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Autore: Danilo Francescano
La roccia del Malpasso
Romanzo Storico
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La roccia del Malpasso
5 Giugno – 10 Giugno 1812

La tempesta sembrò nascere all'improvviso.
L'orizzonte di poppa al Mä Passu, in direzione dell'Elba, fu occupato in pochi istanti da un cumulonembo immane. La sua base, che dilagò irrefrenabile sul confine tra cielo e mare, si impadronì del profilo aspro della Capraia e lo travolse. L'isola sparì dentro un lenzuolo blu lapislazzulo, inghiottita in un battito di ciglia dall'arroganza di quel mostro spietato.
L'azzurro splendente che da molti giorni era un annuncio dell'estate che giungeva si trasformò rapidamente in un'orrida bellezza d'oltretomba. La parte alta della nube si sfilacciò in forme allungate ed indefinibili, una densa e vischiosa nuvolaglia di falsi cirri che sembravano disegnare una terrificante incudine nel cielo.
Di tanto in tanto, Leudin e gli uomini del Mä Passu lanciavano un'occhiata alle loro spalle, sedotti e raccapricciati da quel leviatano che avanzava correndo per annientarli.
Il lato sopravento della nuvola cresceva con una rapidità che parve loro spaventosa. Era come se la mano stessa del dio del mare fosse uscita dalla schiuma delle onde, e si fosse stesa a radunare tutto il male. Come se i fulmini che disegnavano squarci abbaglianti nel cielo fossero attratti dai rebbi poderosi del suo tridente. Come se dall'otre di Eolo infine spalancata il vento si fosse precipitato a castigare qualche incauto umano di peccati non redenti. A straziare l'universo intero con il suo lugubre ululio.
Lo scirocco nervoso di poche ore prima si era trasformato in un libeccio mezzogiorno prepotente e cattivo. Leudin reggeva la barra del timone con forza disperata. La ferita appena rimarginata sulla spalla destra gli procurava di tanto in tanto fitte terribili, che si studiava di ignorare concentrandosi sul proprio compito. Toccava a lui portare il Mä Passu e i suoi uomini fuori da una situazione che presto sarebbe potuta divenire estremamente pericolosa.
Lui era il capitano, lui era il bacán. Non poteva delegare a nessuno le sue responsabilità, neanche a Gustin che gli stava vicino, osservando in silenzio le sue smorfie appena trattenute. Aveva compreso, Gustin.
Aveva compreso il dramma del suo amico, costretto ad opporsi con una spalla menomata alla forza scatenata degli elementi. E avrebbe voluto aiutarlo, ma non osava proporlo. Aveva troppo rispetto per la dignità del bacán per umiliarlo con una profferta di soccorso. Tuttavia se ne stava lì, pronto ad intervenire nel caso se ne fosse presentata la necessità. Che, pensava, purtroppo si sarebbe presentata.
“Riduciamo la velatura, Leudin?”, chiese con preoccupazione evidente.
“Troppo tardi, cazzo. Avremmo dovuto farlo una ventina di minuti fa. Colpa mia. Dovevo accorgermi prima di questo putiferio che si preparava”
La voce di Leudin era roca, per lo sforzo, ma anche per i sentimenti che si agitavano nell'animo di Lorenzo. Inquietudine, ansia, ma anche un forte senso di colpa. Sentiva di aver mancato al proprio compito di capitano. Era vero che la tempesta era sorta quasi dal niente, ma la sua esperienza di marinaio nato sul mare e sul mare vissuto avrebbe dovuto metterlo sull'avviso. La manovra difficile e pericolosa che avrebbero dovuto compiere ora era in un certo modo solo colpa sua.
Inutile recriminare: il suo sesto senso aveva fallito. Se fosse riuscito a portare il leudo fuori da quella situazione, avrebbe chiesto scusa ai suoi uomini. Con l'umiltà e con la lealtà che occorrevano, sul mare e nella vita.
