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Autore: Rossana Cilli
Oltre le quinte
Narrativa
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Oltre le quinte
Concerto in tempore belli.

Me lo ricordo come fosse ieri.
Quei pomeriggi d'autunno col sole ormai troppo debole, il vento sibilante, l'umido nell'aria. Quel frusciare continuo di fronde, il colletto del paltò che si solleva, la mano rapida a trattenere il cappello, i pantaloni che s'incollano alle gambe, le raffiche che tolgono il fiato.
Ma ovunque intorno una polifonia di rossi, marroni, gialli che dilaga sulle case illuminate dai caldi toni dell'arancio e sulle foglie color malva sparse ovunque in terra, scomposte e ricomposte da improvvise folate fredde e bagnate.
Sì, me lo ricordo come fosse ieri, l'ultimo di quei pomeriggi spensierati, mentre mi recavo a casa di Frau Lemper col mio fascio di spartiti sotto il braccio e percorrevo il viale delle querce, da casa mia alla sua, affondando nei mucchi di foglie secche e crepitanti, ogni tanto inseguendone con gli occhi qualcuna che si sollevava a mezz'aria vorticando. E dietro, sempre il buon cane dei Müller, uno spinone bianco ormai appannato dall'età, mio fedele compagno lungo tutto il percorso. L'aria sapeva di caminetti accesi e le giornate erano già così corte, una cosa che un po' mi rattristava, perché il sole sarebbe scivolato giù rapido spegnendo d'un colpo quei colori da pittura fiamminga che mi appagavano la vista e m'intenerivano il cuore.
Dietro la casa della signora Lemper c'era la campagna, la sua era l'ultima abitazione della città. Cittadina.
In autunno, la stagione che più amavo, cercavo di arrivare sempre in anticipo per avere il tempo di ammirarne le calde gradazioni; giravo dietro l'edificio e mi riempivo il naso dei suoi odori e gli occhi dei suoi colori prima di suonare alla porta bianca di casa Lemper - un bell'arco a tutto sesto posato su due colonne lisce lisce - e ritrovarmi avvolto nella penombra di quella dimora elegante, piena di pizzi, di ninnoli di fine porcellana disposti con cura e alte specchiere ossidate dal tempo che conferivano all'ambiente quell'aria inargentata da salone delle feste dismesso da anni.
Le luci sempre basse, tranne quella viva diretta sui fogli di musica aperti sul leggio del pianoforte, nero, lucido, che lei accarezzava con un gesto fugace e segreto sulla curva della coda passandoci accanto.
Anche quel pomeriggio girai dietro la casa. Ammiravo lo spettacolo della campagna affrescata dall'autunno, i profili delle colline ondulate sfumate in lontananza, gli incolti cespugli di fiori gialli, fitti fitti, esplosivi, che lambivano la casa e riempivano l'infinito a perdita d'occhio consolando dalla tristezza dei grigi metallici e umidi del cielo.
Tutto era come sempre, ma non io, qualcosa che avrei definito un'inquietudine sottile mi attraversava dentro come certi languori che sai che non è fame ma non puoi definirli, forse il magone dell'ultima volta.
Fissai la campagna, ne aspirai profondamente l'odore e le rivolsi un muto discorso come se essa potesse capirmi e rispondermi. La ringraziai per la felicità che mi aveva dato in tutti quegli anni e le dissi che partivo, ero grande ormai, gli studi proseguivano altrove, in città, ma certo non l'avrei mai dimenticata, e in estate sarei tornato. Fu allora che lei mi chiamò, però lo fece in un modo assurdo, mi mostrò qualcosa che non le doveva appartenere, e io andai a vedere cos'era. Mi ricordo di me mentre accelero il passo e infine comincio a correre; persino il vecchio cane dei Müller intuì che era una cosa grave, grave davvero, e alla fine fu più veloce lui di me. Corse in avanti precedendomi, annusò irrequieto tra i fiori gialli e azzurri che ondeggiavano in sincronia. Guaì senza forza, una specie di gemito dolente. Infine vidi anch'io che cos'era. La signora Lemper.
Era lei, proprio lei, stesa a faccia in giù in quella campagna che mi aveva sempre dato gioia e ora mi dava un senso di orrore assurdo che non potei sopportare.
Il dolore mi colpì talmente inaspettato che mi lasciò senza fiato a boccheggiare per alcuni momenti, restai a fissare quel corpo inerme, illuminato da una luce tanto cupa e inerte che mi pareva impossibile che fino a un attimo prima m'avesse dato quell'intima e profonda felicità. Scoprii così, a quindici anni, l'altra faccia della vita, la morte.
