Ero morto, agonizzante in un lago di sangue, e con me crollava l'ultimo baluardo a quella furia insensata; ero morto e l'ultima immagine era il buio dei suoi occhi che reclamava ancora sangue; ero morto, mentre le fiamme divoravano un'intera foresta e dal cielo rosso cadevano lampi di fuoco che squarciavano la terra incenerendo tutto; ero morto, eppure adesso mi trovo in piedi di fronte allo specchio di un bagno che non conosco, all'interno di una camera mai vista, e ogni volta, ogni singola volta, il volto che vedo riflesso non è il mio! La mia vita è sempre stata costellata da bizzarrie e forse per questo sono meno sorpreso di quanto dovrei. Con la mano mi rigiro il mento, lo sollevo e lo abbasso, e tiro la pelle fino a deformarla come per essere certo che non mi sia stata attaccata a forza. Il naso è più piccolo, gli occhi di un marrone chiaro invece del blu scuro, le orecchie coperte da capelli neri che mi arrivano fino alle spalle. Sono alto all'incirca un metro e ottantacinque e credo di avere una ventina d'anni; il petto è pieno di peli... e ne ho anche alcuni sulla schiena. “Non ci credo!” ripeto mettendo per la terza volta la testa sotto il getto d'acqua fredda del lavandino. Quando mi rialzo lo specchio restituisce lo stesso viso, nulla è cambiato, compresa la camera incredibilmente disordinata in cui mi trovo, con vestiti sparpagliati ovunque, montagne di indumenti che includono l'estate e l'inverno, mentre l'unico armadio, aperto, e sulla cui anta è appesa una cravatta, contiene solo una giacca azzurra e dei pantaloni. Uno stereo, di quelli vecchi, di quelli che solo i nostalgici conservano ancora, emerge per metà da sotto una coperta, indossando una mutandina bianca da donna. Libri, riviste di musica rock anni '70 e '80, completano l'arredo di questo ambiente vintage. Mi rimetto seduto sul letto, mentre l'odore di chiuso e di alcol che si solleva dalla moquette mi fa storcere il naso. Mi alzo per aprire la finestra e far entrare aria fresca, ma mi interrompo quando la porta si spalanca e un ragazzo all'incirca della mia età fa irruzione: davanti ai miei occhi si presenta una figura maestosa, alta più di due metri e con spalle che a stento attraversano l'ingresso; i suoi capelli sono lunghi, più dei miei, raccolti in una coda unita da un laccetto dello stesso colore dei capelli corvino. Indossa una camicia hawaiana e jeans comodi, mentre un cappellino rosso è stretto nella mano poggiata alla soglia: a primo impatto mi ricorda un albero, un enorme tronco con due braccia e due gambe. Sono ancora fermo a bocca aperta quando, dopo avermi squadrato con occhi sbarrati, grida: “che cazzo: copriti! Cosa mi tocca vedere di prima mattina. E poi, ti vuoi dare una mossa?” Mi accorgo di essere nudo e afferrando un angolo del lenzuolo mi copro le parti intime. Non ho ancora proferito parola, un po' per la sorpresa, un po' perché non saprei cosa dire; lui intuisce la mia incertezza e si avvicina, e io mi ritrovo a indietreggiare di due passi prima di venire raggiunto: “fa un po' vedere? Eh sì, hai gli occhi proprio arrossati: mi sa che la sbronza di ieri ti ha fatto male. Dai, muoviti adesso, magari il giappo ti può aiutare.” “Il... il giappo?” “Ma sì, dai, Satoru. È di sotto con Aaron; visto che non sei sceso a far colazione sono venuto a chiamarti. Stanotte hai proseguito la festa dopo che siamo rientrati, eh?” “Satoru? Aaron?” “Sì, adesso muovi il culo però, altrimenti non trovi più niente. E poi tra venti minuti iniziano i corsi.” Rimasto solo, libero da quell'uragano che mi ha travolto, ricado indietro nel letto notando una sottile crepa che attraversa il soffitto per proseguire fino al muro di fronte. La linea si interrompe dietro un calendario, che finora non avevo notato, dove una ragazza troneggia al centro del foglio. Sulla cima, in rosso, la scritta “Playboy 1984.” In un attimo sono in piedi e afferrato il calendario lo rigiro tra le mani. Lo lascio cadere e corro alla finestra: scostate le tende, due piani più in basso, si trova il cortile di un campus universitario con gli studenti che si avviano verso l'entrata in gruppi più o meno numerosi: sono tutti vestiti in modo sgargiante, con abiti larghi e colorati; le acconciature delle ragazze sono