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Autore: Liliana Martissa Mangoli
Quell'autunno a Budapest
Romance
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Quell'autunno a Budapest
Uscita di casa, mano a mano che procedeva, rimaneva sempre più impressionata. Che cosa era successo a quella città?
C'erano macerie dappertutto. Le rotaie del tram erano state divelte e le facciate dei palazzi riccamente ornate presentavano degli squarci più o meno vistosi. Due carri armati sovietici semi bruciacchiati erano fermi nei pressi di via Kossuth dove abitavano i Ferenczi. Avanzò con il cuore in gola, consapevole del pericolo. Allora era vero che i combattimenti avvenivano per le strade!
Incrociò qualche passante che camminava in fretta, rasente ai muri, lo sguardo a terra.
All'improvviso avvertì un rumore cupo, uno sferragliare che non seppe riconoscere poi, allibita, da una strada laterale vide sbucare due cingolati, che le parvero enormi.
Si strinse al muro in preda al panico, mentre quei carri di ferro avanzavano inesorabili puntando i cannoni, le parve, proprio contro di lei.
Per lunghi interminabili momenti rimase a fissarli, come ipnotizzata, poi si rese conto che la stavano ormai oltrepassando. Respirò. Che stupida! Aveva creduto che da quelle torrette i russi avrebbero sparato contro di lei.
Un crepitio di armi da fuoco risuonò in fondo alla strada. Rispose il rombo del cannone. Cecilia aguzzò lo sguardo e vide un gran polverone. Quando questo si dissolse, si accorse che un enorme squarcio si era prodotto all'ultimo piano di un palazzo in fondo alla via e che il cornicione era crollato. Da una finestra sventolava la bandiera ungherese con un buco al centro, al posto dei simboli del comunismo.
Gli insorti stavano sparando e i carri armati rispondevano al fuoco.
Incredula e atterrita, si mise a correre nella direzione opposta a quella in cui avveniva lo scontro. Incrociò un drappello di giovani armati di fucili. Non indossavano alcuna divisa ma avevano un bracciale con il bianco, rosso e verde, i colori della patria ungherese. Fra di loro c'era anche una donna.
“Laggiù”, disse loro sconvolta, “ci sono dei carri russi.”
“Danke schön...”, le rispose un giovane che indossava un impermeabile chiaro e sembrava il capo. Parlò brevemente ai suoi compagni che con un grido di esultanza lo seguirono di corsa.
Ma vanno a farsi ammazzare! pensò Cecilia disperata. E lei, che cosa doveva fare? Tornare a casa, come sarebbe stato prudente o andare da Margit?
Risolutamente prese una decisione. Sarebbe andata da Margit. A poco a poco la sua paura si affievolì. Riuscì ad orientarsi perché conosceva bene quella zona della città. Alla fine trovò la casa che le era stata indicata nell'indirizzo. Il portone d'ingresso era semiaperto.
Entrò in un vestibolo poco illuminato e incrociò un ragazzo che usciva in fretta. “Sto cercando Margit Ferenczi.”
“Là dentro.”
Aprì la porta indicatale e si trovò in un locale del piano terra, molto ampio, illuminato da finestroni muniti di inferriate che guardavano sul cortile interno. Vi ferveva una attività intensa.
Due ragazze battevano i tasti di antiquate macchine da scrivere. Alcuni giovani discutevano agitando dei fogli. La radio era accesa e accanto ad essa Margit prendeva rapidamente appunti.
Nessuno parve accorgersi della sua presenza. Si diresse verso la sorella di Mátyás, che alzò gli occhi e, riconoscendola, le sorrise con calore: “un momento...” mormorò continuando a scrivere i suoi appunti. Poi, quando ebbe finito, si alzò per abbracciarla: “Cecilia, grazie di essere venuta! Se vuoi, c'è del lavoro anche per te.” Accennò all'apparecchio radio: “Sono le trasmissioni di Radio Europa libera.”
