La principessa si guardava intorno, era tutto deserto. Soltanto un imponente castello si ergeva maestoso davanti ai suoi occhi. - Il mio principe azzurro dovrà trovarsi lì per forza! - esclamò fiduciosa. E ricominciò lentamente a camminare. Superando un massiccio portone che permetteva di accedere a un enorme atrio splendente, iniziò a percorrere la grande scalinata che si trovava all'angolo della sala, sollevando leggermente con le mani il suo lungo ed elegante vestito rosa, per evitare di inciampare. Era emozionata, perché sapeva che il momento tanto atteso stava per arrivare, il suo sogno d'amore si sarebbe potuto finalmente realizzare. Arrivata in cima, le pareti erano piene di quadri raffiguranti re e regine del passato, grandi e lucide sculture affiancavano ogni angolo, insieme a costosi vasi che ospitavano rarissime piante. Poi, d'un tratto, lo vide! Lui, bellissimo... la aspettava in piedi al centro della terrazza che dava sul giardino; senza esitare iniziò a corrergli incontro e... - Gemma! Sbrigati, è pronto in tavola. - L'urlo di sua madre interruppe proprio sul più bello la storia che stava recitando con la sua unica Barbie e un bambolotto improvvisato che fungeva da Ken. E la magia svanì in un secondo. Una testolina di riccioli biondi emerse dalla montagna di cuscini e lenzuola che simulavano il castello del principe. - Arrivo, mamma - borbottò amareggiata. Magari avrebbe potuto riprendere a giocare dopo pranzo. Gemma Versaci aveva solo dieci anni, ma la sua fervida fantasia le permetteva di spaziare continuamente dal mondo più incantato allo scenario più cupo, con la sola forza della sua mente e dei sogni che le riempivano le giocose giornate. Non aveva molti giocattoli; sua madre non amava riempirla di doni, forse più per una sua convinzione psicologica che per mancanza di soldi. Probabilmente non voleva viziarla, o magari semplicemente non riteneva che ciò rappresentasse uno dei suoi bisogni primari. E infatti, Gemma si accontentava davvero di poco, riusciva a divertirsi anche soltanto inventando situazioni irreali e favole correlate a quello che durante la giornata le accadeva. Era però legatissima a uno solo fra gli oggetti materiali che possedeva: un ormai vecchissimo cagnolino di peluche, che aveva chiamato Toby, e che, nonostante avesse perso del tutto la morbidezza originaria e persino il nasino, significava tantissimo per lei. Forse perché le ricordava l'amore di suo padre, che glielo aveva portato per regalo una sera, tornando da un viaggio di lavoro. Quel padre che ormai da un paio di anni vedeva solo una o due volte l'anno, visto che si era trasferito in America, e sempre per troppo poco tempo. Forse perché dal giorno in cui lui era andato via di casa il ruolo di quel piccolo pezzo di stoffa si era elevato fino al punto da rappresentare il suo più grande amico. Fatto sta che nessuno poteva osare toccarlo, anche perché Gemma lo portava sempre con sé; dormiva con lui, stringendolo sotto le coperte, e lo nascondeva in fondo allo zainetto di scuola la mattina, stando attenta che i libri non lo schiacciassero. A volte gli parlava anche, raccontandogli i pensieri più reconditi e i segreti che custodiva nel profondo del cuore. Non che non avesse amici, anzi era una bambina molto dolce e socievole, benché, soprattutto quando non aveva molta confidenza con qualcuno, fosse costretta a lottare continuamente con la timidezza che rischiava di eclissarla. Il problema più grande nelle relazioni con gli altri, per lei, era sicuramente confessare il piccolo mondo interiore che si era costruita, probabilmente per l'irrazionale paura di non essere capita, se mai avesse raccontato a qualcuno una delle storie partorite dalla sua fantasia. Le era capitato, però, di giocare con qualche compagnetta di scuola, nelle occasioni in cui si incontravano nel pomeriggio o durante le feste di compleanno, e allora si era potuta sbizzarrire nell'inventare situazioni da “interpretare” insieme, proponendo però ogni più piccola idea sempre in punta di piedi, scrutando le reazioni altrui, nel terrore che non venissero accettate con piacere. Finora comunque non era mai successo, e al contrario le ragazze sembravano apprezzare il suo spirito d'iniziativa, consentendole così di sviluppare un po' più di fiducia in se stessa e nelle sue potenzialità, che, se tirate fuori dall'angusto angolino in cui le aveva da sempre