Quanti di noi possono dire di essere veramente felici. Quanti possono dire di emozionarsi ancora. Quante persone possono dire di vivere la vita che sognavano da piccoli. La vita a volte ci regala tanto, ma spesso tutto quello che abbiamo, non riesce a compensare quello che ci manca. Di sicuro molte persone nel mondo vorrebbero essere al mio posto, data la mia invidiabile posizione economica e la mia notorietà nel mondo della moda, ma sarebbero davvero in grado di accettare tutto il dolore che stanzia dentro di me? In realtà non si tratta di dolore, ma semplicemente di non riuscire a provare niente. Sentirsi incompleta, alla perenne ricerca di qualcosa, senza capire cosa. Sono sempre stata un tipo di persona chiusa e riservata, la mia mente vaga, viaggia e si perde nel tutto e nel niente. Il mio carattere non mi ha permesso di essere espansiva nemmeno con la mia famiglia, come se fossi bloccata da una sorta di cherofobia crescente. La vita poi, ci ha messo il suo carico. È da questo che ha origine il mio soprannome Ice, perché sono esattamente come il ghiaccio. Fredda, indifferente a tutto ciò che mi circonda, insensibile a tutto quello che accade, agli affetti e alle passioni, priva di ogni capacità di relazione e reazione con tutti, come se non riuscissi a trovare il mio posto nel mondo e non sapessi come comportarmi. Emily irrompe nella mia camera con la marcia di un soldato, la sua voce stridula sovrasta la musica a tutto volume. Con la sua solita delicatezza interrompe il vagare dei miei pensieri e la concentrazione che sto riponendo nella realizzazione della nuova collezione da presentare a fine mese. - Ice cazzo, non sei ancora pronta! Tua zia Vicky ci uccide se facciamo tardi anche stasera. Anzi proprio stasera, visto che la festa di compleanno è già iniziata e manca proprio la festeggiata! - Troneggia su di me con fare minaccioso, come un bravo soldatino in missione. - Sister tranquilla, devo solo mettermi le scarpe. - Le dico, prendendomi gioco della sua ansia e ridendo per la spudorata menzogna, visto che indosso ancora una t-shirt bianca lacerata e un paio di jeans strappati. Emily non è realmente mia sorella, sono figlia unica, ma è come se lo fosse. Siamo cresciute insieme praticamente in simbiosi. Le nostre madri frequentavano lo stesso istituto e sono diventate migliori amiche il primo giorno di scuola. Da quando si sono conosciute, nessuno è più riuscito a separarle. Si sono sposate con una settimana di differenza, prima mia madre e poi la sua, il nostro concepimento è avvenuto come se si fossero messe d'accordo. Tra me ed Emily ci sono solo ventitré giorni di differenza. Spesso passo il tempo a osservare le foto di un vecchio album di famiglia che io e lei condividiamo. Scatti delle nostre madri vestite di bianco, il giorno delle nozze, foto di volti sorridenti, di pance che inneggiano alla vita, di vacanze trascorse insieme, feste e ricorrenze. Attimi immortalati qualora i ricordi inizino a sbiadirsi. È l'unico affetto presente nella mia vita, oltre a zia Vicky, ed è la sola persona che ancora crede che, prima o poi, ci sarà qualcosa di bello nella mia vita che mi porterà a sorridere di nuovo. - Emy, perché stai buttando fuori dal guardaroba tutti i miei vestiti? - Le domando, cercando di riporre con attenzione i nuovi bozzetti appena realizzati. Lei mi guarda sbigottita come se fossi un alieno e a dir la verità, a volte mi sembra davvero di esserlo. - Pronto... terra chiama Iceeeee? Possibile tu non lo capisca? - Adesso sembra davvero infuriata. - Stanno aspettando tutti te! - Ormai sta praticamente gridando dall'interno del mio guardaroba. - È il tuo compleanno e Victoria ci ha lavorato per tre mesi cercando di realizzare la festa perfetta. Lo so che per te non è facile, ma fallo per lei. - So che dovrei alzarmi da questa sedia, se non altro per dimostrare la dovuta riconoscenza come mi suggerisce Emily, ma la scenetta di lei che fino a un momento fa aveva una mise insuperabile, da far sentire “Kelly Brook”, la donna che per la scienza è stata considerata la più perfetta del pianeta, una semplice “Desperate Housewives”, mi lascia sorniona e immobile come una statua. Quando inizio a ridere a crepapelle, mi fulmina con uno sguardo rovente da far sciogliere il ghiaccio e inizia a lanciarmi qualsiasi oggetto a portata di mano. - Ice ti vuoi alzare da quella cazzo di sedia! - Le sue imprecazioni vanno e vengono da dentro il guardaroba, attutite dalla copiosa quantità di cotone, lino, pizzo e seta che staziona al suo interno. - Sto cercando un abito adatto all'occasione. - Mi dice, soffiando una ciocca di capelli davanti agli occhi. - So già cosa mettermi. - - Che non sia nero. - Aggiunge guardandomi torva, mentre continua ad ammassare capi di abbigliamento sul pavimento. - Ma... - Si interrompe. - Oohhh! - Ecco credo proprio che l'abbia trovato. - Dannazione Ice, dove lo tenevi nascosto questo? - Riemerge dal guardaroba con il luccichio agli occhi, come se stringesse tra le mani il “Santo Graal”. Sfila il vestito dalla gruccia e lo poggia sul suo fisico curvilineo, guardandosi allo specchio. È un abito midi di seta blu, con un motivo di paillettes applicate sullo chiffon di seta nera che sembra dar vita a due piume. - È perfetto! - Declama entusiasta, improvvisando delle pose sexy davanti allo specchio. Inizia a fare versi e saltellare, come una bambina alla quale hanno appena comprato il giocattolo che desiderava da un tempo per lei infinito. - Ok! Va bene! Ci sono! - Sbuffo. - Basta che tu la smetta di gridare e saltare come una pallina impazzita. Mi Fai girare la testa. Inoltre, dovresti darti una sistemata. - Le dico facendole l'occhiolino, sapendo di indispettirla. Mi alzo esasperata dalla mia comoda postazione di lavoro, mi avvicino a lei e dopo averle strappato l'abito dalle mani, la abbraccio intensamente. - Grazie! - Le sussurro prima di avviarmi verso il bagno. Emily non risponde, ma anche se di spalle, immagino già i suoi occhi velarsi e struggersi. A volte le parole sono superficiali e non sono necessarie, soprattutto tra noi due. Ci capiamo e ci completiamo. Questo è il primo compleanno che riesco a festeggiare da quando i miei genitori sono morti due anni fa. Il primo anno ero impegnata tra flebo e antidolorifici, con i medici che cercavano di salvarmi la vita a tutti i costi. L'anno scorso non ero ancora in vena di festeggiamenti, non che lo sia adesso, ma mia zia è stata irremovibile e non sono riuscita a impedirglielo. Ero in auto con i miei genitori la notte dell'incidente. Stavamo tornando a casa dopo l'ennesima sfilata di stagione, per presentare una nuova collezione di abiti realizzata da mio padre. Lui e mia madre erano al settimo cielo, perché in quell'occasione avevano sfruttato l'evento per far sfilare i dieci abiti della mia prima collezione. Il mio nome era stampato e proiettato ovunque, “Ella Evans” per intero o abbreviato in due “E” come preferivo firmarmi, visto che i miei genitori non sopportavano mi firmassi con il mio soprannome “Ice.” La collezione di mio padre fu un ulteriore acclamato successo, anche se era stata solo una messinscena, per far sì che all'evento partecipassero tutte le persone che contano veramente nel mondo della moda, così da far conoscere il talento della sua bambina. Mio padre era orgoglioso di me e non si è mai nascosto nel dimostrarlo. È stato lui a insegnarmi tutto quello che so, proprio come suo padre ha fatto con lui. Mio nonno James ha fondato la “Evans” a soli vent'anni ed è diventata una tra le dieci case di moda più famose, con oltre quattrocentocinquanta punti vendita in tutto il mondo e un valore di circa sessanta milioni di dollari. Sembra davvero comico e altrettanto ridicolo quello che a volte il fato decide. Anche i miei nonni sono morti entrambi a causa di un incidente stradale, poco prima che io nascessi. Tornavano dalle vacanze estive trascorse ad Aspen, insieme a zia Vicky. Lei si è salvata, ma purtroppo a causa dell'incidente, il forte impatto le ha fatto perdere l'uso di entrambe le gambe. Ha dovuto lottare mesi tra la vita e la morte, poi ce l'ha fatta. Io e lei siamo le sopravvissute della nostra famiglia. Mia madre è cresciuta da sola, vagando