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Autore: Ronald Arkham
Morte verde
Soprannaturale
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Morte verde
La luna brillava nel cielo di quella notte di stelle morte.
Come un faro in mezzo all'oceano illuminava la strada boscosa che separava Varney dal suo covo. Ancora una manciata di minuti d'auto e sarebbe arrivato a casa, dove sarebbe potuto svenire a letto, con il ronzio della tv come ninna nanna.
Come era solito mentre guidava mangiava e sputava. Più che mangiare fagocitava. Non aveva mai imparato bene a masticare, non gli riusciva proprio, e quindi nel suo stomaco spesso si depositavano cibi quasi integri. Dopo neanche mezzo pacchetto di patatine la folta barba, nera come il petrolio, era costellata di briciole. Prese una manciata di patatine dal sacchetto e se la lanciò alla cieca in bocca senza spostare lo sguardo dal cielo. Una sola centrò il bersaglio mentre il resto si cosparse sul già sovraffollato tappetino della macchina. Nel sottobosco dell'auto si era sviluppato un micro
ecosistema dove frammenti di cibo erano stati i primi colonizzatori. Roteando leggermente il collo sputò verso il ciglio della strada mirando il cartello stradale. Si era però dimenticato di non aver abbassato il finestrino della macchina.

Distrattamente tamponò il vetro con la manica della felpa disegnando una spirale di saliva sul finestrino. La sua già instabile concentrazione era rapita dal cielo. C'era una macchia nel cielo. Il blu della notte era stato sporcato con una pennellata di un colore pallido. Un colore che sembrava proprio... verde.
Non capiva che cosa fosse, ma doveva assolutamente saperne di più.
Poteva essere una stella che si muoveva pennellando una scia verdastra dietro di sé.
Varney non voleva e non poteva smettere di fissare la cometa.
Troppo bella, troppo ipnotica. Un germoglio di ansia fiorì nel cervello di Varney. Non porterà nulla di buono.
Quando mai un corpo celeste è stato responsabile di qualcosa
di sano e produttivo?
Era un bello spettacolo ma con una vena minacciosa. La notte prima aveva sognato una gigantesca mano verde e pelosa che lo spiaccicava a terra come fosse una mosca ronzante da polverizzare.
Non riusciva a valutare se la macchia verde stava dirigendosi
verso la luna o verso la terra. Sembrava stesse decidendo su quale astro schiantarsi. Già si immaginava la cometa che si fiondava sulla sua casa mentre era in bagno a depositare l'uovo. Avrebbe tirato le cuoia senza neanche aver avuto il tempo di tirare lo sciacquone.
Forse avrebbe trafitto la luna sbriciolando polvere di stelle su tutto il pianeta. Forse...
Boom!
La macchina urtò una figura oscura in mezzo alla strada. Varney diede un calcio al pedale del freno e la macchina si spense accompagnata dallo strillare dei freni.