confinate, potevano forse portare a qualcosa di buono ogni tanto. La scuola non le dispiaceva, era diligente nello svolgere i compiti a casa, ma più che altro cercava di finire velocemente in modo da poter poi dedicare tutto il resto del pomeriggio a giocare o a guardare i suoi programmi preferiti in tv. Avere delle cose, spesso poco divertenti, da dover portare necessariamente a termine, se da un lato era fastidioso e seccante, dall'altro serviva a rendere più piacevoli i momenti di svago, dopo che gli incombenti potevano essere finalmente accantonati. Forse una vita senza nulla da fare, solo di gioco, sarebbe potuta diventare monotona. Ecco perché Gemma amava la scuola: in fondo era grazie alla sua esistenza se tutto il resto diventava più bello. Sua madre non le aveva mai detto quanto importante fosse studiare, ma il suo essere meticolosa nell'accompagnarla o nel trovarle dei passaggi quando aveva da fare, nel chiederle se avesse studiato, nel controllarle il diario quotidianamente, corrispondeva nei fatti a quello che lei sapeva già. Inoltre, ricordava ancora nitidamente le parole che le aveva detto suo padre il suo primo giorno di scuola, quando, emozionato, l'aveva accompagnata fino al portone: - Buona fortuna, bambina mia. Ricordati sempre che la vita è un esame continuo. - Questo non poteva significare altro se non che bisognava farsi trovare preparati, quando il fatidico giorno dell'esame sarebbe arrivato. D'altronde era anche stimolante imparare qualcosa di nuovo, la curiosità rappresentava un punto a suo favore, soprattutto quando si trattava di studiare scienze o arte e immagine, anche se la materia che più amava era senza dubbio l'italiano, soprattutto perché il mercoledì era il giorno del tema e in quelle due ore la sua creatività e immaginazione potevano essere sfruttate al massimo, in particolare se tra le tracce possibili vi erano quelle di fantasia. Quante storie aveva inventato... e la maestra la gratificava spesso con ottimi voti, il che era anche meglio, visto che in realtà per lei era un divertimento tradurre in un testo scritto tutto ciò che le passava per la mente. Un po' meno semplice era assimilare la matematica o l'inglese, materie più pratiche e che necessitavano di grande concentrazione, ma ce la metteva lo stesso tutta per capirle, perché prendere dei brutti voti era quasi una sconfitta con se stessa e, benché non le venisse affatto naturale, non voleva perdere senza nemmeno provarci. - Odio le verdure... odio tutto ciò che è verde - si lamentò non appena vide il piatto fumante di spinaci bolliti che sua madre le aveva appena messo sotto il naso. - Se non mangi tutto niente tv fino a domani - ribatté lei all'istante. Si sforzò anche solo per mandar giù il primo boccone. La mamma non sopportava che lasciasse il cibo nel piatto, Gemma sapeva bene che se avesse continuato a protestare avrebbe rischiato di suscitare la sua ira. E allora non se la sarebbe cavata di certo solamente con un giorno senza televisione. Per riuscire a mangiare usò uno dei suoi soliti stratagemmi: finse di essere una povera fanciulla, prigioniera di una strega cattiva che l'aveva rinchiusa in una torre senza permetterle mai di uscire e di vedere il mondo; gli spinaci le avrebbero dato la forza per reagire e ribellarsi e la giusta carica per progettare la sua fuga. Non doveva arrendersi. Improvvisamente, dopo questa trovata, le verdure avevano già un altro sapore. Aiutò sua madre, Rosalba, a sparecchiare, più per dovere che perché desiderava farlo. Ormai tra loro vi era una sorta di abitualità, dei rituali che non necessitavano più di parole; Gemma sapeva cosa lei pretendeva facesse, ma anche cosa gradiva e cosa odiava, e cercava di accontentarla sempre, perché vederla arrabbiata era qualcosa di devastante per lei. L'aveva vista spesso in passato cambiare colore, urlare furiosamente, cercare di picchiarla, a volte anche in viso: una bruciante umiliazione ben visibile lì, dritta nel volto. E questo sperava non sarebbe accaduto mai più. La rabbia che aveva provato nei suoi confronti era però svanita del tutto quando entrambe avevano dovuto subire il duro periodo della separazione, quando l'uomo della loro vita le aveva lasciate. Gemma allora doveva ancora compiere otto anni, ma certe scene sarebbero rimaste sempre vive nella sua memoria, soprattutto le lacrime di sua madre, dopo ogni litigio, e le parole orrende che i