vaporose, con un trucco marcato; anche i maschi risultano appariscenti ai miei occhi, con capelli lunghi e abiti di una taglia più grande. Si guardano negli occhi quando si parlano, e quando non lo fanno la testa è fissa davanti. In un primo momento non capisco perché ne sono sorpreso, poi ci arrivo: nessuno ha il cellulare! Le parole mi escono dalla bocca spontanee, mentre con le mani tiro indietro i capelli fissando una pila di vestiti in un angolo: “oh merda!” Dieci minuti dopo cammino nella sala mensa, muovendomi a disagio in vestiti troppo larghi seppure a tono con l'ambiente circostante. Sono ancora confuso, alla ricerca di un senso per tutto questo, quando una voce sovrasta il rumore facendomi voltare in quella direzione: “Rio, da questa parte.” Il ragazzo conosciuto poco prima si sta sbracciando accanto a un tavolo: Rio. Dunque è questo il mio nome. Mi sposto facendomi largo tra la ressa e raggiungendo il punto di ritrovo; è un ragazzo dai capelli rossi a parlarmi, con un marcato accento tedesco: “avrai tante qualità, sarai anche un mago nel creare illusioni... ma l'alcool non lo reggi proprio. Tieni” e allungando la mano mi porge due brioche e un caffè: “è freddo, ma magari ti aiuta a superare la sbronza: Virgilio non esagerava quando ha descritto il tuo stato.” Rispondo con un sorriso stentato, afferrando una brioche per mascherare il disagio; i tre mi osservano ridacchiando, interrompendosi solo per guardare e commentare il passaggio di una ragazza. La sala è colma di studenti pronti ad andare a lezione, più o meno tutti sorridenti e con occhi carichi di aspettative, ben diversi dagli sguardi impauriti del mondo da cui provengo. La Terra è deturpata, messa a ferro e fuoco dal mostro dell'odio, della paura, un mondo che non sa più cos'è la speranza... cos'è il futuro. Mi desto dai pensieri solo quando l'enorme ragazzo chiede: “Satoru, perché non gli entri nella testa a mettere un po' di ordine: l'ha presa proprio brutta a questo giro.” Il giapponese mi guarda socchiudendo gli occhi come a soppesare la richiesta, incrociando le braccia e poggiandosi sullo schienale: “chi lo sa... non ho mai provato a guarire i postumi di una sbronza. Potrebbe funzionare.” Entrare nella testa? Ma di che parla? Che abbia dei poteri anche lui? È Aaron a rispondere per me, gli occhi che ancora sorridono e la voce decisa: “no ragazzi, abbiamo giurato che non avremmo mai usato i poteri su di noi.” “Ma questo è un caso a parte; qui si tratta di aiutare un amico.” “No Virgilio, Aaron ha ragione: un giuramento è un giuramento!” “Va bene”, il colosso si alza senza apparire risentito, lo zaino in spalla e lo sguardo già concentrato su altro: “scappo a lezione, ci vediamo dopo. Ehi Aaron, la biondina che ti piace tanto è appena passata, muoviti!” Aaron segue il suo sguardo e si alza con fretta salutandoci con un cenno della mano. Quasi non mi accorgo di essere rimasto solo con il giapponese, mentre la sala si svuota della maggioranza dei presenti: “allora, si può sapere cos'hai? Non ho bisogno di entrarti nella testa per rendermi conto che l'alcool non c'entra.” Lo guardo incerto, prendendo tempo giocherellando col piattino ormai vuoto della colazione. Vorrei dirgli: ‘prego, accomodati, se sei in grado di leggere la mente ti do libero accesso ai miei pensieri e ai miei ricordi' e così facendo sgravarmi dal peso che mi porto dentro; ma non me la sento, non prima, almeno, di aver compreso cosa sta succedendo, qual è il mio ruolo in questo scherzo. Quando gli rispondo cerco di apparire rilassato: “ho bevuto troppo. Non pensarci. Mi serve solo una bella dormita.” Lui non distoglie lo sguardo dal mio, e sono certo che sia consapevole della bugia. A ogni modo si alza lasciando cadere il discorso: “come vuoi, non insisto. Ma se hai bisogno, ci sono. A più tardi.” E con un inchino appena accennato, si allontana. La sala è ormai vuota e dove fino a poco prima le urla surclassavano la parola, ora regna il rumore ben più silenzioso degli inservienti che rimettono in ordine. L'ambiente sta assumendo le tonalità del cielo esterno, grigio come le nubi che vanno a coprire il sole. Nel parco attiguo, visibile dalla finestra come lo schermo di un cinema, mi sembra di assistere a una scena