Lo strano caso di Armando il terribile armadillo
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Com'è fatto un armadillo.
Erano circa le sei del pomeriggio quando Tobi, dopo essersi catapultato fuori dalla casa della signorina Moletti, si precipitava a percorrere, ansimante, l'ultimo tratto di strada che lo separava dalla sua.
A vederlo con quella fretta addosso, si poteva pensare che avesse qualcuno alle calcagna o anche che avesse urgenza di andare in bagno.
In realtà sperava solo di incontrare Jack e Toni vicino casa, per far loro un ultimo saluto prima di cena e per sapere se c'erano novità su quelli della banda.
Di solito i due lo aspettavano sotto casa della signorina, ma quel giorno avevano troppi compiti.
Passando, gettò un'occhiata distratta al vecchio negozio di animali, quello all'angolo.
Non c'era il tempo di appiccicarsi alla vetrina ad osservare tutte le bestioline esotiche all'interno, come tutti loro facevano sempre, fantasticando su come sarebbe stato bello possederne una e su tutte le avventure meravigliose di cui avrebbe potuto essere la compagna.
Era proprio da lì che era scappato l'armadillo, quello di cui parlavano tutti, ma proprio tutti.
Quello che qualcuno (non si sa bene chi) era sicuro che si chiamasse Armando.
Non era importante sapere chi avesse dato quel nome all'animaletto, il proprietario del negozio, qualcuno dei clienti o i ragazzi che circolavano tutto il giorno intorno alle vetrine, l'importante era sapere che l'armadillo si chiamava così.
C'era però una cosa ancora più importante da sapere e cioè che fino ad un certo pomeriggio dell'autunno scorso Armando se ne era stato lì, a percorrere placido in su e in giù la sua grossa scatola di vetro e a guardare con condiscendenza le facce animate dei curiosi. Il giorno dopo invece, non c'era più.
Quando il proprietario del negozio aveva comunicato a qualcuno (che poi lo aveva detto a qualcun altro, che poi lo aveva detto ad un altro ancora) che l'animale doveva essere scappato, visto che non si trovava più da nessuna parte, niente era più riuscito a fermare, nella testa dei ragazzi, l'esplosione delle più sfrenate fantasie.
C'era chi assicurava, con una certa spavalderia, di averlo visto affacciarsi nel cortile di casa sua, per sparire poi subito dopo a nascondersi tra i cespugli.
Qualcuno invece era convinto di aver riconosciuto, in una notte di pioggia, la sua ombra sul davanzale della finestra, attraverso i buchi della tapparella.
Un altro giurava di averlo scorto nel quartiere dove abitavano gli zingari, ed era anche sicuro che ce lo aveva portato uno zingaro in persona, infilato in un grosso sacco e che adesso Armando era diventato la loro mascotte.
Alcuni dicevano persino di sentire, quando in casa c'era silenzio, il rumore delle sue zampette provenire dalla cantina e di averlo intravisto quando erano scesi di sotto a travasare il vino.
C'era chi, addirittura, era sicuro di averlo ritrovato in un altro negozio in centro, simile a quello da cui era scappato e, tra le voci più bizzarre, non bisogna dimenticare quella di chi era convinto che Armando si fosse stabilito nelle fogne, dalle quali sbucava di tanto in tanto solo per prendere un po' d'aria.
Insomma, dopo tutto questo parlare di armadilli, vi sarete di certo chiesti com'è fatto un armadillo.
Beh, dovete sapere che un armadillo è un animale davvero spaventoso.
È alto almeno due metri e mezzo e possiede, sul guscio duro come acciaio, delle spine lunghe e affilate come frecce. Una criniera appuntita gira tutto intorno al suo collo, per poi gonfiarsi minacciosamente quando l'armadillo è arrabbiato.
Per non parlare dei denti: delle vere e proprie zanne conficcate nel ghigno feroce e cattivo, capaci di addentare, scarnificare e sventrare e della lunga coda a spatola, larga quanto una padella, in grado di girare di qua e di là a mulinello, spazzando via con forza, in caso di bisogno, tutti i nemici.
Così almeno lo aveva disegnato Tobi, qualche giorno prima, a casa della signorina Moletti, durante la sua seduta di logopedia.
