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Autore: Stefania Cuccu
Gesturi ricordi d'infanzia
Narrativa
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Gesturi ricordi d'infanzia
La medicina de "S'ogu Pigau".

Negli anni ottanta, a Gesturi, come in tutta la Sardegna, alla medicina ufficiale si affiancava quella tradizionale. Avevamo il medico di famiglia e più di una “mexinera”, le donne cioè capaci di eliminare il malocchio. Il malocchio è una malattia molto particolare e difficile da spiegare da un punto di vista medico. Chi ne veniva colpito soffriva di mal di testa, febbre alta, spossatezza, diarrea, fino ad arrivare alla morte.
Si diceva che il malocchio nascesse da sentimenti d'invidia che una persona nutriva nei confronti di un'altra, ma poteva avvenire anche in maniera inconsapevole; bastava una lode o un gesto di ammirazione. Secondo la credenza popolare il malocchio poteva colpire gli esseri umani, gli animali, o ancora, far fallire un matrimonio o far seccare una pianta.
La persona predisposta a essere “pigada de ogu” era generalmente bella ed erano soprattutto i bambini a esserne colpiti. Per allontanare il pericolo si era soliti mettere un nastrino verde attorno al braccio del piccolo o nella culla. Ricordo che nel muro di cinta della casa accanto alla mia, cresceva una erba infestante, la parietaria, le cui foglie avevano un forte potere adesivo e da bambini, le nostre mamme, le appiccicavano ai nostri maglioni come fossero spille preziose.
Altro modo per evitare di “ghettai s'ogu” era quello di toccare la persona alla quale si faceva il complimento. Tanto era la credenza nel malocchio che le donne appena nasceva un figlio lo facevano toccare da tutti coloro che lo guardavano con la scusa di tenerlo in braccio. Il malocchio veniva curato con preghiere recitate in silenzio e gestualità ben precise in cui sacro e profano si incontravano.
La nostra “dottoressa” di fiducia era “Tzia Maria Mura”, una donna anziana, vedova e senza figli che viveva accanto alla mia casa. Era sempre molto seria e severa con noi bambini perché ci riteneva troppo chiassosi. Quando mi preparava la medicina, io osservavo il movimento delle sue labbra cercando di leggere le parole pronunciate in silenzio, ma non riuscivo a percepire nulla. Nello stesso istante, metteva il grano nel bicchiere; i chicchi si gonfiavano e se c'era il malocchio si sollevavano verticalmente presentando delle bollicine. In base alla posizione delle bolle, “Tzia Maria” capiva quale parte del corpo era stata colpita da malocchio e se lo iettatore fosse maschio o femmina. (Il termine “Tzia” in sardo viene utilizzato col significato di Zia o di Signora) Presupposto indispensabile perché la medicina funzionasse era credere in Dio e credere nel rito.
A noi bambini sembrava strano assistere a tutto questo e se qualche volta ci scappava un sorriso lei, con gli occhi sbarrati, ci ammoniva: -Zitti! Altrimenti la medicina non funziona! Al termine del rito si doveva bere l'acqua contenuta nel bicchiere mentre il grano andava buttato via in un luogo in cui nessuno di noi sarebbe mai passato. Mia madre faceva ricorso a “Tzia Maria” ogni volta che ci vedeva stanchi e svogliati. Era la prima tappa; il medico solo in seconda battuta. E anche se oggi parlo al passato, io non ho perso l'abitudine di chiedere la medicina del malocchio. La nostra “dottoressa” di fiducia si chiama, anche lei “Tzia Maria”; basta una telefonata e la medicina funziona anche a distanza! Ho sempre chiesto di conoscere il segreto di questa medicina alla persona esperta, ma lei mi dice che questa viene tramandata a una sola persona e che ha effetto solo dopo la morte de “sa mexinera”.
Devo confessare che ho anche comprato un libro sulle medicine della tradizione sarda e se volessi forse troverei su internet tutto ciò che riguarda questa pratica, ma ogni volta che apro il PC, lascio perdere perché mi sembra quasi una mancanza di rispetto. Se avrò la possibilità di conoscere il segreto di questa medicina ne sarò felice, altrimenti ringrazierò comunque il Signore di averci fatto questo dono.
Qualche anno fa, mio cugino si ammalò. Ebbe la febbre per tre mesi e fu ricoverato in ospedale. Fu sottoposto a tutte le analisi di rito; non risultava aver nessuna infezione o patologia che giustificasse la febbre. Presi dallo sconforto, non sapendo più cosa fare, ci ricordammo della medicina del malocchio e chiamammo una persona di fiducia. La sera stessa la febbre scomparve e noi uscimmo da un incubo durato tre lunghissimi mesi

