Elena piangeva, abbracciata al cuscino che il mascara stava inesorabilmente macchiando. Il russo con cui aveva trascorso la notte aveva lasciato solo da pochi minuti la suite 412 dell'Hôtel de Paris, dopo aver consumato un'abbondante colazione sulla terrazza di fronte al mare. - Au revoir, vishenka. À la prochaine - l'aveva salutata, prima di chiudersi alle spalle la porta della suite. Ora Elena era sola, come accadeva ogni volta che un cliente usciva dalla camera dell'hotel in cui era stata ospite per la notte. Sul basso tavolino di vetro ovale situato dinanzi al letto giaceva una busta con il compenso pattuito: settemila franchi svizzeri. A trentadue anni Elena si sentiva una donna finita e offesa nel profondo. Quel mestiere, se - mestiere - lo si poteva definire, la stava inesorabilmente distruggendo, non solo nel fisico ma anche nella mente, riducendola a una larva. Di questo lei aveva una chiara e precisa percezione. Ancora discinta, giaceva sul letto, in quella stanza di albergo che molte volte l'aveva vista protagonista in degradanti sottomissioni di uomini e talvolta persino nel loro annientamento. Tutti clienti che per lei si spingevano a commettere inconcepibili follie. La strada che molti anni prima aveva imboccato non le aveva consentito fino a quel momento alcuna alternativa. Si sentiva prigioniera di un destino infame. Il gorgo verso il quale l'aveva spinta sua madre rischiava di inghiottirla definitivamente. Già, sua madre! In quel pianto Elena sfogava tutta la rabbia e l'odio profondo che si impadronivano di lei ogniqualvolta pensava a quella donna e al passato che le legava. Come una lama affilata, i ricordi entravano nella sua testa e scavavano fino a toglierle il respiro, fino a farla star male. Sua madre, colei che l'aveva messa al mondo. Colei che avrebbe dovuto proteggerla. La squillo più celebre di Firenze. Tale era riuscita a diventare. La più nota, la più ricercata e riconosciuta puttana di classe, come dicevano i suoi clienti. Come un importante chirurgo, un acclamato calciatore, un osannato cantante, sua madre Letizia – di nome e di fatto – era assurta alla notorietà grazie al mestiere più antico del mondo e alle arti eccelse cui lei aveva saputo elevarlo. Nei momenti più esaltanti della sua carriera, aveva potuto vantarsi di clienti facoltosi che la chiamavano da ogni parte d'Italia e persino da oltreconfine. Uomini che tenevano in mano le redini di una nazione, che muovevano capitali ingenti, dal cui operato dipendeva il destino di un considerevole numero di persone. E lei, con la destrezza che la contraddistingueva nell'esercitare il suo mestiere, li aveva dominati e, in molti casi, addirittura sottomessi. Sì, perché la madre di Elena l'aveva conosciuta, la sotto- missione più abietta. Quando lei era appena sedicenne, suo padre, vedovo da più di dieci anni, aveva deciso di sbarazzarsi di quella figlia ingombrante e che non gli serviva più e l'aveva venduta a Ruggero, un uomo simile a lui. Violento, alcolista e dedito a furti e rapine. Letizia aveva covato per anni un odio profondo verso quella belva che era stata costretta a sposare. Aveva represso ogni desiderio di vendetta, fino a quando una rapina in banca, nella quale avevano perso la vita due persone, non l'aveva tolto di mezzo, con una condanna all'ergastolo e il definitivo trasferimento nel carcere di massima sicurezza a Pianosa. Rimasta da sola con la sua unica figlia, all'età di ventitré anni, Letizia aveva deciso che ogni altro uomo della sua vita avrebbe subito la stessa sorte del marito e la stessa condanna: sottomettersi a lei e al suo volere. E, per raggiungere questo scopo, lei avrebbe usato l'arma più sottile ed efficace di cui disponeva. Il sesso. Era riuscita a farsi assumere come commessa in un centralissimo negozio di