di casa-famiglia in casa-famiglia, senza avere ricordo delle sue origini. Non abbiamo nessun altro al mondo. Siamo solo io, lei ed Emily. Forse è proprio questo senso di fragilità della condizione umana che ha avuto un imprinting sul mio carattere glaciale, dato che ho conosciuto la morte ancor prima della vita. Ho solo un vago ricordo dell'incidente e di quella notte tremenda. Dei frammenti offuscati di immagini che si accavallano, suoni e oggetti che si mescolano. La polizia disse che i freni dell'auto non avevano funzionato, probabilmente a causa di un vizio tecnico, è così che lo avevano definito. Un vizio tecnico. Ricordo il forte rumore dell'impatto con il guardrail, la testa di mia madre piegarsi violentemente in avanti verso il cruscotto, in un modo totalmente innaturale. Mio padre con le sue forti braccia inermi verso l'alto, come quando sei sulle montagne russe e vieni giù dal punto più alto. Poi il vuoto, poi nuovamente un rumore metallico che stride e oggetti che vorticano all'interno dell'abitacolo infrangendosi. Rumore di vetri rotti, sapore ferroso di sangue caldo e un rumore sordo nelle orecchie, quasi un sibilo incessante, forse un fischio, forse i soccorsi, poi più niente. Un bip bip fastidioso e insolente fu il suono che mi accolse quando mi decisi a riaprire gli occhi. Il bip bip sonoro del macchinario che serviva a monitorare il battito del mio cuore lento e assonnato, il bip bip di una vita che lottava per restare al mondo. Mi guardai intorno, fingendo di non capire bene dove mi trovassi, tra sogno e realtà. Una stanza asettica, bianca, un letto duro e scomodo, tanti peluche, fiori, palloncini colorati e biglietti che auspicavano una pronta guarigione. Il mio corpo sembrava diviso a metà nel torpore dei tranquillanti. I miei genitori non erano lì, non erano nella stanza con me a tenermi la mano. Non erano più nella mia vita, se ne erano andati via per sempre, dimenticandosi di portarmi con loro. Quando realizzai che non si trattava di un sogno ma di una cruda e amara verità, i sentimenti iniziarono ad alternarsi tra panico e rabbia e dolore e odio e amore e poi ancora rabbia e dolore, poi il vuoto totale. Il giorno in cui mi sono risvegliata dal coma, con una lunga cicatrice sul petto, vicino al cuore, ho pianto tutte le lacrime concesse a un essere umano e ho assaporato tutte le possibili emozioni esistenti sulla faccia della terra contrastarsi tra di loro, dopodiché ho spento tutto. - Ice, puoi per favore stare ferma. Rischio di cavarti un occhio! - Mi ammonisce Emily mentre pastrocchia sul mio viso, applicando l'ennesima passata di mascara. Per lei non è mai sufficiente. - Scusa, stavo solo... - Mi interrompo non sapendo bene come terminare una frase che ha iniziato a incupire il suo sguardo, non appena ha incrociato i miei occhi. - Lo so tesoro. - Mormora prendendomi il viso tra le mani. - Ma tu, ora, ti metti le scarpe e corri giù, prima che entri qui dentro chi sai tu. - Continua mentre mima una faccia da mostro per imitare mia zia, cercando di sviare un argomento doloroso per entrambe. Emily ride, scherza, mi prende in giro per cercare continuamente di distrarre la mia mente dai cattivi pensieri e dai brutti ricordi, perché capisce sempre come mi sento e quanto sia difficile. Anche adesso mentre mi ulula l'ennesimo “Muoviti!”, i suoi occhi racchiudono insieme comprensione, pazienza e umanità. Mi guardo allo specchio, aspettando che Emily riemerga dal bagno. Vedo riflessa una copia dell'immagine di mia madre con gli occhi di mio padre. Lei era davvero bellissima, perfetta in tutto, amorevole, piena di passioni e di passione e mio padre si innamorò di lei appena i loro occhi entrarono in contatto, in mezzo a una folla folle di occhi, di aspiranti modelle pronte a tutto per essere individuate. Mio padre la vide e la scelse immediatamente e le fece indossare i capi di punta della sua collezione, ma lui non l'aveva scelta solo come modella, l'aveva scelta come anima gemella. Anche mia madre si era invaghita di lui, ma era altrettanto spaventata da quel mondo fatto di flash, apparenza, riflettori e