Galdino Musa

Galdino Musa, conosciuto come “Tziu Galdinu”, è stato uno dei più grandi fisarmonicisti della storia della Sardegna e ha dato tanto alla comunità gesturese. Era nato a Sardara nel 1924, da Raimondo Musu e Pelagia Montisci, due bravissimi ballerini di ballo sardo che amavano partecipare alle gare delle rassegne folkloristiche della Sardegna, classificandosi spesso ai primi posti.
Così Galdino, sin da bambino, si trovava su quel palco che da grande lo avrebbe visto protagonista, ad osservare i balli e ad ascoltare il suono delle launeddas, custodendo i segreti di quella musica e quei ritmi che sarebbero diventati componente fondamentale della sua vita.
Anticamente infatti, il ballo sardo veniva accompagnato dalle launeddas, e solo più tardi fu seguito dalla fisarmonica. Galdino andò a scuola di fisarmonica sin dalla tenerà età, ma non ebbe bisogno di tanti anni di scuola; il suo talento e la sua passione lo portarono a diventare ben presto il miglior fisarmonicista presente in Sardegna tanto da essere richiesto in tutte le piazze e le case dove i giovani si riunivano per ballare. Fu così che all'età di diciotto anni, durante la visita di leva, divenne amico di alcuni gesturesi che lo invitarono a suonare in paese. In quella occasione il suo destino incontrò quello di Elena Usai, una ragazza di Gesturi con la quale si sposò ed ebbe quattro figli. Ci fu solo una breve parentesi, alla fine degli anni cinquanta, che portò lui e la sua Elena a vivere in Svizzera alla ricerca di un nuovo lavoro. Galdino lavorava come ruspista e nelle serate si dedicava alla musica con suo fratello Timoteo, anche lui emigrato in Svizzera; una parentesi durata poco, perché Galdino ed Elena, che all'epoca ebbero il primo figlio, Mauro, non riuscivano a stare lontani dalla loro amata isola.
Tornato in Sardegna, dove nacquero gli altri tre figli, introdusse l'uso della fisarmonica elettronica e si dedicò esclusivamente alla musica e alla crescita culturale del paese. Fu il primo a fondare la Pro loco, un'associazione locale nata con lo scopo di promuovere il territorio. Andò alla riscoperta dell'abito tradizionale sardo appartenente alla comunità Gesturese con il quale il gruppo folk iniziò a ballare e a sfilare nelle sagre, nelle processioni dell'isola e della penisola; tra queste, la più amata, era sicuramente la processione in onore di Sant'Efisio.
Il suo lavoro si estese anche oltre i confini gesturesi, insegnando il ballo sardo ai giovani dei paesi vicini. La sua fama era diventata talmente grande da ricevere continuamente proposte di partecipazione dai tanti comitati organizzatori delle feste popolari sarde che, in assenza di telefono, si presentavano a casa sua. E fuori dalla sua casa c'era la fila di persone che speravano di portare la sua musica nei loro paesi! Lui non sceglieva in base all'offerta economica, sceglieva in base all'ordine d'arrivo; il primo che si presentava era sicuro di poter contare sulla sua partecipazione, perché Galdino non tradiva mai la parola data.
La musica, l'aggregazione sociale, i valori della cultura sarda la fede e l'onestà erano la sua priorità, e non i soldi. Ormai non c'era festa, processione o sfilata che non fossero animate dalla musica della sua fisarmonica e fu proprio a causa della sua fisarmonica che, a sessant'anni, smise di lavorare. Il peso di quello strumento portato in spalla nelle processioni, così come l'umidità delle notti passate su un palco a suonare, gli procurarono l'artrosi e lo schiacciamento di una vertebra causandogli forti dolori muscolari e l'insensibilità agli arti, in particolare alle mani.
Da allora, lontano dalla sua musica e dalla sua passione, il suo fisico cominciò a indebolirsi ma la sua mente rimase lucida sino all'ultimo, tanto da chiamare accanto a sé tutta la sua famiglia quando si rese conto di essere arrivato alla fine dei suoi giorni. Morì la notte dell'undici febbraio del 2002, il giorno del suo compleanno, accompagnato dall'amore della sua famiglia e di tutta la comunità gesturese.
Io non ho mai imparato a ballare il ballo sardo, nonostante abbia provato varie volte, perché, come mi diceva “Tziu Galdinu” : -E' la tua timidezza che ti frega. Non serve a nulla vergognarsi, e poi di cosa ti devi vergognare? Solo chi fa del male si deve vergognare! Avevi ragione tu “Tziu Galdinu”, peccato averlo capito troppo tardi e oggi che ho superato la timidezza, sono qui a parlare di te...

Stefania Cuccu

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