“Ho avvertito la tua presenza. Ti ho sentita, sai? Che fai? Ti aggiri indecisa per la stanza, intorno al letto. Perché sei pensierosa? Non ci vedi al buio? Ti ho sempre immaginata determinata, sicura, a volte veloce, a volte molto lenta ma sempre decisa a svolgere il tuo compito senza incertezze. Che aspetti?” “Sei Janina?” “Sono Janina, Janina Strozberg.” “Tu sai chi sono, vero?” “Certamente che lo so, è un bel pezzo che ti aspetto.” “E non hai paura?” “Paura? No, sono curiosa.” “Sono venuta per portarti via.” “Sono pronta.” “Tutti mi temono. Spesso devo entrare in punta di piedi nelle stanze o attendere che il prescelto si addormenti.” “Non ho sonno: soffro d'insonnia. Che vuoi, che mi renda ben conto di ciò che sta per accadermi? Sono serena, in questa oscurità tengo gli occhi chiusi e attendo... con interesse.” “Non ti sei accorta che ti ho restituito ogni facoltà di pensiero, il tuo pensiero ultimamente così incerto, confuso da non distinguere il sogno dalla realtà, incapace di inseguire un'idea, un fatto, un'opinione?” “Perché l'hai fatto?” “Desidero conoscerti.” “Sicura di non aver sbagliato, come lo hai chiamato: prescelto? Grazie!... Ma tu vuoi essere ringraziata per ben altro. Allora grazie per quanto poco tu hai fatto, attorno a me, in questi ultimi lunghi decenni. Per quanto è accaduto prima probabilmente non sei stata nemmeno tu: penso che nemmeno ti abbiano consultata. Hanno fatto tutto da soli sostituendosi a Dio. Che presunzione, che ignoranza! Certo, Dio non c'entra, lo so che tu lavori da sola e di tua iniziativa, ma non ti sei accorta di quanto stava succedendo su tutta la terra? Ti hanno derubata del tuo compito e non è solo questo quel che hanno rubato. O forse hai delegato un compito per te troppo pesante quando ti hanno detto di mettere un po' di ordine nel creato. Ma c'è necessità di mettere ordine in tutta questa natura che vive così bene nel caos? Un diluvio universale per te o per chi ti manda deve esserci sempre.” “Diluvio universale! Hai detto bene. Forse ho incontrato la persona giusta.” “Posso solo annoiarti e tu avrai certo tanto altro lavoro da fare questa notte, io posso solo farti perder tempo.” “Il tempo non esiste. Posso dilatarlo a mio piacimento come fosse un elastico. Per questa notte, basta così. Ho lavorato sin troppo. Voglio riposarmi.” “Proprio adesso che sono così ben disposta a seguirti?” “Lo faccio, sai? È raro che io mi fermi al capezzale di qualcuno a lungo, ma lo faccio. Solitamente in pochi secondi eseguo il mio compito e vado presso un altro letto, o dovunque occorra la mia presenza: un campo, un ospedale, un automobile. La maggior parte delle persone non ha da raccontare qualcosa di interessante e non mi piace ascoltare le solite banalità, le solite paure. Ma, a volte, raramente, assai raramente, alcuni, mi onorano della loro compagnia. Allora mi piace sostare in una casa o, se ho più tempo, in una terapia intensiva, ovunque ci sia qualcuno con una storia interessante o con qualche ragionamento che possa non solo alleggerire il mio compito ma anche fornirmi un insegnamento o meglio mi aiuti a capire il vostro animo, i vostri istinti, il contrasto tra le necessità e la virtù insito in voi, la genialità e la debolezza.” “In quanto a necessità e debolezze va bene, ma per la genialità hai sbagliato persona.” “Non cerco il genio, cerco di capirvi meglio: non faccio altro che interrogare alcuni di voi, quelli che vogliono dare ancora qualche cosa, per non morire completamente. Allora fornisco loro un'ultima perfetta lucidità che la mia collega, la Vecchiaia, ha tolto. Converso, faccio domande, chiacchiero insomma; non si può pensare soltanto al lavoro. La Vecchiaia è una sciocca senza interesse per la vita degli umani: pensa soltanto a togliere loro le forze e l'intelletto. È fredda come il marmo, stolida come il gesso. E poi dicono che io sono cattiva.” “Con me sei stata molto cattiva! Troppo!” “Tieni conto che anche il Caso fa la sua parte, ha il suo peso nelle vostre vicissitudini e che non è per nulla marginale.” “Caso, Vecchiaia, sei troppo filosofa!” “Perché non ti accendi una sigaretta e non mi offri un Biancosarti? Ho voglia di fumare anch'io. Lascia stare, non ti alzare da letto, faccio io, prendo soltanto un po' di ghiaccio e un accendino. Tu sta attenta a non incendiare il materasso... Non posso salvarti la vita.” “Alla salute! Che vuoi sapere? Non sono diversa dagli altri.” “Sei differente. Mi hai rimproverato ma io non sono onnisciente. Fammi capire dove e quando ho sbagliato, ammesso che abbia sbagliato. Dov'è la mia responsabilità nel trattamento cui sei stata soggetta, nel tuo dolore. Fammi comprendere le tue accuse. Parlami di te.”