Schizzi violenti di spuma densa e giallastra colpivano con ferocia l'uomo al timone. La salsedine gli incrostava il viso, e gli occhi avevano preso a bruciare in maniera quasi insopportabile. Pure Leudin resisteva, senza lamentarsi, e dava ordini ai suoi uomini, urlando per superare il sibilo tetro del vento tra le vele.
Sospinto dalle folate colleriche del mezzogiorno, il leudo correva sui cavalloni in un gran lasco furioso, fuggendo in direzione di Livorno con tutte le vele pericolosamente spiegate. Mantenere la rotta diventava ad ogni istante più difficile.
Una raffica più forte delle altre fece gemere sinistramente la vela. I ferzi di lino, gonfiati dal vento, sforzarono con violenza sull'inferitura. I matafioni, sollecitati al limite della rottura, sembrarono artigli che lottavano disperatamente per non mollare la presa. Per fortuna l'antenna, costruita con una relativa elasticità dai maestri d'ascia rivani, fletté leggermente, scaricando in parte l'enorme tensione e permettendo alla vela di resistere.
Il Mä Passu, incalzato allo spasimo, scarrocciò pericolosamente. Il leudo, come tutte le imbarcazioni tradizionali a vela latina, non aveva una chiglia zavorrata che ne impedisse il rovesciamento. Perciò manteneva in genere una certa stabilità, ma superato un angolo di 40° o al massimo di 50°, tendeva inesorabilmente a rovesciarsi. La sicurezza della barca era affidata, in caso di forte maltempo, all'abilità del timoniere nel manovrare e alla prontezza dell'equipaggio nell'equilibrare col proprio peso sopravvento.
Il timone era però diventato durissimo, e Leudin doveva faticare non poco a governare la piccola imbarcazione.
“Maledizione, la bastarda non reggerà a lungo. Dobbiamo per forza prendere i terzaroli, o la perderemo”, disse a Gustin.
“Quelli alti o quelli bassi?”, chiese il marinaio, riferendosi alle due linee di terzaroli di cui era dotata la vela del leudo.
“I bassi, direi. Quelli alti ridurrebbero di più, e l'antenna sarebbe meno sotto carico, ma... la verità è che con il mare che si è messo, mi preoccupa un po' la manovra. Usare i bassi è più semplice”
In realtà, prendere una mano di terzaroli alti avrebbe significato ammainare del tutto l'antenna, mettere in tensione i terzaroli lungo l'antenna stessa, arrotolare tutto il tessuto che eccedeva e dar infine volta ai matafioni, per poter poi issare nuovamente. Vero che, grazie alla struttura particolare della vela latina non era necessario mettere la prua al vento, e si poteva evitare di ammainare prima il fiocco, ma si trattava comunque di una manovra non facile che avrebbe impegnato tutto l'equipaggio.
“Non posso farlo io, allora. Peso troppo, per spostarmi sottovento. Lo sai, vero, che toccherà a Cristoforo?”, replicò Agostino con una qualche incertezza nella voce.
Leudin fece un cenno affermativo col capo.
“Sei sicuro che sia in grado di farlo?”, domandò il marinaio, cercando di farsi udire solo dal bacán.
Gli sarebbe dispiaciuto mettere il ragazzo a disagio con gli altri uomini, in caso di una risposta negativa. Sapeva bene come l'orgoglio dei giovani potesse essere allo stesso tempo smisurato e fragilissimo, due qualità che il mare amplificava e mescolava come onde sulla riva.
Leudin rifletté qualche secondo. Terzarolare in quelle condizioni poteva rivelarsi anche pericoloso, e Cristoforo era giovane. Tuttavia, alla sua stessa età, suo padre gli aveva affidato il comando del Mä Passu, la volta che si era rotto una gamba e si doveva ad ogni costo navigare a Savona. Soprattutto, qualcosa nel comportamento di Leudinettu il giorno della rissa all'Elba, lo aveva convinto che il ragazzo stava ormai diventando un uomo. Sì, era il momento di rischiare.
“Scì, Gustin. Ciamilu püre” , decise il bacán senza più esitare.
