La bottiglia di bourbon era sul tavolo, vicino alle sigarette e all'accendino, e il bicchiere pure. La televisione, altra concessione moderna in quel concentrato di antichità, era sintonizzata su un programma musicale: note new romantic, a volume basso, giusto per creare un sottofondo che potesse predisporre all'ispirazione. Richard accese il portatile, si posizionò sull'icona di word e aprì una pagina bianca, pronta per essere riempita. Le idee, i pensieri, i ricordi, nella sua mente, si ammassavano in maniera confusa, come fossero tanti nodi di un filo ingarbugliato; bisognava individuare il punto esatto da cui cominciare, per riuscire a districare la matassa. Ma dove poteva essere l'inizio? Considerava la sua nascita come uno dei tanti esordi della sua vita; forse, non era stato nemmeno quello più significativo, ma, di sicuro, quello che aveva maledetto più volte. Poi, d'improvviso, quasi come fossero munite di vita propria, le sue dita cominciarono a muoversi velocemente sulla tastiera e il cursore a vomitare parole nere che, l'una dopo l'altra, andavano a colmare ogni spazio bianco.
“Quando ancora mi chiamavo Richard Harvey, ero un ragazzo semplice, nato e cresciuto in una modesta casa in periferia di Blackburn, città della regione del Lancashire. Mia madre gestiva un piccolo salone di parrucchiera. Vi si era recata ogni santissimo giorno degli ultimi trent'anni, eccetto tre periodi di dieci giorni ciascuno, necessari per mettere al mondo i suoi figli e per riprendersi dal parto, quel tanto che serviva. Dalla sua attività non ricavò molto, dal punto di vista economico, ma guadagnò la fiducia e l'amicizia di tante donne che aiutava a essere più presentabili, con le sue acconciature, e più rilassate, con la sua capacità di ascoltare le loro confidenze. Non per ultimo, si procurò pure una bella rinite cronica e una dermatite allergica da contatto che, chissà per quale arcano mistero, non furono mai riconosciute come malattie professionali. Mio padre faceva il meccanico in una officina della città. Usciva alle sette di tutte le mattine e rientrava alle sette di tutte le sere, con la sua tuta sporca di grasso e le mani incallite e macchiate che nemmeno la più potente pasta abrasiva riusciva a pulire. Salutava noi ragazzi con un batti cinque e io, ogni volta che ritiravo la mano, me la strusciavo sui pantaloni, per timore che rimanesse macchiata come la sua. Mio fratello Harry, che aveva dieci anni più di me, era l'orgoglio della famiglia. Tranquillo e volenteroso, riusciva a conciliare i suoi studi universitari con lavoretti che trovava qua e là per non gravare troppo sul bilancio familiare. Era l'unico, di noi tre, che rassettava la casa e che alcune volte si cimentava tra i fornelli, - per non lasciare affaticare troppo la mamma - diceva. Io mi chiedevo spesso se non disponesse di un po' troppa esuberanza del suo lato femminile. Quando si laureò in lettere, i miei diedero fondo a tutti i loro risparmi per organizzare una festa degna di un re, all'atto del suo incoronamento. Per l'occasione, si fecero confezionare degli abiti su misura, costati quanto lo stipendio di un intero semestre di duro lavoro. C'è poco da dire che l'abito non fa il monaco! Per la prima volta, mia madre mi apparve come una donna ancora piacente e di discreto fascino e mio padre sembrava un uomo distinto e persino raffinato, se si riusciva a distogliere l'attenzione dalle sue mani. Paul era il secondogenito; aveva tre anni meno di Harry e sette più di me. Da ragazzo pareva essere una promessa del calcio: era provvisto di ottima resistenza e di grande abilità di tiro che, a detta del mister, lo avrebbero portato a risultati eccellenti come centrocampista. Nonostante i dodici lunghi anni che dedicò a quel gioco, con tutto l'entusiasmo e l'impegno di cui era capace, l'unico successo ottenuto fu soltanto qualche passaggio di