È detto che i Voïni lavorassero la Materia Elementare con inarrivabile valentia, forti dell'ammaestramento ricevuto dal Creatore. E più abili erano Arìmis e Alùdis, tra coloro che perfezionarono l'arte della metallurgia e dell'edificazione; le loro opere superiori in pregevolezza. Su di una pluralità di lavori esse vi avevano già posto mano, e tant'altri ancora attendevano in divenire, nel lucore del loro ingegno. Nei tempi a venire, avrebbero loro volta ammaestrato i Successivi, e questi avrebbero portato all'essere il lavoro del Creatore. Nella sua infinita sapienza, Eloïs Mokrà aveva preavvisato la necessità di tramandare le sue nobili arti; e forse ché un'ombra dal futuro si fosse adagiata sul suo dosso, annunciando l'incombenza cui non si sarebbero potuti sottrarre. Il destino della sua Casa era legato a filo doppio a quelle notevoli arti. L'eco delle loro fatiche ogni essere di Eloïs l'udì diffondersi nel loro dominio, dalle fucine torride e su per gli alti torrioni di un tempo, ancorché essi siano degradati a ravine e sostituiti da più nuovi fastigi. Tanto profondi i tintinnì e i metallici clangori, i sordi aliti di fiamma come ruggiti di tigri possenti; e poderosi erano i loro martelli, inesauribile era la Materia duttile che sferzavano e discioglievano alla goccia, per poi rifoggiare alla guisa che fosse loro più gradita. Dal Disegno del Fuoco traevano ispirazione per quegli ardui compiti; ma pur sempre rimaneva loro l'afflato poetico con cui sognavano, e modellavano la rude amalgama, a guisa di ciò che era nobile e suggeriva ispirito. Così fu per molto tempo, durante il quale vieppiù la loro Casa diveniva modellata e resa in centro dell'essenza del Creatore, siccome posta su un piedistallo focoso alla proda della Notte dei Tempi. E lì essi erano aduggiati alle loro fiamme e resi liberi di edificare fintanto che la loro compiacenza li compagnasse; ed era questa una cosa molto buona, poiché erano solo pilastri quelli che gettavano e non case o palazzi, colonne sostenitrici e pavimenti a cingergli il capo petroso, e orizzonti e confini che mano a mano dilatavano nell'aere della cintura di Mokrà. E ciò era perché fu detto loro che sì doveva essere, ancorché già sapessero: in arrivo per loro animi era una novella compagnia. Invero, presto la Casa di Anèloreïs fu resa molto popolosa, e molte le creature minori a dimorar pei verdi giardini o su ai fastosi edifici; ed essi erano per lui come i suoi Angeli, dei discepoli che, quantunque di ordine minore rispetto ai Voïni, ne seguivano i passi e vivevano secondo i suoi comandamenti. Ed è così che erano noti: i Minori, poiché erano venuti dopo. Se li mise accanto per non perderli nella vastità della sua essenza, e quivi essi coronavano il Disegno assieme alle sue visioni di gloria, splendenti di oro e d'argento, ma anche d'innumerevoli elementi policromi; il Fuoco li portò in Essere dacché così aveva immaginato l'opera, anche se questa era solamente a mezzo compiuta, e molto altro era da farsi: invero il suo cuore non desiderava altro che circondarsi di creature senzienti. Magnifico come non sarebbe mai stato altrimenti, e possente della Possanza che i suoi tesori gli infondevano, Egli prese il posto di Artiere su un trono fatto di ogni materiale concepito; che pure, era riccamente adornato con istoriazioni raffinatissime, bassorilievi figuranti scene della sua venuta e della venuta dei Voïni – pure, molto spazio fosse stato lasciato libero per le cose che dovevano ancora accadere –, e castoni bordati d'oro con gemme e pietre come mai se n'erano viste; e di queste era rinomata la luce policroma e rifulgente, che Arìmis l'aveva tratta con gioia dall'occhi suoi splendenti. Oltreché in eleganza, pei superbi fastigi che raggiungeva, anche in possanza lo si poteva riconoscere, dacché dalle alte guglie dello scranno si levavano come all'infinito fiamme poderose di luce dorata e incommensurabile ardore, e in esse ogni cosa tornava alla primigenia condizione; erano esse la prima e l'ultima origine di tutte le cose e della natura dell'universo. E Ragaraös fu allora la targa con cui gli Angeli lo conoscevano, ovverosia il Trono Infuocato. Eloïs Mokrà lo incastrò al centro della sua essenza, e quivi Egli poteva farsi vedere come un Re sul suo regale scranno, o altrimenti decidere di divenire alito di fiamma e sospirare su tutte le cose, invisibile ma pure onnipresente. Egli poteva mostrarsi tanto possente da non potersi più distinguere nella Fiamma, oppure minuscolo come i suoi esseri Voïni. Ma sempre se ne avvertiva la presenza, ammenoché Egli non decidesse di celarsi e rimanere sospeso nel tempo, come un fuoco fatuo a scorger limpidi orizzonti dall'incorporeo reame. Di lui, tuttavia, se ne ricorderà sempre l'immagine come di un Signore gigantesco racchiuso in un manto di fiamme, sul cui Trono Infuocato, nel mezzo di ogni cosa, esercitava indiscussa potestà. Ora, prima che tutti i territori che ad oggi sono stati creati divenissero ripartiti e spansi come su un piedistallo nel mezzo della sua immensa fiamma, solo una piccolissima porzione di essi era stata concepita. Di queste sparute terre, ancora primordiali e soltanto a mezzo formate, si conserverà memoria del loro nome: Eldelan, quale