meschinità. Nel mio mondo in effetti, per quanto sembri pieno di luce fatua e fascino, la cosa più schifosa è l'empietà delle persone che ti circondano e che ti degnano di considerazione solo per un tornaconto personale. Una settimana dopo il loro primo incontro, al termine di una sfilata, mio padre prese coraggio e le chiese di fermarsi a brindare con lui in un posto più intimo, la terrazza panoramica sul tetto dell'azienda di famiglia e da quella notte, sono rimasti insieme per sempre, così nella vita come nella morte. Ogni notte quando ero piccola mamma mi raccontava sempre del loro incontro, di quella sera e di tutto l'amore che provavano l'uno per l'altra e mi diceva che un giorno avrei trovato anche io un amore forte e sincero come il loro che mi avrebbe stravolto la vita. Le cose sono due, o non si riferiva al mio attuale ragazzo Trevor, o si sbagliava di brutto. - Oh. Mamma. Mia. Stavo letteralmente esplodendo. - Sillaba uscendo dal bagno con lo stesso splendore di quando è entrata in camera, prima di improvvisarsi sub nel mio guardaroba. - Finalmente ti sei data una sistemata. - Mi prendo gioco di lei indicandole le tette che cercavano di uscirle dalla scollatura del vestito fino a un attimo fa. Ha delle tette enormi e ogni volta che indossa abiti scollati, il che avviene spesso, deve stare attenta che restino al loro posto. - Vaffanculo. - Replica semplice e diretta con il dito medio fresco di manicure, in bella mostra a un palmo dal mio naso. Poi esce snobbandomi, sculettando clamorosamente con fare teatrale. Alzo gli occhi al cielo, faccio un bel respiro e la seguo. Man mano che ci avviciniamo al patio, la musica acquista d'intensità e si iniziano a vedere dei bagliori di luci cangianti, bolle di sapone e poi tante, troppe persone ammassate in gruppetti ben distinti che si studiano e si scambiano di tanto in tanto, finti sorrisi celati in provocazioni. Vorrei tornare nella tranquillità della mia camera, anzi preferirei essere nella casa che ho acquistato da poco, sulla spiaggia di Miami Beach, coccolata da un buon bicchiere di vino e dalla musica che preferisco. Lontana da tutto questo. Ma zia Vicky ha fatto tutto questo per me e non si merita il mio disappunto e neanche Emily che in questo momento, sembra avermi letto nel pensiero ancora una volta. - Ehi! Guardami! Bevi. Bevi. Bevi. Vedrai quanto tutti e tutto questo ti sembrerà divertente! - Scandisce articolando in gesti la sua affermazione, cercando di sovrastare il jingle “Tanti auguri” che la band ha iniziato a suonare, sicuramente a seguito di un cenno di mia zia che mi ha vista arrivare. Cerco di raggiungere il palco improvvisato nel centro del giardino, facendomi largo tra una moltitudine di volti sconosciuti, somiglianti tra loro per la chirurgia estetica. Da alcuni tubi posizionati in più parti del giardino, parte una pioggia di coriandoli color argento, da altri, una nube di polvere color oro che si mescola e si unisce a un'altra nuvola di fumo blu elettrico, bolle di sapone soffiate da varie direzioni. Quando mia zia si mette in testa di organizzare una festa, lo fa davvero in grande e per lei, ogni scusa è buona per invitare gente e festeggiare. Devo ancora digerire la cena del Ringraziamento. La osservo sul palco, sembra un direttore d'orchestra che con un semplice gesto della testa, coordina il susseguirsi degli effetti magici, con... - Cazzo! Ma dove cazzo stavi guardando? - Mi ritrovo completamente spalmata su un ragazzo, sul quale ho versato l'intero contenuto del drink dal colore blu Tiffany che non sapevo neanche di avere in mano fino a un momento prima. Deve essere stata sicuramente Emily, quando poco fa cercava di incitare il mio io, al divertimento. - Mi scusi, sono davvero desolata. - Pronuncio con una punta di irritazione dati i suoi toni scortesi e volgari che sembrano continuare. - Mi scusi un cazzo. - Esordisce senza neanche guardarmi in faccia, mentre osserva la tonalità di blu assunta dalla sua camicia bianca. La mia stizza aumenta, un altro infiltrato alla ricerca di notorietà, l'ennesimo modello che probabilmente, usa la mia