di un film dei primi anni '80, con gli ultimi studenti che si affrettano e i professori che procedono cupi e arcigni. Il viso si posa ora nel riflesso del vetro, nel volto di un ragazzo che mi fissa con la mia stessa intensità: che ne è stato di te? Perché sono qui invece che morto? Ma la risposta non arriva, solo lo stesso volto, le labbra serrate e gli occhi persi... come i miei. Non ho mai compreso in pieno la natura dei miei poteri ma raramente si sono dimostrati vani. Quindi un pensiero si insinua tra mille, facendosi largo come i raggi del sole tra le nubi: la domanda è sbagliata! L'importante non è “dove” mi trovo, ma “quando”. Forse sono in questo tempo per interrompere sul nascere la serie di eventi che hanno portato il mondo a bruciare. Mentre quel pensiero inizia a mettere radici, un ragazzo scompigliato che corre con una pila di fogli in mano mi urla: “Rio, sbrigati, sta iniziando psicobiologia.” Cosa vuoi che me ne freghi? penso mentre un sorriso ironico si disegna sul mio volto. Tuttavia mi alzo per raccogliere un foglio che gli è volato a terra; si tratta dell'orario delle lezioni con evidenziato il corso che dovrei seguire e appena sotto, accanto ai nomi dei professori di “teoria comportamentale” e “sociologia urbana”, quello del docente che terrà la lezione; e quel nome è un pugno nello stomaco, una matassa di fili che si attorciglia dentro di me facendomi cedere le gambe: “psicobiologia – prof. A. Mësmo.” Le emozioni spaziano tra l'incredulità e la paura, ma alla fine è la rabbia quella che prevale. Tutto assume un'altra dimensione e ai miei occhi diventa lampante il motivo del mio viaggio nel tempo: fermarlo! Stringo il foglio di carta tanto forte quanto i denti, mettendomi in piedi e affrettando il passo. Tutte le aule hanno le porte già chiuse, tranne quella col cartellino del corso che cerco. Mi fermo sulla soglia della sala ad anfiteatro: due grosse lavagne si trovano alle spalle della cattedra ancora libera mentre l'aula, sviluppata in altezza, è quasi completamente colma. Gli studenti parlottano tra di loro, chi sfogliando il libro, chi preparando carta e penna; sono ancora fermo, diviso tra il corridoio e l'aula, quando una mano alle mie spalle mi oltrepassa afferrando la porta e aprendola per intero. Quasi stento a riconoscerlo più giovane di una trentina d'anni dall'ultima volta che l'ho visto: un mese fa. Si rivolge a me con un sorriso caloroso e una voce suadente, ma facendolo con un tono alto, in modo che tutti possano sentirlo: “che ne dice di andare a prendere posto? O se preferisce può uscire: l'importante è decidere.” Nell'aula è sceso il silenzio, alcune ragazze sorridono dandosi di gomito, qualche ragazzo sta già prendendo appunti. Il professore procede oltre senza degnarmi più della sua attenzione, avviandosi con passo sicuro verso la cattedra per poggiarvi la borsa in pelle scura: “una decisione del genere non è certamente determinante, ma ce ne sono altre che possono esserlo, possono stravolgere l'intera concezione umana dell'essere.” Gli studenti lo guardano concentrati, in attesa, fermi come prede ipnotizzate dal movimento oscillante di un cobra. Mi affretto a salire la scala trovando posto in uno degli ultimi rimasti liberi. Mësmo è poggiato di spalle al tavolo e fissa gli studenti uno a uno come per accertarsi della loro attenzione: “questi sono anni favolosi, anni di sviluppo: la medicina riesce in cose che fino a dieci anni prima sembravano irrealizzabili; i computer svolgono lavori in frazioni di secondo e la scienza... la scienza...”, il suo sguardo per un attimo si perde, come per un pensiero di cui solo lui è al corrente e che accarezza per trarne giovamento. Quando riprende la frase di prima rimane tronca, ma non il concetto del discorso: “nel 1953 James Watson e Francis Crick scoprirono la struttura del DNA e ai più fu chiaro che quello era solo l'inizio. Sono quegli anni in cui si inizia a parlare della moderna biologia molecolare e di tutti gli sviluppi e potenzialità che avrebbe potuto offrire.” Il suo tono è entusiasta, coinvolgente, e tale eccitazione viene trasmessa agli studenti; ma io, che ho avuto la sfortuna di incontrarlo così tante volte, vi leggo solo compiacimento: “la scienza è fatta di