Firenze che vendeva stoffe per abiti da uomo e lì aveva potuto osservare accuratamente una lunga sequela di clienti, in cerca di qualcuno su cui riversare le proprie attenzioni. La sua scelta era caduta su un noto avvocato. L'anziano legale si era illuso di avere conquistato con il suo charme la giovane e avvenente commessa. Era rimasto irretito dall'astuzia di lei che, oltre a spillargli un bel pacco di soldi, era riuscita a farsi conoscere da una ristretta cerchia di amici del gonzo. Al pari del vecchio avvocato (che non era riuscito a ottenere alcunché dalla giovane, se non qualche fuggevole carezza) gli amici avevano pensato di spupazzarsi quel ben di Dio gratis et amore dei. Ma la madre di Elena, Letizia, di nome e di fatto, aveva concesso le sue grazie a uno solo di essi, quello più giovane e con le maggiori probabilità di aprirle una sfolgorante carriera. Riccardo Cecchi era un brillante commercialista che stava facendosi largo tra gli industriali amici di suo padre, per i quali già svolgeva la ben remunerata attività di consulente fiscale. E l'ingenuo Cecchi era rimasto impigliato nella rete che l'astuta giovane gli aveva abilmente tessuto intorno. Letizia aveva conservato la straordinaria bellezza di cui madre natura l'aveva dotata, nonostante sette anni di angherie e violenze fisiche subite dal marito. Ruggero spesso sfogava il suo alcolismo con terrificanti atti di brutalità contro il prossimo e soprattutto contro sua moglie. La nasci-ta di Elena non aveva affatto cambiato il suo atteggiamento. Anzi, considerava la figlia quasi un ostacolo tra lui e Letizia. Aveva odiato quella bambina fin dal primo giorno. Elena era nata quando Letizia aveva appena compiuto diciotto anni, figlia non voluta, frutto della violenza di Ruggero e della sua perversione, che aveva ridotto sua madre all'assoggettamento più degradante. Ben ricordava quando, piccina piccina, di notte sentiva la madre, nella stanza attigua, opporre un rifiuto alle grossolane richieste del marito, e i concitati colloqui tra i due che irrimediabilmente finivano in botte. - Vieni qua, che stasera ti fotto da dietro. - A Elena sembrava quasi di vedere Ruggero che, ubriaco, ghermiva Letizia per i fianchi. La voce querula della giovane donna supplicava: - No, Ruggero, ti prego. Non farmi male anche stasera! - . - Zitta, o ti arriva un ceffone. Girati e apri le gambe! - urlava infoiato il marito. E d'improvviso si udiva il colpo secco di un manrovescio e l'urlo di sua madre, seguito da un altro schiaffo, e un altro ancora. E lei, bimba di cinque anni, piangeva sommessa-mente, affondando la testa nel cuscino e tappandosi le orecchie per non udire i lamenti di sua madre e il susseguirsi di improperi di suo padre. - Mi hai rubato nel portafoglio, bastarda! - era l'accusa ricorrente di Ruggero, in preda all'alcol e fuori di sé. - Sai che non lo farei mai - tentava di difendersi Letizia. - Non farti schermo con la bambina, altrimenti vi ammazzo tutte e due - la minacciava Ruggero, ritto in piedi, al di là del tavolo di cucina. - Tu lei non la devi toccare - reagiva Letizia, stringendo Elena al petto. Ma la sua difesa non sortiva alcun effetto, se non quello di eccitare ancor di più il marito. - Tu non devi rubarmi i soldi. Lo sai che me ne accorgo e che dopo ti punisco. Hai voluto pagarti la marchetta in anticipo, eh? E sia. Ora ti accontento! - E cominciava a girare intorno alla tavola, impedendole ogni via di fuga. - Va' via, Elena! - urlava Letizia, spingendo la figlia verso la sua stanza, per proteggerla dalla furia che di lì a poco si sarebbe abbattuta su di lei. Elena correva e si andava a rifugiare dietro la porta della camera da letto. Da lì, con la manina davanti alla bocca, soffocando il pianto, assisteva a scene tristemente note. Il padre che afferrava