categoria, restando, tuttavia, nell'area dilettantistica. Ciò, a livello economico, gli poteva garantire solamente un rimborso spese, ma nulla in termini di guadagno. Quando si rese conto che i suoi sogni di gloria sarebbero rimasti dei sogni in eterno, fu preso da un grande sconforto perché si ritrovò a dovere organizzare il suo futuro, senza alcuna preparazione e pianificazione. Gli affannosi impegni sportivi lo avevano assorbito a tal punto da rinunciare agli studi e a qualsiasi approntamento professionale e così si trovò, all'età di ventidue anni, a non sapere cosa fare della sua vita. Dopo un breve periodo di crisi emotiva, gli arrivò l'occasione di un posto di lavoro come magazziniere in un centro commerciale e lì vi rimase, dopo avere appeso le scarpe da calcio al chiodo. Io assistevo a tutti gli eventi della mia famiglia, quasi come fossi uno spettatore, senza troppi patemi né empatie. Non ho proprio idea da chi possa aver preso il mio carattere: non certo da mia madre, vulnerabile, sensibile e altamente responsabilizzata da sembrare farsi carico di tutti i problemi dell'umanità, ma nemmeno da mio padre, amabile, paziente e con un alto senso del dovere e della famiglia. Se non fossi stato convinto della correttezza morale della donna che mi ha messo al mondo, avrei potuto pensare di essere il frutto di una sua fugace relazione con un balordo di passaggio o, chissà, con un artista di strada, che ha fatto della sua passione una scelta di vita, barattandola con le convenzioni sociali e la stabilità dei legami. Non avevo mai provato odio né potevo nemmeno affermare di aver mai amato qualcuno: avevo nutrito affetto, compassione e simpatia, non quella sensazione d'attaccamento che faccia temere di perdere l'altra persona o di provare tanto male per una sua eventuale perdita. Me ne stavo chiuso nel mio guscio di ovattata tranquillità, senza essere intaccato da timori e traumi, ma neanche da entusiasmi e particolari stimoli, eccezione fatta per la mia musica. Da dove sia sorto questo mio estro, una volta scartata l'ipotesi della discendenza dal musicista di strada, non l'ho mai capito. Vero è che avevo imparato prima a cantare che a parlare e che la musica era sempre stata il mio modo migliore di esprimermi. Nella mia famiglia, per ignoranza o per superficialità, non c'è mai stata la sensibilità di assecondare le naturali aspirazioni dei figli, per cui la mia predisposizione canora era stata coltivata unicamente nel mio ambito personale e mai con lezioni e approfondimenti accademici, che mi avrebbero reso più preparato, anche se non di certo più appassionato. In compenso, i miei genitori avevano un'alta considerazione della formazione scolastica, non tanto per garantire alla prole un alto grado di istruzione che l'avrebbe culturalmente elevata, quanto per assicurarle un titolo che l'avrebbe potuta collocare in una posizione di prestigio. Niente di male, ma ciò non corrispondeva alle mie aspettative. Per evitare lunghe e asfissianti discussioni, li assecondai fino al raggiungimento del “General Certificate of Education”, ma, una volta ottenuto il diploma, lo chiusi in un cassetto e lì lo lasciai a profumarsi con i deodoranti di lavanda che mia madre metteva dappertutto. L'allora diciannovenne Richard Harvey voleva soltanto fare musica, vivere per la musica e con la musica! Già da un paio di anni, facevo parte di un complesso che si esercitava, con frequenza quasi quotidiana, nel magazzino di uno dei componenti. La band rock degli “Smoking Barrels” era composta dal sottoscritto, cantante e all'occorrenza paroliere; da Sean, batterista; da Stephan, bassista; e da George, chitarra elettrica, a cui si aggregava spesso Bryan, con la funzione di supporto morale, spettatore, consigliere e conciliatore, durante i frequenti dissidi. Eravamo tutti coetanei e compaesani che si conoscevano sin da bambini, uniti dalla stessa