D'altra parte, se proprio doveva essere onesto, lui Armando non è che se lo ricordasse molto bene, visto che erano trascorsi così tanti mesi dalla sua scomparsa e probabilmente nemmeno gli altri ragazzi che, col tempo, si erano lanciati in descrizioni sempre più ardite, a memoria della bestiola scomparsa.
Con la testa piena di tutte quelle immagini spaventose e invitanti, Tobi non aveva potuto fare a meno di disegnare Armando proprio così, come oramai si era convinto che fosse.
La signorina Moletti e gli altri grandi non avevano gradito la cosa e la signorina aveva scritto una nota negativa nella sua valutazione di metà anno, dicendo alla mamma qualcosa sul fatto che Tobi non era bravo a descrivere e a disegnare le cose che vedeva.
Lui invece era convinto di aver disegnato Armando benissimo e di questo erano convinti anche Jack e Toni, per i quali aveva ripetuto il disegno per essere proprio sicuro di non essersi sbagliato.
Ma purtroppo, si sa come sono fatti i grandi.
Dalla signorina Moletti Tobi (che in verità si chiamava Tobìas) andava due volte alla settimana, tutte le settimane di tutti i mesi dell'anno, tranne quando era vacanza, oramai da quasi tre anni.
Ci andava perché aveva la dislessia, che è una parola difficile.
Significava che non riusciva a leggere bene.
A Tobi, fino ad un certo punto, di questo non era importato poi molto: c'erano così tante cose da fare! Correre ad esempio, giocare con le macchinine, cercare di fare un salto sempre più alto, sfogliare il libro di fotografie di paesi lontani che il papà teneva nella libreria e tante altre cose interessanti.
Col tempo però, si era dovuto accorgere del fatto che tutti i suoi compagni di classe erano diventati capaci di leggere a voce alta una riga, due righe e anche una o due pagine intere del libro di letture mentre lui, quando arrivava il suo turno, non riusciva proprio a capire bene come funzionasse quella faccenda.
Non che non avesse capito che su quelle pagine c'erano dei segni che raccontavano qualcosa: la prima volta che la maestra Margherita lo aveva invitato a leggere a voce alta, per esempio, a giudicare dalle immagini era sicuro che la pagina in questione avesse a che fare con un cagnolino che inseguiva un gatto.
In qualche modo però sembrava proprio che tutte quelle letterine impresse con l'inchiostro nero non volessero collaborare con i suoi occhi: ballavano, si spostavano, si giravano, l'una aveva una forma che per un attimo sembrava facile da ricordare, poi cambiava un po', la volta dopo era tornata invece uguale a prima, poi era di nuovo un po' diversa, come a volergli fare un dispetto, infine si girava su se stessa. Per un attimo sembrava unirsi ad una delle altre e poi se ne tornava per conto proprio, come a voler fare la difficile.
Insomma quelle letterine, quelle monellacce, quelle saltapicchie, sembrava non volessero starsene mai ferme e cavare fuori da quella baraonda qualcosa di sensato pareva proprio un'impresa impossibile!
Tobi, lì per lì, aveva provato ad essere all'altezza della situazione e a raccontare lo stesso, a parole sue, la sua versione dei fatti: in fondo non era stupido e si capiva benissimo che si stava parlando di un cagnolino.
Così fece quella prima volta, poi la seconda e poi la terza, cercando di cavarsela alla meno peggio.
Ben presto però, la cosa non funzionò più e Tobi cominciò a vedere la maestra Margherita confabulare con la mamma all'uscita della scuola, a voce bassa, con aria da cospiratrice e cominciò a sentir aleggiare nell'aria, più e più volte, quella parola strana e minacciosa: dislessia.
Quando Tobi aveva udito quella parola per la prima volta aveva avuto molta paura perché gli ricordava uno dei nomi di quelle malattie strane che la maestra aveva spiegato loro sul libro di scienze. Una di quelle che ti fanno venire tante bolle o che ti fanno gonfiare qualche parte del corpo come un palloncino. Poi, infine, aveva capito che quella parola terribile aveva a che fare col fatto che non riusciva a leggere e, nel giro di un paio di mesi, era stato portato dalla signorina Moletti.
Andarci era molto noioso, ma in fondo non era niente di così spaventoso.
Erica Dota
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