sperimentazione, di prove empiriche e di teorie generali... allo stesso modo della psicologia. Quando guardiamo indietro verso quei pionieri che ci hanno spianato la strada, a volte ci fa sorridere ciò di cui erano convinti, altre volte rimaniamo increduli davanti alla loro genialità e preveggenza. Oggi, noi siamo i pionieri di una nuova scienza, i Watson e Crick, i Freud e Jung, perché siamo all'inizio di un'era, e unire la biologia alla psicologia aprirà frontiere inesplorate, permettendo di sviluppare il potenziale umano in una progressione geometrica. E voi”, quel voi viene rimarcato con una pausa: “siete i nuovi avventurieri, siano essi Cristoforo Colombo o Neil Armstrong.” Con sorriso affabile e voce velata d'ironia si volta verso un giovane in seconda fila: “tu, per esempio, assomigli a George Harrison: in fondo anche i Beatles sono stati dei pionieri.” La sala si unisce in una fragorosa risata, mentre il ragazzo arrossisce imbarazzato. Senza smettere di sorridere il professore alza la mano destra aperta verso gli studenti, e rispettando quell'ordine silenzioso l'aula torna calma e concentrata: “ho una domanda per voi: perché esistono differenze tra una persona e un'altra? Non intendo fisiche, ma attitudinali, intellettuali.” A quella domanda nessuno risponde, mentre il professore guarda in basso verso le scarpe, come per evitare che i suoi occhi svelino in anticipo la risposta. Un ragazzo con giacca a quadri e due baffi cespugliosi, solleva la mano e inizia a parlare non appena il professore lo indica con un cenno del capo: “per via del contesto in cui vive.” “Sì, può andare. Altro?” Questa volta è una ragazza che, non appena indicata, si alza per rispondere: “perché”, ma subito dopo si interrompe, quasi spaventata di proseguire; Mësmo tuttavia le rivolge un ampio sorriso di incoraggiamento e lei riprende: “perché nasciamo con un codice genetico diverso.” Non si capisce se la frase termini in un'affermazione o in un'altra domanda, ma al professore questo non importa; quel teatrino, comprendo, ha avuto il solo scopo di giungere dove voleva, come un gatto che ha giocato col topo prima della zampata finale. Picchiando le mani sul tavolo si allontana dalla cattedra, andando a ridosso della prima fila per guardare più da vicino i presenti: “esatto! Così come esistono differenze tra l'essere umano e l'animale, o tra pianta e invertebrato, esistono differenze tra uomo e uomo e tra donna e donna, e queste differenze sono scritte nel genoma. Certo, chi cresce in un determinato contesto avrà la fortuna o meno di sviluppare il suo potenziale: se Einstein fosse nato in un villaggio del centro Africa sarebbe potuto diventare al massimo un capo tribù. Ma è il genoma la chiave, ed è in esso che troviamo scritto il nostro potenziale.” “Professore, ma così appare tutto già prestabilito!” Non identifico la voce maschile di chi ha parlato, ma indubbiamente Mësmo pare contento di quella osservazione: “giusto, ed è proprio qui che ci collochiamo noi. Qualcuno ha sentito parlare di epigenetica?” il suo sguardo corre veloce tra i visi attenti. Come se stesse cambiando discorso ricomincia a parlare, ma il suo saltare da un argomento a un altro serve ad attirare l'attenzione: “lasciate che vi racconti una storiella: Darwin e Freud entrano in un bar e vedono due topi alcolizzati, per l'esattezza la madre con il figlio. I due topi siedono su degli sgabelli al banco bevendo senza sosta quindi, la mamma topo, alza lo sguardo e chiede ai due scienziati se sappiano come mai il figlio sia in quello stato: cattiva eredità, risponde Darwin; cattiva educazione, dice Freud.” L'aula è così silenziosa che si sente il ticchettio dell'orologio a muro, in febbrile attesa del proseguo: “natura o educazione, biologia o psicologia... in passato queste due branche si sono spesso scontrate, ma oggi sono unite in una nuova disciplina: l'epigenetica. Le esperienze di vita possono influenzare i geni, e i geni possono essere trasmessi di generazione in generazione e forse” segue una pausa, “da persona a persona.” “Come può avvenire tutto ciò?” chiede una ragazza un paio di file al di sotto della mia. “Ma è quello che già avviene in natura: gli uccelli sanno per istinto quale viaggio iniziare in