grande passione, anche se diversi per origini e caratteri. Bryan, suo malgrado, si era dovuto accontentare di una posizione esterna, in quanto totalmente sprovvisto di orecchio musicale, fermo restando che la sua famiglia avrebbe gradito una sua eventuale aggregazione al complesso quanto un potente calcio assestato sugli stinchi. Byron era un antico casato che si tramandava un'attività editoriale, diventata sempre più solida nel corso di ogni passaggio generazionale. A memoria d'uomo, non c'era stato alcun componente della discendenza che non si fosse occupato dell'attività; andava da sé che il percorso del mio amico Bryan, ultimo rampollo della dinastia, avrebbe dovuto seguire delle rotaie ben definite. Un eventuale deragliamento, sicuramente, avrebbe comportato la sua esclusione dall'asse ereditario, che era alquanto cospicuo. L'unico di noi che aveva una buona preparazione musicale era George che, per diverso tempo, aveva preso lezioni private da un valido insegnante. Grazie a lui, con il suo strumento era in grado di eseguire degli eccezionali virtuosismi e aveva anche acquisito una discreta capacità di comporre musica. Gli altri due erano autodidatti e andavano a orecchio, come facevo io. Tutto sommato, ce la cavavamo piuttosto bene. I repertori di Elvis Presley e di Carl Perkins per noi non avevano segreti: erano diventati il nostro pane e, ogni tanto, fra le loro canzoni, inframmezzavamo qualche pezzo di nostra composizione. Dopo interi mesi di prove, nel nostro magazzino freddo e insonorizzato in maniera del tutto artigianale, decidemmo che era arrivato il momento di esibirci in pubblico e affrontare lo scoglio delle critiche. Con il valido aiuto e le conoscenze di Bryan, riuscimmo ad organizzare alcune serate in locali del nostro paese e, più avanti, anche nella città di Blackburn. Il guadagno era decisamente scarso, giusto per recuperare le spese del trasporto e tenere in tasca l'equivalente di un paio di pacchetti di sigarette, ma ciò che ricavavamo, in termini di soddisfazione e di autostima, compensava la scarsa redditività. Nel frattempo, ci eravamo diplomati tutti e le rispettive famiglie cominciavano a farci pressione perché decidessimo cosa fare del nostro futuro. Nessuna di loro prendeva sul serio il nostro impegno musicale né avrebbe scommesso un penny sulla sua eventuale crescita in qualità di professione. In compenso, tutte sarebbero state disposte ad affrontare il pesante onere economico di farci continuare gli studi e consentirci di arrivare al tanto da loro agognato titolo di laurea. Tra di noi, però, soltanto George aveva una mezza intenzione di ottenerla, almeno finché non arrivò la mia pazza, sconsiderata e imprevista proposta. - Ragazzi, per quel che mi riguarda, non ho nessuna intenzione di passare la mia vita a fare un lavoro che mortifichi il mio spirito. Ma neppure mi immagino a sgolarmi, tutte le sere, in localini fumosi di secondo ordine, mentre la gente mangia, beve e fa di tutto, tranne che prestare attenzione a me. Io voglio fare musica per un pubblico che adori ascoltarmi, che si emozioni, che mi segua con le parole e che batta il tempo con le mani. E voglio che paghi soltanto per venire ai miei concerti, non perché la mia esibizione sia già compresa nel prezzo della cena o del drink! Credo che i tempi siano maturi per seguire la mia strada e mi piacerebbe molto se sarete disponibili a percorrerla con me”. Dalla sorpresa, a Sean caddero le bacchette dalle mani e Stephan sgranò talmente gli occhi da farmi credere, per un attimo, che fosse stato colto da un malore. George si avvicinò a me, mi diede una pacca sulla spalla e disse: - Qualunque cosa tu farai, la farò anch'io. Immagino che tu ci stia pensando già da un po' di tempo e ti sia fatto un minimo di programma. Basta solo che mi renda partecipe - .
Ornella Nalon
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