festa di compleanno per avvicinarsi a mia zia. - Primo. Principessa, non sono tuo nonno. Avrò al massimo un anno o due più di te. Secondo. Mi hai appena rovinato un abito nuovo da duemila dollari! - Termina, cercando di rimettermi in equilibrio sui miei stessi tacchi. Nello stesso attimo in cui la sua mano fredda mi sfiora la pelle, lasciata scoperta dalla scollatura del vestito dietro la schiena, i suoi occhi mi guardano e mi scrutano indiscreti, come se mi avesse visto solo adesso e in quel preciso istante, una scarica elettrica improvvisa e violenta, mi attraversa con veemenza facendomi sobbalzare con intensità. Il fatto che lui compia il mio stesso movimento, mi fa capire che non me la sono immaginata, è stata reale e anche lui l'ha percepita. - Direi elettrica. - Sussurra con voce calma e suadente, continuando a perforarmi l'anima con lo sguardo, come se volesse entrare dentro di me per capire di cosa sono fatta, quando in realtà la questione è ignara anche a me. - Ti sei scordato di dire "cazzo" questa volta? - Mi prendo gioco di lui stranamente imbarazzata, cercando di ricompormi e cercando di ossigenare il cervello, palesemente in apnea da qualche minuto. - Si chiama educazione, dare del “lei” a uno sconosciuto. E poi? Non lo sai chi sono io? - Continuo con fare deciso e autoritario, imponendomi a lui neanche fossi Bill Gates. Una cosa decisamente estranea e decisamente lontana dai miei modi di fare. Inclina la testa di lato e arriccia le sensuali labbra fissandomi con curiosità, come un gatto quando vede un insetto per la prima volta e non sa se avvicinarsi e toccarlo, continuare a fissarlo per vedere quali saranno le sue mosse, oppure allontanarsi in fretta. Solo adesso mi rendo conto che non ha ancora spostato la sua mano dalla mia schiena, al contrario sembra prema lievemente più desiderosa. - Vediamo se ho capito bene. - Mormora. - Mi sei praticamente saltata addosso rovinandomi il completo e vorresti delle scuse da me, solo perché chiamandoti con un determinato nome, pretendi che gli altri, compreso il sottoscritto, saltino quando ordini “hop” “hop”? - Conclude con un modo di fare più controllato e meno scurrile. Mi tira con forza verso il suo corpo solido, inclinando la testa nel lato opposto, in attesa di un mio contrattacco che tarda ad arrivare. Non ne sono certa, ma credo di sentire le guance arrossarsi violentemente e andare a fuoco, al contrario delle gambe diventate gelatina molle. Ma chi diavolo si crede di essere questo sgradevole, bellissimo, arrogante, stupendo uomo. La poca luce, alternata alle polveri e ai giochi di colore, non rende giustizia alle linee del suo viso che si sottraggono alla mia vista. - Ice? Tutto ok? Andiamo dai. Sbrigati! - Emily mi piomba addosso come un pitbull, facendomi allontanare dal bellimbusto e strattonandomi via con sé, interrompendo la sfilza di aggettivi che la mia mente stava attribuendo alla creatura senza nome, nella quale mi sono appena imbattuta. Ancora stordita dall'incontro - scontro, salgo sul palco, intimorita dallo sguardo inviperito di mia zia Vicky. Mi faccio coraggio e l'abbraccio con forza, anche se sembra più infuriata che contenta nel vedermi. - Che diavolo di fine hai fatto? - Sibila nascondendo le parole in un sorriso indotto. - Sono quiiii. - Le rispondo in un inchino, trascinando con enfasi l'ultima vocale quanto più a lungo possibile. - Aspettavano tutti te! Ora sorridi! Fingi di essere entusiasta e fai il tuo discorso di ringraziamento. - Mi ordina, indicando il microfono al centro del palco, ma prima che mi allontani, mi trattiene per un braccio per terminare quello che ha da dire. - Il tuo regalo ti aspetta in garage. Buon compleanno stellina. - E mi stampa un bacio sonoro sulla fronte, porgendomi un calice di champagne. Mia zia è così. Dura e tenera, distaccata e appassionata, ghiaccio e fuoco. Dopotutto la vita ha tolto a lei, ancora di più di quello che ha tolto a me. Prima una madre, un padre e l'autonomia delle sue gambe, poi un fratello. Mi stampo un finto sorriso di circostanza e faccio quello che le persone che mi fissano in questo