suoi genitori si urlavano tra loro. Subì tutto questo per mesi, e quando lui, alla fine, andò via, fu quasi una liberazione, un ritorno alla calma e al silenzio che prima per troppo tempo erano venuti a mancare in quella casa. Ma si aprì un vuoto dentro di lei, dovuto all'improvviso scomparire di una figura importante, fondamentale, che niente e nessuno mai avrebbe potuto rimpiazzare, e che quegli incontri padre-figlia, sempre meno frequenti e meno confidenziali, man mano che il tempo scoloriva il loro legame, non potevano di certo colmare. - Ricordati che non è colpa tua, amore mio - le aveva detto lui una volta. - Io ti vorrò sempre bene e sarai sempre con me, qualsiasi cosa accada. - Parole dette col cuore, sicuramente, ma sbiadite dall'assenza costante che, ormai, era tutto ciò che le restava. Quel distacco, inoltre, portò a un'altra, forse ancor più inaspettata, conseguenza: determinò un profondo cambiamento nel rapporto con sua madre. Rimaste da sole, invece di unirsi e di affrontare insieme la mutata situazione familiare, come ragionevolmente si poteva prevedere, le due non fecero che allontanarsi, chiudersi in loro stesse e nei propri, inconfessabili, silenzi. La loro relazione divenne, d'improvviso, sempre più simile a una pacifica convivenza; certo, si aiutavano a vicenda nelle faccende quotidiane, cercavano di capire l'una le esigenze dell'altra, ma parlavano poco, non si rivelavano i propri sogni e le proprie aspirazioni, non si scaldavano reciprocamente il cuore nei giorni in cui faceva più freddo, e non solo all'esterno. Il bisogno che una figlia ha nei confronti di sua madre, tuttavia, non può mai venir meno del tutto, per questo spesso Gemma tentava timidamente dei riavvicinamenti. Delle volte le chiedeva di aiutarla con i compiti al solo e unico fine di starle un po' vicina e di passare del tempo con lei, anche se, subito dopo averlo fatto, leggere nei suoi occhi la malcelata poca voglia che a ogni sua richiesta inevitabilmente conseguiva, faceva puntualmente pentire la piccola, oltre a farle ripromettere (senza che poi ottemperasse davvero) che non le avrebbe più chiesto niente. Quello che davvero faceva impazzire Gemma, comunque, non erano tanto le eventuali grida e le temporanee furiose quanto futili arrabbiature della madre, ma, piuttosto, l'indifferenza che da qualche tempo aveva sviluppato, oltre che rispetto alla sua unica figlia, anche nei riguardi del mondo nel suo complesso. Ciò che accadeva intorno a lei sembrava a volte non scalfirla per nulla, compiva automaticamente dei gesti quasi meccanici, quando usciva si truccava con gli occhi spenti, senza guardarsi davvero allo specchio, oppure restava ore di sera davanti alla tv senza mostrare il minimo segno di apprezzamento o di sdegno, magari pensando ad altro, persa in una qualche dimensione parallela. Chissà se pensava ancora a suo marito... chissà se era così fredda con sua figlia perché, come le aveva detto mille volte in passato, lei e suo padre erano due gocce d'acqua. Ma, di questo, che colpa poteva mai avere una bambina? Forse era una donna troppo sola, una donna che sentiva di aver fallito totalmente nella sua vita, senza accorgersi che, nonostante tutto, di cose belle il mondo ne era ancora pieno, bastava solo guardarsi un po' attorno, o magari, al contrario, riflettere su se stessi, capirsi e perdonarsi per i propri errori, accettarsi per quello che si è (o per quello che la vita ha portato a essere) e pensare al domani, perché, oggi come ieri, non bisogna mai dire mai. - Mamma, oggi non devi lavorare, vero? Vuoi guardare con me Sailor Moon? Sai, è il mio cartone preferito... - incalzò Gemma, facendosi coraggio. Era fiera di essere riuscita a finire le sue verdure, non meritava forse una seppur lieve ricompensa? Le sarebbe bastato anche solo quel breve periodo accoccolata sul divano con lei per sentire di aver fatto finalmente qualcosa per ricucire il loro legame. - No, lo sai che quando non lavoro ho sempre mille cose da fare in casa - replicò Rosalba, visibilmente irritata. - Anzi, a proposito, invece di startene davanti alla televisione tutto il giorno, vieni ad aiutarmi a pulire - continuò seccamente. Per tutta risposta, Gemma abbassò i profondi occhioni azzurri, senza trovare le parole per replicare. Ennesimo tentativo andato a vuoto, ennesima delusione.
Elena Inuso
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