Rimase immobile, quasi disorientato. Sperduto come un bambino che fa cadere il suo cono gelato su un mazzo di ortiche. Fuori nulla si mosse. La boscaglia ai lati della strada era silenziosa e immobile.
Forse si era immaginato tutto. Forse gli stava venendo un ictus.
Prima o poi sarebbe dovuto succedere. Ultimamente alcuni componenti del lato destro della faccia non stavano funzionando a dovere. Ci mise l'equivalente del tempo per fare una doccia per
prendere il coraggio di scendere dall'auto. E se ne pentì subito.
Varney voleva urlare, ma dalla bocca aperta uscirono solo
perle di saliva. I suoi occhi pulsavano come volessero fuggire dal cranio. Qualcosa di morto giaceva davanti al cofano. Tutto il suo faccione stava tremando, esibendo una notevole mobilità facciale che sfatò così la teoria dell'ictus in arrivo. Qualche briciola piovve sulla strada talmente la barba vibrava. La sua breve doccia mentale non l'aveva preparato abbastanza a questo trauma.
Anubi era spalmato sull'asfalto più morto di una sogliola dopo una settimana nel microonde. Ansie violente e feroci frustarono l'anima già logorata di Varney.
Era finito.
Spacciato.
Rovinato.
La sua vita si era appena sgretolata sotto i suoi occhi.
Come diavolo sarebbe uscito da questa storia?
Forse poteva scappare, ma dove? Taosburg? Ozwich? Nella confraternita delle vacche? Ma per quanto tempo? Che senso avrebbe avuto?
Poteva fiondarsi con la macchina contro la propria casa e
mettere a tacere le ansie e i problemi. Lo stramaledettissimo cane della signora Crouch era venerato come una celebrità da quelle parti.
Non tanto perché fosse ben voluto, ma per timore della furia che subiva chi non lo adorava da parte della sua padrona. La vecchiaccia l'avrebbe ucciso, magari prima anche torturato con un coltello rovente nello scroto. Era una pazza isterica che amava alla follia il suo cane.
Probabilmente condividevano anche il letto. La gente pensava che avesse ucciso il marito e sfamato Anubi con le sue ossa. Il marito non era più stato avvistato da anni quindi non avrebbe potuto nè confermare nè smentire. Il sangue di Anubi aveva intriso parte del paraurti della macchina formando una chiazza scura che alla luce della luna pareva un enorme neo peloso. Per qualche secondo Varney si sentì fiero della sua auto per aver retto bene lo scontro.
Bolide 1 - Stupido sacco di pulci 0
Poi il panico tornò padrone e le ansie iniziarono a danzare nella sua testa come ballerine che coi tacchi foravano le teneri membra del suo cervello. Varney voleva solo dormire. Addormentarsi sull'asfalto da parte alla carcassa e sperare che al suo risveglio tutto sarebbe sparito.
Come una pittoresca allucinazione da funghi avariati. All'improvviso un lampo cerebrale svegliò Varney.
Un'idea.
La sua mente riuscì a produrre l'unica soluzione quasi indolore. Si mise il cadavere sulle spalle e si inoltrò nel bosco munito solo di torcia e disperazione. Nel cielo non c'era neanche lo sputo di una stella.
La cometa era svanita nel nulla. Sembrava non essere mai esistita.
La luna aiutò Varney ad orientarsi tra la boscaglia. La carcassa puzzava di morte e di pelo bagnato. Condita con il sangue la peluria dell'animale ricordava le alghe che fioriscono sugli scogli. Varney si sentiva osservato con disprezzo dalla marea di alberi che stava attraversando. Ogni decina di passi doveva sputare sulle ombre per
assicurarsi che non si nascondesse nessuno nelle sue vicinanze.
Più si avvicinava alla sua destinazione più ogni albero assomigliava alla Signora Crouch. Con quella faccia talmente raggrinzita che poteva essere scambiata per corteccia.
Mezz'ora di sputi più tardi trovò quello che stava cercando. La timida luce della torcia aveva incrociato uno dei sette monoliti che delimitava la sciagurata zona del silenzio.
Un posto morto, triste e nocivo. Sette pietre ognuna della dimensione di un gorilla disposte a cerchio separavano quella terra meschina dal resto del mondo. Quel luogo da sempre evitato e disprezzato. Secoli prima i morti di peste venivano seppelliti lì sotto e da allora l'erba non era più ricresciuta. Quello sputo di bosco generava solo morte e distruzione.
L'uomo in panico sospirò quasi frignando ed entrò nell'area
senza guardarsi indietro. Un fulmine squarciò il cielo illuminando per un istante il loco maledetto e dimenticato. La torcia morì, ma la luna schiariva le tenebre quel tanto che bastava per non compromettere l'operazione. Varney era sempre più convinto che la sua fosse una pessima idea, ma l'universo è pieno di pessime idee e all'umanità piace molto sbagliare. Persino un bombardamento di radiazioni sarebbe stato più clemente della signora Crouch.
La Crouch non dimentica.
La Crouch non perdona.
La Crouch non è umana.
Sin da piccolo aveva sempre trovato inquietanti le persone anziane. Inoltre all'asilo una vecchia maestra lo aveva traumatizzato chiudendolo in bagno al buio per mezz'ora come punizione per aver scoreggiato in aula. Ma la Crouch era il peggio. Faccia di corteccia aveva uno dei maggiori livelli di concentrazione di cattiveria per centimetro quadrato della storia. Era l'equivalente umano del sapore di un pompelmo marcito e colonizzato da larve di scorpione.
Doveva salvarsi dalla sua ira.
Dalla sua furia.
Dalla sua faccia cartavetrata.
Nessuno doveva sapere.
Nessuno l'avrebbe scoperto.
Lanciò il cane al centro del terreno morto. Prima di iniziare il lavoro era bene svuotare la vescica. Si impegnò a mirare e centrare entrambi i bulbi oculari del cane. Una bella benedizione fatta con l'urina. Quella piccola soddisfazione durò ben poco perché le ansie non dormivano mai e continuavano sempre a mordere. Con un portamento bovino Varney iniziò a scavare. Il tuono che esplose fu più rumoroso di un edificio che salta in aria. Nell'aria si respirava umidità e pestilenza.
La pioggia stava per arrivare così come la forte emicrania provocata dalla terra infetta. Sbatter d'ali echeggiava nel bosco circostante.
Puzza di muffa e peccato intasarono le narici del logorato uomo.
Aveva piovuto per tutto il giorno quindi il terreno era abbastanza soffice e malleabile. Usando la torcia, ormai da buttare, ci avrebbe impiegato ore a scavare un buco abbastanza grande per nasconderci il suo
peccato.
Ma le ansie non gli avrebbero permesso di fermarsi.
Doveva scavare.
Doveva occultare il tutto.
Oscure creature alate si posarono sui megaliti e fissarono il povero umano. Dopo un altro tuono la pioggia fece il suo arrivo nel bosco.
Varney non poteva fermarsi anche se una porzione del cranio si stava infiammando come se fosse arrosto. La torcia gli si frantumò in mano procurandogli un taglio profondo sul palmo della mano. Varney non si accorse nemmeno della ferita e scaraventò i pezzi contro una delle antiche pietre che proteggeva il resto del mondo da quel luogo di tenebra.
Sulla pietra un'incisione irregolare recitava:
...in that sleep what dreams may come...
Cominciò a scavare con le mani. Sputò ma lo sputo non raggiunse mai il terreno. Parte della saliva gli colò sui vestiti mentre parte rimase sulla
barba a far compagnia alle briciole di patatine. La ferita riversava sangue che ammorbidiva ulteriormente il terreno. Lo scavo non poteva fermarsi.
Un pipistrello svolazzò a meno di un metro dalla testa dell'uomo come per verificare che stesse facendo un buon lavoro. Lui non poteva distrarsi. Ossessivamente continuava a strappare porzioni di terreno
dalla fossa con le mani dolenti. Ansie e mal di testa lo pilotavano come una marionetta di cartapesta.
Un altro pipistrello gli volò talmente vicino che avrebbe potuto sussurrargli nell'orecchio. Lui non ci badò. Ora il sangue spillava anche dalle unghie spezzate. Un velo di nebbia avvolse il cuore del bosco.
Si sarebbe messo anche a scavare con i denti se fosse stato
necessario.
Avrebbe anche...
La terra tremò sotto i piedi di Varney che sprofondò e venne
inghiottito dall'oscurità.

Ronald Arkham

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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