“Beh, stai tranquillo, Leudin. Tuo figlio è in gamba. Se la caverà”, rispose il marinaio, in fondo felice per Cristoforo. Aveva l'occasione per dimostrarsi un vero uomo di mare, e non l'avrebbe sprecata.
Agostino chiamò il ragazzo, e gli fece cenno di raggiungerli a poppa. Leudinettu, che se ne stava accovacciato nei pressi del boccaporto di prora, cercando di offrire al vento la minor superficie possibile, si alzò prontamente. Muovendosi con qualche difficoltà, ma con una certa sicurezza, per la forte inclinazione del leudo, raggiunse il padre e Gustin.
“Te la senti di terzarolare la vela? Con questo mare non sarà uno scherzo, ma lo deve fare qualcuno di non troppo pesante”, chiese il bacán, in maniera un po' brusca per nascondere il suo vero stato d'animo.
“Certo”, fu la laconica risposta del ragazzo, diviso tra il desiderio di mostrarsi all'altezza e un velo di preoccupazione. In realtà era la prima volta che affrontava un mare del genere, e il peso della responsabilità che gli stavano addossando lo aveva colpito non poco.
“Bene. Iniziamo, allora”
Il sistema che regolava l'ammainata della vela latina era piuttosto semplice, anche se, come tutte le manovre nautiche, richiedeva una certa perizia.
L'antenna era trattenuta sull'albero mediante un nodo scorsoio, la trozza, rifasciato di sagola o di cuoio per meglio resistere alle sollecitazioni. La sua tensione andava regolata attentamente in modo da permettere la rotazione, senza lasciare però spazio a dondolamenti.
Per alzare o abbassare l'antenna, si faceva uso di una drizza di tessitura intrecciata, collegata all'imbragatura del pennone da due ganci uguali, accoppiati in modo da formare un anello chiuso. La cima, chiamata amante, doveva in ogni caso essere di ottima qualità, per evitare pericolose ritorture che potessero comprometterne l'efficienza. Lo scorrimento della drizza avveniva nell'amandueta, o calcese, una cassa rivestita di metallo ricavata nella parte superiore dell'albero, a forma appunto di mandorla, nella quale erano alloggiate le necessarie pulegge.
All'altro lato, l'amante era collegata ad un paranco a due vie, lo sciunco, essenziale per ridurre lo sforzo di manovrare l'antenna.
Mentre Leudin timonava cercando di sventare almeno parzialmente la vela, pur senza poter mettere del tutto la prora al vento, e lascava per ridurre la tensione della scotta, Gustin diede mano all'amante e abbassò di un metro l'antenna.
La scotta, cioè la manovra collegata all'angolo libero della vela e usata per orientare la vela stessa, andava ora staccata al più presto. Con un movimento rapido e deciso, il marinaio sciolse la gassa d'amante che la allacciava alla randa, e la bugna svolazzò nel vento sbattendo come le ali di un immenso albatro bianco. Ora la cima andava passata nella brancarella dei terzaroli e assicurata con una nuova gassa d'amante. Agostino lo fece in pochi secondi, e tornò subito a poppa, accanto a Leudin.
Toccava a Cristoforo, adesso.
Il ragazzo si avvicinò all'albero cercando di equilibrare il più possibile il proprio peso su entrambe le gambe, e di seguire flettendole il rollio dello scafo. Il libeccio lo sferzava implacabile, togliendogli il respiro, e obbligandolo a socchiudere gli occhi per mantenere un minimo di visuale. L'aria stava diventando sempre più scura con una rapidità che lo sconcertava. La burrasca, che pure non li aveva ancora investiti in pieno, era ormai vicina, condanna immanente decisa da una volontà superiore.
Leudinettu raggiunse la vela, e si pose sottovento. La canapa fluttuava nel vento con un rumore lacerante, e le mani di Cristoforo si trovarono a lottare furiosamente per riuscire ad arrotolarla. Le dita del ragazzo, intorpidite dagli spruzzi freddi del mare, che pareva essersi dimenticato dell'estate in arrivo, cercavano disperatamente di catturare il bordo, senza riuscire a trattenerlo. Gli sgusciava velenoso come un cobra di tela, e lo mordeva con schiaffi brucianti, mentre i secondi passavano veloci. Il rollio della barca si faceva sempre più accentuato, e Leudinettu ora stentava ad assecondarlo.