una migrazione e l'uomo stesso, sempre per istinto, teme il fuoco così come il buio. Le persone nascono con un imprinting, un codice genetico trasmesso dai genitori ai figli; a noi non resta altro che duplicare l'utile e scartare il superfluo, trasferire un codice e accrescere il potenziale di un soggetto recettivo fino a...” “... e non importa se è a scapito dell'uomo?” le parole escono dalla mia bocca sorprendendo me per primo; l'attenzione di tutti è ora rivolta nella mia direzione, il silenzio sostituito dal brusio, i volti che mi scrutano alcuni curiosi, altri ostili. “L'uomo è un individuo sociale” replica senza scomporsi il professore: “ed è giusto che contribuisca allo sviluppo della società in cui vive. I ratti mandano il più vecchio di loro o malato ad assaggiare un cibo che non conoscono, sacrificandolo all'occorrenza per il bene della collettività; qui si parla di crescita, di sviluppo, di migliori condizioni per tutti. E in ogni caso non si preoccupi, non viene chiesto a nessuno il martirio, solo di condividere il proprio potenziale.” Il sorriso che fa seguito contagia anche il resto dell'aula... ma non me! Sta per riprendere a parlare certo di aver vinto questo scontro dialettico, ma io sono ben lontano dall'essere sconfitto; sono anzi desideroso di instillare il dubbio anche in un solo studente, smontare quell'aura di misticismo per dimostrare che la caduta di un re con tutti i suoi ornamenti, fa più rumore della caduta dell'ultimo dei mendicanti: “le persone non sono animali, non sono ratti! Chi stabilisce qual è il limite da non superare? Chi stabilisce cos'è meglio per una persona? Chi stabilisce...” Questa volta è il professore a interrompermi con un'alzata di mano, il sorriso scomparso e uno sguardo freddo, calcolatore. Le parole sono ben ponderate, pronunciate con tono basso e prive di inflessioni: “lei parla di etica, e il corso di etica si tiene in altre sedi. Anche la religione ha rallentato lo sviluppo dell'uomo per secoli interi, eppure non ha potuto arrestare il progresso... ha solo rallentato l'inevitabile: posso anticiparle che fra cinquant'anni quello che è eticamente valido adesso, non lo sarà in futuro. Per cui, a quale scopo assecondare la morale, rifiutare qualcosa oggi per accettarlo domani? Le faccio una domanda: se lei fosse così fortunato da avere mille abilità, da averne mille meno una, e nel momento del bisogno fosse proprio quell'unica a mancarle... lei non le baratterebbe tutte quante? Ebbene, io vado oltre, ho una visione molto più... utile, e non voglio togliere niente a nessuno, semmai il contrario.” Restiamo in silenzio, in silenzio come i presenti che attendono bramosi il seguito di questa contesa; alla fine sono io ad abbassare lo sguardo, incerto, senza più argomentazioni. Consapevole della vittoria i suoi occhi tornano a rilassarsi e nel suo viso appare un sorriso calmo e trionfante: “a ogni modo oggi abbiamo divagato. È sempre giusto ascoltare le idee degli altri perché a volte aiutano a migliorare le proprie. La lezione è finita, riprenderemo giovedì da pagina 118.” Gli alunni si alzano per uscire dall'aula, profondendosi in larghi sorrisi e complimenti quando passano accanto al professore. Infine anche Mësmo esce, non prima però di avermi lanciato uno sguardo ostile, fanatico, un'occhiata che nel mio futuro rivedrò spesso. Mi gratto il braccio sinistro nel punto in cui fino a ieri c'era una larga cicatrice sostituita ora da semplice peluria. Un brivido mi corre lungo la schiena, una sensazione viscerale che come un germoglio si fa largo in una crepa dell'asfalto. Vado verso la finestra; il vetro riflette sempre lo stesso volto estraneo, ma negli occhi leggo un'espressione differente, una consapevolezza e un timore che infine raggiungono il mio cervello: la paura è legata all'accettazione di quanto detto da Mësmo, che la sua teoria, certo non completamente condivisibile, abbia un fondamento di ragione se analizzata da una prospettiva differente da quella di chi ne subisce gli effetti; e se acquisire un potere può salvarmi, permettermi di riscrivere la storia senza più variabili fatue... qualche sacrificio allora, può essere accettato.
Luca Scopitteri
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