“Vengo da Kielce, una cittadina polacca. Come ero emozionata quel giorno di settembre quando, a Varsavia, sono salita sul treno che mi avrebbe portato in Italia! Era persino la prima volta che avrei viaggiato in treno e con quell'enorme mezzo avrei lasciato la Polonia per la mia indipendenza, la mia impresa. Avrei studiato in Italia e sarei diventata medico, uno dei primi medici donna in Polonia e la prima a Kielce. Quanta incoscienza c'era in me e quanta spensieratezza! Quel giorno una sottile pioggerella impregnava l'aria fondendosi al fumo delle ciminiere delle locomotive offuscando debolmente la vista delle persone, degli ombrelli, dei convogli ferroviari. Erano gocce di pioggia quelle sul viso dei miei genitori e di mio fratello? Mio padre sempre serio con i suoi baffi scuri decisi, la bocca sottile ma sempre pronta alla cordialità ed all'ironia aveva un'espressione perplessa. Mia madre, nel suo cappotto scuro stretto attorno alla figura sottile e sotto il cappello ampio continuava a riempirmi di raccomandazioni quasi non me ne avesse mai fatte nei giorni precedenti. Queste ultime erano per il viaggio e riguardavano soprattutto il comportamento che dovevo tenere con gli estranei, l'attenzione per le due valigie e per i documenti, per il baule nel vagone merci e per i biglietti. Io ascoltavo e ritenevo nella mia mente la metà di ciò che mi diceva: ero troppo emozionata per trattenere tutto, ma ben decisa a non commettere errori che potessero compromettere il mio viaggio, quindi ero già bene in guardia nei confronti di tutto e tutti. Complessivamente si poteva riassumere quel che mi veniva detto in tre parole: non ti fidare. Ma gli occhi di mia madre, quegli occhi così piccoli da renderli impenetrabili, le sopracciglia così ben arcuate, il viso così dolce esprimevano preoccupazione e tristezza. Non mi rendevo conto, lì sul predellino del vagone, di quanti potessero essere i motivi di ansietà negli occhi di mia madre, nemmeno paragonabili a quelli che provai io trent'anni dopo quando, dall'aeroporto di Quito, misi mia figlia sull'aereo per l'Italia. A Varsavia quel giorno un padre ed una madre ebrei mettevano sul treno una figlia diciassettenne diretta verso una nazione che allora era molto più lontana di quanto fosse l'America del sud negli anni sessanta. Una figlia educata alla responsabilità ma senza alcuna esperienza di vita. Un viaggio lungo, una distanza enorme, verso una nazione lontana, forse un poco più ricca, forse più colta, forse più ospitale ma non democratica come la Polonia. Non conoscevo la lingua, ero minorenne e resa diciottenne soltanto per un falso conseguito sui miei documenti da mio padre attraverso amicizie e corruzioni degli ufficiali dell'amministrazione cittadina. Così avevo un anno in più e la possibilità di iscrivermi all'università di una grande città sul mare, un mare che dicevano caldo in estate e che rendeva l'inverno gentile e tiepido. Così il treno era partito e dal finestrino ora interpretavo meglio il viso di mia madre: non era pioggia. Il berretto azzurro levato al cielo del mio fratellino David sarebbe sempre rimasto nella mia memoria. Mio padre ora non aveva più quell'espressione perplessa, i suoi occhi mostravano tranquillità mista a quella sicurezza dell'uomo che ha preso la decisione, se non la più giusta, almeno la più logica. Non era stato facile convincere i miei ad assecondare il desiderio di proseguire i miei studi universitari in un'altra nazione. Eppure non era stato nemmeno difficilissimo: sulle prime mi avevano detto un no deciso, ma quando, in seguito, tornai sull'argomento non li trovai più così contrari. Certo non erano entusiasti di assecondare il mio desiderio ma forse ne avevano discusso tra loro, analizzato i pro e i contro e si erano impegnati a studiarmi con altri sentimenti, sotto un punto di vista diverso, con gli occhi di chi vuol comprendere se la figlia sarebbe stata in grado di affrontare ostacoli di ogni sorta. Vedevo allora in essi lo sforzo di capire la mia capacità di essere all'altezza nel superare situazioni particolari o critiche. Mi sembrava che cercassero di comprendere se avessi raggiunto non tanto una completa maturità quanto una certa assennatezza. Era stato un periodo di tempo in cui mi sforzavo di essere diligente nello studio, giudiziosa nelle opinioni anche politiche, impegnata a intendere i problemi dell'umanità, saggia nelle decisioni. Quanto ero bambina!
Riccardo Piana
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