Finalmente il ragazzo riuscì a impadronirsi di quel lembo maledetto. Iniziò a serrarlo ignorando il dolore alla punta delle dita, che si bruciavano e si scorticavano strusciando contro la fibra ruvida. La fatica ormai era terribile, e il petto di Cristoforo si sollevava affannosamente alla ricerca dell'ossigeno che iniziava a mancargli.
Non si rese bene conto di quanto tempo gli fosse occorso per arrotolare la vela. Forse pochi secondi, forse minuti. Comunque fosse, un'eternità. Attaccò a legare i matafioni, e gli sembrò ancora un tempo infinito. Tutto il suo corpo richiedeva di cessare quella tensione spasmodica, in cui ogni muscolo delle braccia e delle gambe lottava contro l'acido lattico che lo aveva invaso. Si costringeva a ricacciare in gola le lacrime di dolore, mentre i crampi che lo avevano colto lo tormentavano e gli deformavano le mani.
Non seppe mai quale era stato l'attimo preciso in cui l'opera fu finalmente compiuta, e per qualche istante se ne stette lì, instupidito dallo sforzo, a guardare la vela. Sordo alle grida del padre e degli altri, che gli intimavano di mettersi al sicuro.
Si girò verso poppa, con una lentezza che a tutti parve insostenibile, ma che lui non avvertì come tale. Mosse un passo, poi due.
La raffica arrivò traditrice. Una folata possente e subdola, che forse proveniva da un inferno lontano. Il leudo scarrocciò a babordo. Violentemente. Senza avviso.
Cristoforo si sentì mancare il ponte da sotto i piedi. Cercò con disperata volontà di mantenere l'equilibrio, ma era troppo tardi per bilanciare il colpo. Il ragazzo non ebbe il tempo di riflettere. Sentì una forza superiore trascinarlo irresistibile verso gli inferi ribollenti di schiuma, dove divinità irate ruggivano la loro rabbia. Le assi della coperta curva a schiena d'asino gli scivolarono sotto il fianco sul quale era caduto, come l'urlo angosciato di Leudin scivolò sui suoi orecchi senza poterlo raccogliere. Una frazione di secondo. Solo la bassa falchetta, insufficiente a frenarne la caduta, lo separava dalle acque in tempesta. Le dita annasparono nel vuoto, alla ricerca di un appiglio. Poi il morso freddo dell'acqua gli inzuppò piedi e calzoni. Si sentì perduto. Senza speranza. Morto.
Il contatto sulla mano destra gli sembrò irreale come una beffa crudele del destino. Non capì subito, e per un battito di ciglia giacque sospeso sul precipizio del tempo.
“Gàntite, Leudinettu, gàntite, bela Madonna de Suviù caa”
La mano di Mangiacrave parve materializzarsi dal nulla più profondo. Era forte. Era salda.
Il ragazzo vi si aggrappò con ogni stilla di energia che gli riuscì di scoprire. Si beò di quel sostegno subitaneo e miracoloso. Il piede sinistro trovò il bordo della barca. La gamba si abbarbicò al legno, avida di vita. Si sottrasse all'abbraccio inappellabile del mare.
Il Mä Passu lentamente stava recuperando l'assetto, obbediente al peso dell'equipaggio raccolto a tribordo. La gamba destra del ragazzo emerse dall'acqua, divelta a forza come un sughero da un collo di bottiglia. Approfittando del movimento dello scafo, Leudinettu rotolò agilmente verso la base dell'albero, proprio ai piedi di Mangiacrave, che all'albero si era sostenuto per potergli porgere la mano.
“Grazie, amico mio. Belin, se me la sono vista brutta... Ti m'é sarvà a vita ”, disse il ragazzo, cercando di dissimulare lo spavento provato, non appena si fu sistemato al sicuro.

Danilo Francescano

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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Lisa Ginzburg Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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