la testa più elastica al momento del parto, così da facilitarne l'uscita dall'utero. Ma nel Chiwawa, le suture rimangono porose senza ossificarsi mai. Dire che il loro cranio è sensibile agli urti, è un qualcosa di ovvio. Così lasciammo perdere i Chiwawa (che a me, sinceramente, non hanno mai fatto molta simpatia). Un giorno a casa si cominciò a parlare di una razza particolare: il Pinscher. Non avevo mai sentito questo nome, non sapevo cosa fosse. Avevo paura che fosse qualche razza di cane dal pelo riccioluto e lungo, non so perché, me l'immaginai così. Mia madre aveva visto dei cuccioli in televisione, se ne appassionò subito, era una razza piccola, pelo raso, era perfetta per stare in appartamento. Poi lo vidi: il Pinscher era magnifico. Un Doberman in miniatura, un cane elegante, che traspariva forza, una razza fiera. Ero più attratta dalle razze di grossa taglia, ma del Pinscher me ne ero innamorata a prima vista. Cominciammo a cercare sul Portobello. Annunci ce n'erano a non finire, ma di Pinscher se ne parlava raramente. Il prezzo nei negozi era abbastanza esorbitante, c'era chi lo vendeva a 700€, chi di meno, chi addirittura di più. In una pizzeria vicino casa nostra scoprimmo che il proprietario era un'amante sfrenato dei Pinscher, per giunta ne teneva uno dentro il locale: era adulto, color rosso cervo, assolutamente fantastico. Ci indirizzò da un allevatore siracusano, era il suo “fornitore” di Pinscher di fiducia, così lo contattammo e ci disse che a breve una delle sue cagne avrebbe partorito. Così, il Primo maggio del 2005, nacque lei, la mia prima cagnolina, la mia migliore amica. Dopo la sua nascita, fummo contattati dall'allevatore così che potessimo prendere un appuntamento con lui e incontrarci per poter vedere i cuccioli e sceglierne uno. Erano in tutto 3 fratelli, un maschietto e due femminucce. La vidi per la prima volta quando aveva circa un mese di vita assieme alla sorellina. Il fratello era già stato venduto, ci disse. Ricordo perfettamente quel giorno: un po' nuvoloso, era sicuramente una domenica. Ne sono certa perché quel giorno vi era in corso una gara di bici. Grazie a questo evento ci fu difficile raggiungere il posto dell'appuntamento, avevano bloccato tutte le strade. Dopo tante peripezie, arrivammo nel luogo dell'incontro e, dopo esserci salutati, l'allevatore aprì il cofano dell'auto e le vidi. Erano tutte e due all'interno di una gabbietta, piccolissime e un po' impaurite, la madre era accanto, tremava come una foglia, sapeva già cosa stesse per accadere, sapeva perché era lì. All'età di 40 giorni, arrivò in casa. L'allevatore la portò dentro una scatola di cartone, la prese e la uscì fuori. Restava ferma, lì sul pavimento, non sapeva dove si trovasse, si ritrovò sola. L'allevatore ci disse che era abituata a stare sul parquet. - Io l'ho chiamata Saila, ma poi ognuno è libero di sceglierle il nome che gli pare. - - Sappiamo già come chiamarla, eravamo indecisi tra Mila e Kyra, ma abbiamo scelto Kyra. - - Anche quello è un bel nome. - Continuammo a parlare, ci diede dei consigli, uno dei tanti era quello di non farla uscire sul balcone, ancora era piccola e non capiva l'altezza. Ci raccontò di un episodio che successe a lui: aveva venduto un cucciolo ma dopo poco l'acquirente lo chiamò dicendo che il cucciolo era morto e voleva cambiarlo, proprio come si fa con gli elettrodomestici malfunzionanti. La figlia piangente però, si lasciò scappare la verità: il cucciolo era caduto dal 6° piano. Lezione n°1 che imparai: non far uscire la cucciola da sola.
Anmo
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