sua madre, le torceva le braccia dietro la schiena, le legava i polsi con uno strofinaccio e la faceva inginocchiare dinanzi a sé. E la bocca di lei che doveva accogliere con violenza quello che sembrava soffocarla, mentre lui le schiaffeggiava il viso, ritmicamente, da destra a sinistra, da sinistra a destra. Infine, l'urlo di lui, come l'urlo di una bestia, e il violento ceffone che faceva precipitare la donna a terra, inerte, come uno straccio. *** Altre due volte Letizia era rimasta incinta e ambedue aveva abortito. La prima volta era stato per cause naturali. La seconda, invece, la causa determinante era stata la violenza di Ruggero. Una sera, rincasando ubriaco ancora una volta nel loro condominio all'Isolotto, non era in grado di salire la rampa di scale che dal piano strada conduceva al loro appartamento. Letizia era accorsa per aiutarlo e, quale ricompensa, non appena raggiunto il ballatoio d'ingresso, lui le aveva allungato un manrovescio che l'aveva fatta ruzzolare rovinosamente dalle scale. Era rimasta stesa, immobile: sembrava morta. Una vicina, impaurita, aveva chiamato l'autoambulanza, che l'aveva trasportata all'ospedale di Careggi. Incinta di tre mesi, per il bambino che portava in grembo non c'era stato nulla da fare. Nessuno aveva denunciato Ruggero per percosse, nel clima di omertà che in quel tempo aleggiava nel quartiere di Oltrarno, appena nato e già rifugio di una larga schiera di diseredati. Al ritorno di Letizia dall'ospedale, niente era cambiato e la vita di soprusi e prevaricazioni aveva ripreso, giorno dopo giorno, violenza dopo violenza. Poi, era sopraggiunta l'improvvisa libertà con l'arresto di Ruggero e la conseguente condanna al carcere. Ma quella libertà era costata ben cara a Letizia che, con una bambina da mantenere, non disponeva di alcuna risorsa se non la sua bellezza. Il padrone di casa esigeva la pigione e la spesa per il sostentamento quotidiano non poteva andare oltre ai già gravosi debiti contratti con i negozianti del vicinato. Letizia aveva iniziato ad andare a servizio presso una fami-glia del centro, ma la presenza di Elena rappresentava un ostacolo insormontabile per lei e, dopo una breve esperienza, aveva dovuto rinunciare. L'impiego di commessa nel negozio di stoffe era riuscito a ottenerlo concedendo il suo corpo al padrone di casa, un cinquantenne grasso e pelato che l'aveva poi raccomandata al negoziante, suo amico e complice in libidinose storie con adolescenti. L'individuo era andato a reclamare tre mesi di affitto arretrati e si era piantato dinanzi alla porta, che aveva abilmente richiuso alle sue spalle, minacciando lo sfratto immediato. Poi aveva suggerito a Letizia la soluzione più immediata per l'estinzione del debito, allungando le manacce sul suo seno. - Sei bella e tosta e ci sarebbe il modo di ripagarmi - le aveva detto spudoratamente. Lei aveva capito il potere che poteva esercitare sul suo aguzzino e aveva usato il suo corpo per raggiungere lo scopo: non pagare la pigione e continuare ad avere un tetto sulla testa. Finché non era comparso sulla scena il Cecchi, che, al culmine di un coito, aveva avuto a sussurrarle: - Farò di te una regina! - . - In che modo? - aveva chiesto sfacciatamente Letizia. - Nel modo che conosco meglio. - Lui aveva tirato fuori dalle tasche dei pantaloni, buttati alla rinfusa su una sedia, un fascio di biglietti da centomila lire. Gliel'aveva sventolato in faccia. Letizia aveva sorriso e avvicinato la bocca al ventre di lui. - Tu mi fai impazzire! - aveva sussultato il Cecchi. - Dove mai hai imparato a dare piacere con tanta maestria? - Lei, per tutta risposta, aveva affondato ancor più le labbra, mentre la sua mente vagava in sogni di ricchezza e benessere.
Giampiero Momi
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