Cecilia annuì. Conosceva l'emittente di propaganda americana per i paesi dell'est che trasmetteva da Monaco.
“Oltre che il tedesco”, riprese l'amica, “conoscerai certamente lo spagnolo, avendo vissuto in Argentina, quindi, se ci aggiungiamo l'italiano, sei una vera poliglotta. E noi abbiamo bisogno di persone che conoscano bene le lingue. Abbiamo dei testi in inglese e tedesco, ma ci mancano per l'appunto traduzioni in altre lingue. Potresti occupartene tu?”
“Certo.”
“Bene. Noi lavoriamo per una radio libera, naturalmente.”
“Naturalmente....” sorrise lei.
“...e non ti nascondo, che può essere un po' pericoloso. Te la senti di rischiare?”
“Sì.”
“Bene” e Margit l'abbracciò di nuovo, questa volta con una punta di emozione: “Sei arruolata! Vieni, che ti presento agli altri.”
Fu così che Cecilia si trovò a lavorare per la rivolta ungherese.
Il suo compito non era difficile. Più difficile era per lei rimanere impassibile di fronte alle notizie che doveva tradurre. Spesso faceva fatica a controllare la commozione.
Intorno a lei l'atmosfera non era affatto triste, regnava piuttosto un clima di eccitazione come se quei giovani partecipassero a una festa attesa da lungo tempo.
Conobbe tutti i componenti del gruppo, che la colpirono in vario modo per la loro personalità. Fra loro spiccava Márta, che lei soprannominò mentalmente la pasionaria e András, un giovane che aveva già visto dai Ferenczi, quando aveva portato i dischi da ballo e che quindi doveva essere amico di Mátyás. Aveva i modi pacati e l'autorevolezza di un capo. Il suo sguardo esprimeva una vivida intelligenza e, quando parlava, i concetti dovevano essere espressi con chiarezza perché i suoi interventi si dimostravano risolutivi.
Cecilia lo ammirava e fu contenta di essere trattata da lui con franco cameratismo e di essere stata accolta con simpatia.
Lavorava alacremente ad un tavolino e talvolta i fogli delle traduzioni le venivano quasi strappati di mano. Le notizie si susseguivano, portate da corrieri o captate da altre emittenti clandestine che trasmettevano dalla provincia.
Nel pomeriggio, mentre era profondamente assorta nel suo lavoro, entrò inaspettatamente Mátyás.
Cecilia rimase per un attimo senza respiro a fissare muta quel volto che aveva creduto di non rivedere mai più. Appariva smagrito con i lineamenti segnati dalla stanchezza e gli occhi arrossati, tipici di chi non dorme a sufficienza. Avrebbe voluto corrergli incontro, ma era come inchiodata al suo posto con il cuore in tumulto.
Alla fine Mátyás si accorse di lei e nel riconoscerla parve alterarsi. Poi le si avvicinò lentamente. “Tu... qui?”
“Non sapevi che ero a Budapest?”
“Sapevo che eri a Budapest. Ma... ti ho chiesto che ci fai qui, in via Baross.”
“Sono venuta per aiutarvi.”
“Non è questo il tuo posto”, le disse senza sorriso. “Non stiamo giocando. Te ne rendi conto?”
“Lo so, ma...”
“Torna subito a casa. E' troppo pericoloso qui. Si muore, lo capisci?”
“Se è pericoloso, allora perché Margit...”
“Margit è ungherese, non può fare altrimenti.”
Cecilia lo fissò e colse nel profondo dei suoi occhi, oltre a un turbamento tempestoso, una volontà irremovibile. Ma neanche lei era disposta a cedere. “Non puoi darmi degli ordini.”
“Ha ragione”, intervenne Margit che nel frattempo era sopraggiunta. “Qui non comandi tu e András è molto soddisfatto del contributo di Cecilia.”