era per i devotissimi Minori di stirpe non Voïnu, ovvero la Terra Ancestrale. Al centro di tutto vi era il possente Ragaraös, cui sbuffavan le fiamme indosso e alle spalle come d'una lavica cascata; e il fuoco precipitava nel vacuo e si rimestava al corpo di Eloïs Mokrà, e pareva come se una nube di fumi contenesse un cuore di fiamme, a vedersi da lontano. E intorno al Trono, Anèloreïs dispose la Materia in una condizione assai più tepida e imperturbata, sì che i suoi Angeli potessero viverci in pace senza tema che questa l'ingurgitasse e li demolisse all'essere delle cose: era fatta dimodoché formasse la terra e il terriccio, con rocce megalitiche e sassi piccolini, che talvolta formavan distese lunghe e piatte oppure alture; e cert'altre volte, ammassi montani che di scalar non se ne poteva discutere. Su questa terra i Minori vissero felici assieme ai Voïni, le sorelle Maggiori, che chiamavan col nome di Oloreï, ovvero le Cose di Olos, che sarebbe il Fuoco. E furono appellati da Anèloreïs col nome di Mendoli, i Piccini, come lui teneramente usava intendere la loro forma, dacché fossero così venuti dal suo lavoro e certo non molto equiparabili alla stazza dei Voïni. Ma loro non badavano molto a questa difformità, anzi vivevano in beatitudine alla loro ombra e godendo dei frutti che nella terra erano stati disposti per loro. Furono il primo popolo infatti a mirar verzura negli orti e pei campi selvaggi, e di ciò si nutrivano perché molto poco ancora era stato compiuto, e poco il cibo per loro disposto su quella terra. Nondimeno, ciò era loro bastevole a tirar lunghi anni, essendoché l'Immortalità era sì discesa sui loro cuori, ma pure necessitavano di sussistenza; e il vettovagliamento era questione affidata da Anèloreïs ai suoi Voïni, che gli parlò sì dicendo: “Dei miei Piccoli ne avrete Signoraggio ma pure sarete in obbligo di curar loro appetiti. Non si abbia mai fame nella mia Casa!” Allora foreste si fecero germinar da quell'aspera terra, e inselvate furono certe creature dopo essere sorte dalle mani dei Voïni, che di frutti e tuberi si cibavano, pescati dal di sopra o sotto delle radici robuste di quegli alberi; e i Mendoli levavano dalle loro dimore per andare a caccia con archi e lance, che il legname stesso di quegli alberi provvedevano; e presto la loro indigenza fu colmata. Pure, dalle nubi che aleggiavano sull'Eldelan, ancorché non vi fosse alcun cielo a contenerle, i Voïni stuzzicarono con dita mordaci le loro pance candide e fosche, sì a farne gocciolare i vapori in rivoli e rivoletti; e vieppiù che ingurgitavano terra nella loro calata, s'ingrossavano a divenir torrenti e grossi fiumi. Quivi gli Oloreï riversarono otri di creature acquatiche d'infinite forme e colori, che vissero per conto loro e divennero frutti per l'appetito del Popolo di Anèloreïs. Allora la fame dei Mendoli divenne sazietà, e loro furono contenti e cantarono ai Supremi. Ma ancora, le rocce dure e grezze col tempo furono levigate dai venti e da quelle stesse acque, e sperse lontano dalle loro dimore, talché i Mendoli potessero arare i campi e propagare quelle piante che dolci frutti germinavano; perciò divennero presto sapienti nella coltivazione, pur senza mancar di ricevere ammaestramento dalle Dame di Anèloreïs. Allora la sazietà divenne presto abbondanza, e i Mendoli cominciarono a celebrare con danze e banchetti. Ciò era in specie del secondo comandamento di Anèloreïs: che tutte le cose fossero sante e degne di essere mantenute in forze e inviolate; ma che pure, non si piangesse la scomparsa di talune che eran lì per sostentarne altre, poiché Materia erano e Materia sarebbero ritornate, e così ancora fintanto che la Materia poteva essere plasmata e rifoggiata di nuovo, quale perpetuo ciclo di canti di Creazione e di vita. Così Eldelan fu presto detta come una terra prospera e dotata di molti frutti, ovverosia Elde Lancollo, o semplicemente Colloso. I Mendoli dunque vissero per molte ere nella grazia dei Voïni, e prosperarono divenendo da pochi a molti, dacché le mani dei Voïni continuassero a produrne di sempre tanti e singolari nella forma. Era così infatti ch'essi comparivano, e l'unica maniera dacché Anèloreïs non si fosse preoccupato di renderli fecondi. Ma ciò era affatto di sconforto per loro: potendo essi scegliere, non sarebbero tornati indietro alla loro creazione per far di sé cosa più diversa; al contrario, essi ringraziavano Anèloreïs e lo stimavano tantissimo per come Egli aveva inteso la loro forma. E per il solo fatto che gli bastasse chiedere agli Oloreï di conceder loro un figlio, o una sorella, o un fratello, o anche più d'una di queste cose assieme, e che gli Oloreï con gioia provvedessero a fornirgliene uno o più d'uno, era bastante a far sì ch'essi vivessero una vita davvero lieta nella loro Casa. Ed infatti le loro schiere divennero presto fitte, e gli uni divennero elementi di nuclei di famiglie, che consumavano pasti e si scaldavano al tepore dei loro tanti fuochi, nelle palafitte che in principio furono le loro dimore, nei pascoli e i verdi giardini di Eldelan. Questo era quantomeno il fare delle cose prima che si concepisse la mortalità.
Giovanni De Santis
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