Anche il vento si placò per alcuni momenti, poi, lievi piccoli vortici si alzarono da terra sollevando i miei capelli e quelli della signora Lemper, e anche un poco il suo vestito, troppo leggero per quella stagione. Le lievi folate le concessero un soffio di vita che mi impressionò più del suo corpo inerte e immobile di qualche attimo prima.
Scappai via, lontano, verso la casa, suonai alla porta non pronto ad accettare quello che era accaduto. Lo rifiutavo e mi attaccai al campanello come un matto.
La porta restò chiusa, e io mi rassegnai all'evidenza.
La signora Lemper non sarebbe venuta ad aprire mai più.
Tornai da lei, la girai sul dorso con delicatezza e una certa fatica, era grossa e pesante; non me n'ero mai reso conto, anzi, la delicatezza dei suoi modi di dama un po' fuori del tempo mi avevano sempre distolto dal riflettere su quanto la pesantezza della sua figura, tutt'altro che snella, contrastasse con la lievità dei suoi modi e della sua carezzevole voce.
Mi feci forza, cercai di capire cosa le fosse accaduto, le pulii il volto sporco di terra e mi accorsi che respirava.
“Signora Lemper. Signora mi dica qualcosa, sono io, Kurt. Ma cosa le è successo?”. Lei tossì, aveva della terra in bocca, povera donna, fece una smorfia amara.
La sollevai, riuscii a metterla a sedere, però le dovetti sostenere io la schiena, era così debole e pallida.
Mi guardò serena con un'espressione buona e rassegnata e con un filo di voce mi disse, “Kurt, caro ragazzo, sapevo che saresti arrivato fin qui, ti vedevo sempre dalla finestra, mi dava una tale gioia sapere che ami questa campagna quanto me, con la stessa intensità e lo stesso amore...”.
(Davvero? Perché non me lo aveva mai detto?).
“Ero uscita per incontrarti e dirti addio qui. Ma poi... È il cuore, sai, poco fa, una fitta lacerante come un mi sopracuto, e ho capito che era finita”.
“Non parli per carità, chiamo subito un medico”. E lei: “No, no, lascia andare, a me non serve più un medico...”.
Me lo ricordo come fosse ieri.
Io che frugo nelle sue tasche, trovo la chiave della sua casa, corro dentro, attraverso l'atrio e esco da dietro nel cortiletto dove so di trovarvi la bicicletta che usa un ragazzo che le fa qualche volta delle commissioni e la rimette lì, la inforco e mi precipito a cercare aiuto presso il medico condotto che sta poco distante.
“Presto, correte, una cosa urgente. Urgentissima”.
Poi salgo con lei sull'ambulanza che qualcuno ha fatto venire, e colgo il suo ultimo respiro quando manca poco all'ospedale. Mi vedo ancora adesso mentre mi avvicino a lei che mi fa cenno di accostarmi, me lo sussurra in un orecchio. Ed ecco che divento il confidente e il custode del suo insospettabile segreto. Le stavo dicendo no, non io, davvero non posso, mentre lei con uno di quei suoi sorrisi lievi ed enigmatici mi dice sì che puoi e, esausta per lo sforzo di parlare, moriva.
Rimandai la partenza per la grande città.
La signora Lemper fu seppellita il giorno dopo nel nostro piccolo cimitero di paese, sotto una grande pietra chiara lucida, orientata verso la campagna. Sono ancora orgoglioso di averlo detto io di metterla lì, nel punto più elevato del cimitero, so che lei mi è grata perché i tramonti, da lassù, sono scene di melodrammi: un'arancia grossa e sanguigna che discende rapida d'estate, un disco appena dorato, quasi lunare, offuscato da nebbie mescolate ai grigi del cielo, in inverno, e poi la notte scura e pesante come un portone sprangato, ma popolata dalle voci di mille creature che ci vivono accanto senza che nessuno di noi vi presti mai la giusta attenzione; sono certo che la loro musica corale e senza fine tiene ancora compagnia alla signora Lemper.
Dopo la sua morte, mi rifugiai spesso nel freddo di quel luogo pacificante ad ascoltare anch'io le voci della notte. E a parlare con lei.
Il cielo divenne stranamente appropriato a un funerale, scese una pioggerella sottile, il paese, la gente, le case, i volti, tutto sembrava avvolto in un velo grigio.
Il tempo si era intestardito a mostrarsi inclemente anche nei giorni successivi. Il pallido sole d'autunno, in lutto, non uscì più.
La signora Lemper non aveva famiglia, neppure amici, aveva solo i suoi allievi, la sua musica e la sua casa. Di cui ora tenevo io le chiavi.
Il suo modo di ascoltare, così attento e diverso da quello di tutti gli altri che conoscevo, e soprattutto quella sua materna disposizione spirituale con la quale accoglieva noi allievi, creavano attorno a lei una sorta di clima ospitale che ci faceva sentire al sicuro in casa sua.

Rossana Cilli

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