momento si aspettano da me. Mi schiarisco la voce, impacciata come sempre e prendo una lunga boccata d'aria. - Ringrazio tutti per essere qui a festeggiare il mio venticinquesimo compleanno. Avevo chiesto a mia zia Victoria, una tranquilla serata con le amiche, ma a quanto pare, ho molte più amiche di quanto pensassi. Anche se al momento, fatico ad associare i loro nomi ai loro volti. - Si levano delle risate e tutti sembrano apprezzare l'ironia del mio discorso, ignorando il fatto che al contrario, le mie parole sono sincere e prive di sarcasmo. Con accondiscendenza, sollevo in alto il calice e brindo a me stessa, sperando che sia di buon auspicio a questa lunga, interminabile serata. - Grazie. Grazie a tutti e... grazie a te zia. - Dopo pochi minuti, le lunghe braccia di Emily mi circondano il collo, più per sostenersi che per abbracciarmi. - Sei proprio una stronza. - Mi biascica all'orecchio. È già più sbronza di quanto mi aspettassi, ma nonostante questo si ricorda perfettamente dell'uomo in mezzo alla folla di festanti, dal quale mi ha letteralmente staccato. - Chi era mister culo di marmo? Non l'ho mai visto prima. - Beve un lungo sorso di un drink dall'aria estremamente alcolica. - Comunque ti stava scopando con gli occhi. Davanti a tutti. - Mormora con tutta la malizia che la caratterizza. Non so cosa risponderle, perché non ho la più pallida idea di chi lui fosse, per la verità non conosco i tre quarti dei presenti, ma era prevedibile. È mia zia che si occupa delle public relations aziendali e a quanto pare anche di quelle della mia vita privata, anche se sono convinta che molti volti sono ignoti a me quanto a lei, dati gli imbucati. Nessuno può rinunciare a una festa degli Evans e nessuno può farsi scappare l'occasione di farsi immortalare in qualche scatto fotografico che domani sarà pubblicato sulle principali riviste di gossip e di moda, solo per dire “C'ero anche io”. - Non lo conosco. Non l'ho mai visto prima di stasera ... - Le rispondo cercando il volto dello sconosciuto tra la folla. -... ma gli ho rovesciato il drink addosso, gli ho rovinato il completo e la sua camicia bianca è diventata azzurro Tiffany. Ho già fatto la mia bella figura, per cui adesso vado all'angolo bar a fare rifornimento. - Le rispondo cercando di sembrare distaccata e distesa, evitando di raccontarle dei brividi che ancora mi scaldano la pelle dopo quel contatto. - Perché gli hai rovesciato il drink addosso se neanche lo conosci? - Mi domanda ormai priva di concentrazione, mentre segue con lo sguardo un biondino tatuato che sta attraversando il salone. - Ci vediamo tra un po' Ice! - Mi liquida, scolandosi l'ultimo sorso della sua bevuta. Perfetto! La mia unica ancora di salvezza mi abbandona, lasciandomi sola con questa mandria di sconosciuti. Se non altro, stasera almeno lei si divertirà. Ha una specie di ossessione sessuale per i tipi tatuati. Sinceramente i tatuaggi non mi fanno impazzire, anzi, al contrario trovo che imprimere sulla propria pelle, frasi, aforismi e immagini, sia un modo superficiale di esibire con vanità, ciò che dovrebbe essere invisibile agli occhi altrui. Mi dirigo verso l'angolo bar, cercando di non farmi notare da mia zia e da certe persone che evito volentieri e ordino un Margarita. Dopo qualche secondo, un barman tutto muscoli con un sorriso sornione, mi porge il cocktail in una coppetta sombrero, con del sale e una fetta di limone sul bordo del bicchiere. - Abbiamo gusti decisi. Principessa. - Riconosco immediatamente il tono caldo della sua voce che mi solletica la pelle. Non ho bisogno di voltarmi per sapere che è il bellimbusto di prima. Potrei ignorarlo e far finta di niente. Fare come faccio di solito con tutti gli altri, quando cercano di attaccare bottone e alla fine, credendo che sia sorda o più facilmente che me la tiri, mi lasciano in pace e se vanno alla ricerca di altri nidi fertili più accessibili. Ma con lui non ci riesco, non riesco a ignorare il suo magnetismo. Voglio voltarmi. Devo voltarmi e incrociare ancora una volta quegli occhi che mi hanno scrutato impudicamente senza vergogna e