“Forse András non sa che è la figlia di un diplomatico straniero.”
Cecilia replicò con freddezza: “Intendi dire che non ci si può fidare di me?”
“Non è questo. Penso piuttosto che sarebbe molto imbarazzante per tuo padre spiegare come mai sua figlia sia finita fra gli insorti. E, a proposito, lui lo sa che sei qui?”
“Non lo sa. Ma sappi che non riuscirai a tenermi lontana da qui.”
Sostenne il suo sguardo che passò dalla collera allo stupore per avvolgerla infine in una vampata di calore. Fu un attimo, poi Mátyás le voltò le spalle per rivolgersi alla sorella. Era venuto con dei documenti che dovevano essere trasmessi per radio.
Cecilia si sedette di nuovo al suo tavolino con le gambe molli. Le dita le tremavano e non riusciva a concentrarsi sul testo che aveva davanti. Era emozionata ma anche amareggiata e delusa per le modalità di quell'incontro che aveva tanto agognato.
Mentre ascoltava Mátyás parlare nella sua lingua musicale e misteriosa, sentì più acutamente che mai quanto fosse attratta da lui, profondamente e senza scampo. Avrebbe voluto andargli vicino, accarezzargli il volto provato dalla stanchezza e dalla tensione, baciarlo. Invece doveva stare alle sue regole. Lui faceva di tutto per tenerla lontana da sé.
All'improvviso, la porta della stanza fu spalancata da due ragazzi che parvero a Cecilia delle persone male in arnese, mentre erano solo...terribilmente sporchi e con la barba lunga! Erano venuti per annunciare qualcosa, esultanti. Margit corse felice ad abbracciarli, nell'agitazione generale.
Anche Cecilia si alzò in piedi e interrogò con lo sguardo Mátyás che le comunicò la notizia. Il colonnello dell'esercito ungherese Pál Maléter che era stato mandato per assaltare la caserma Kilián, in mano ai rivoltosi, si era rifiutato di attaccare ed era passato dalla loro parte.
“E' molto importante, vero?” gli chiese, eccitata.
“Sì. Significa che ora anche l'esercito è dalla nostra parte.”
“Come sono felice. E ora, che cosa succederà?”
“Non lo so. Può succedere di tutto. Ma l'importante è che non siano gli ungheresi a versare sangue ungherese. Ora saranno solo i russi ad ucciderci...oltre agli agenti dell'AVO.”
Cecilia si sentì rabbrividire: “Non parlare così, Mátyás. Sembra che la vita per te non abbia alcun valore...”
Lui la guardò quasi con stupore. “Ti sbagli. E' la vita senza libertà che è senza valore. Questo lo puoi capire?”
Toccata nel profondo, Cecilia ricordò ciò che lui le aveva detto mesi prima alla Cittadella e cioè che gli ungheresi erano prigionieri nella loro stessa patria.
“Ma, dimmi”, aveva ripreso Mátyás, “Come ci giudica tuo padre? Ci considera dei pazzi?” E poiché lei non rispondeva, continuò con un sorriso amaro: “Il mondo libero ci considera dei pazzi, ma non è cosi, Cecilia, te lo posso assicurare. Siamo solo disperati...”
Istintivamente lei alzò la mano per una carezza, come a lenire quel dolore. Benché sorpreso, lui gliela prese e, rovesciandola, indugiò a premere le labbra sul suo palmo con tenera sensualità.
Poi si allontanò per parlare ai compagni e per qualche tempo lei si sentì isolata dal gruppo e non soltanto perché la conversazione concitata si svolgeva in ungherese. Infine, dopo una ventina di minuti, Mátyás tornò da lei e la prese per un braccio, dicendole con autorità: “Andiamo! E' tardi. Ti accompagno a casa.”
Non replicò. Andò a prendere il cappotto e lo seguì dopo aver salutato Margit e gli altri ragazzi.

Liliana Martissa Mangoli

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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