senza ritegno, indiscreti e pieni di desiderio. - Con una serata del genere, mi creda, un po' di tequila è proprio quello che mi ci vuole. - Sono io che parlo, ma la voce che esce dalla mia bocca, non sembra appartenermi. - Ok ... - Esordisce, poi si ferma, come per evitare di dire qualcosa di cui potrebbe pentirsi. -... il mio nome è Jay. Jay Davies. - Mi dice, allungando la mano per presentarsi. - Ora non sono più uno sconosciuto. Così almeno smetterai di darmi del lei e di farmi sentire più vecchio di quello che sono. - Conclude soddisfatto, increspando le labbra sensuali in un sorriso malizioso. Poi prosegue, notando il mio silenzio in sua risposta. - Non conosco la ragione del tuo disagio a questo party, visto che sembra tutto ben riuscito, ma se hai bisogno di qualcosa di forte, allora dovresti provare un “girone dei dannati”. Con me. - Non ci posso credere. Pensa davvero che io sia così frivola e banale e che il mio disagio sia dovuto dalla paura che la festa non sia ben riuscita? Possibile che tutti cogitino solo all'apparenza e alla superficialità dell'apparire? Dato che la mia bocca non proferisce parola, continua il suo monologo. - Il nome del drink è tutto un programma. Se lo sanno fare bene, come me, è uno dei cocktail più alcolici che conosca. Ti porta in una dimensione parallela di tuo piacimento. È a base di assenzio, vodka, gin, tequila... - Mi alzo di scatto. A tutta l'ordinaria banalità c'è un limite. Mi allontano spedita dal bancone, annoiata dal suo fare esperto e noioso di finto barman, credendolo immeritatamente più interessante di quello che si è rivelato. Non sopporto le persone piene di sé che amano ascoltare la propria voce. A questa festa ce ne sono già a dismisura, inoltre, credo di essermi già prolungata troppo a questa stupida celebrazione. Gli invitati mi hanno vista e hanno avuto il loro discorso di ringraziamento. Zia Vicky mi ha vista e sicuramente adesso è troppo impegnata a intrattenere i suoi ospiti, per accorgersi della mia assenza. Direi che posso dileguarmi nella mia stanza e dedicarmi alla nuova collezione, a fare qualcosa che dia una parvenza di senso alla mia patetica esistenza. Salgo le scale due gradini alla volta, cercando di lasciarmi tutto e tutti alle spalle più rapidamente possibile. Manca solo un gradino, quando mi sento strattonare all'indietro con forza. La stessa forza che impedisce di farmi cadere rovinosamente giù per la rampa di scale o di fuggire velocemente, in direzione della mia stanza. - I tuoi genitori non ti hanno insegnato l'educazione? - Pretende di sapere con ostilità, palesemente irritato per averlo abbandonato all'angolo bar, a condurre il suo show. Se prima il suo sguardo mi metteva inspiegabilmente a disagio e teneva sconnessa la mia bocca e il mio corpo, adesso la reazione che mi provoca la sua affermazione è violenta e repentina. Non mi rendo conto dello schiaffo che gli mollo sulla guancia, fino a quando non inizio a sentire il calore formicolare all'interno del palmo della mano, a seguito del colpo sferrato. Mi guarda con gli occhi sbarrati, incredulo del mio gesto tanto quanto lo sono io. - I miei genitori sono morti! - Gli sbraito a due centimetri dal viso. Vorrei gridargli ancora che è solo un patetico, presuntuoso del cazzo. Che non sa niente di me e della mia vita. Vorrei fargli capire da dove viene il disagio che provo in una serata del genere, come sia impossibile per me festeggiare un altro anno di vita. Ma che senso avrebbe e perché dovrei dilungarmi in spiegazioni inutili che sicuramente dimenticherebbe il giorno dopo. È solo un uomo rifiutato e ferito nell'orgoglio. Grazie al ceffone che gli ho dato, riesco a riguadagnare il possesso della mia libertà e decido di sfruttarla per fuggire, lasciandolo immobile e muto per un fatto inatteso, attonito, su una rampa di scale che stasera non lo porterà da nessuna parte. Con il fiato corto mi chiudo la porta alle spalle e torno a respirare, finalmente rintanata nella mia camera, con i demoni che conosco e che riesco a gestire.
Vanessa Mannucci
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