Il Petrarca nel III millennio
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Parentesi introduttiva con parole pomposamente petrarchesche. Una nuova prospettiva di pensiero presuppone sillogismi ponderati che preconizzano tendenze letterarie, linguistiche e filologiche, le quali hanno segnato il mutamento della cultura italiana medievalistica sulla fin de siècle di un'epoca, per cedere il passo a una più rinnovata concezione di humanitas che, quasi a intermittenza, si mette in atteggiamento polemico contro la cultura del secolo precedente vista come antica, trapassata. Una ricca documentazione manoscritta in parte autografa, in parte corretta da egregi filologi, ci mostra la misura in cui la tradizione pre-umanistica si sia dipanata soprattutto per quanto riguarda la cosiddetta età di mezzo. Il dissidio petrarchesco edifica una questione per nulla marginale, perché permette a tutta la tradizione intellettuale, critica e filologica di ridefinire le linee del dibattito accademico moderno; pone in luce linee di pensiero, formulate da studi filologici, letterari, storici e critici che valutano e analizzano per intero l'epoca medievale, sino alla sua scomparsa. Ciò influenza lo scenario intellettuale internazionale, perché non si può discorrere sul dissidio petrarchesco senza avere approcciato il suo predecessore, Dante Alighieri, la cui opera, arricchita di molti strati della lingua fiorentina, esprime l'enciclopedismo e l'erudizione dell'intero medioevo. Tale situazione è ripercorsa a partire dagli albori dello stilnovismo fino all'approdo di una humanitas che scardina l'uomo dalla sua dimensione eccessivamente trascendentale, per conferirgli quella laicità che gli permette di approcciarsi a ciò che lo circonda con maggiore serenità, non deturpata dalla “soglia iperbolica del peccato” di cui la visione medievale si faceva portavoce. La cultura moderna sorge con l'umanesimo, cultura che nel Cinquecento farà i conti con esso. All'interno del quadro è possibile fornire un'immagine intellegibile ed integrale dell'Umanesimo. La direttrice tematica e quella cronologica s'intersecano, perché s'articolano intorno ad esse alcune figure di spicco fra cui Francesco Petrarca, Coluccio Salutati, Flavio Biondo, Leonardo Bruni, Lorenzo Valla, Leon Battista Alberti. Con questi intellettuali emergenti affiora il ciclo di studia humanitatis che meglio hanno caratterizzato la fine del Trecento e il Quattrocento italiano. L'umanesimo, nelle opere storiografiche, poetiche, narrative, e artistiche in genere, si è espresso quasi sempre in latino, linguaggio fautore di una limpida e ritrovata classicità. Per osservare lo sviluppo del movimento umanista è necessario possedere una visione multidimensionale e formalista che garantisca l'affidabilità ed un rigore scientifico, fondato sulla conoscenza e sull'uso ragionato dei contributi storici ed esegetici dell'intero patrimonio letterario e filologico del tempo, supportato da una documentazione manoscritta che sancisce la tradizione, tramandata con accuratezza dal Trecento ai giorni nostri. D'altro canto, invece, si confuta la formazione dell'uomo nel suo sviluppo completo ed esauriente. Petrarca è segno indiscutibile dell'affievolimento dell'era decaduta e rappresenta l'esplodere d'un movimento che si riverbera negli intellettuali dell'età moderna, e non solo in un'ottica filosofica, ma anche da un punto di vista concettuale e formale. Basti pensare al petrarchismo che privilegia un lessico forbito, aulico e latineggiante, che costruisce una tradizione fortemente imperniata su di sé, intollerante, anzi eristica nei confronti di ogni innovazione glottologica. Si ricordi la politica linguistica adottata dall'Accademia della Crusca all'inizio del secolo barocco, e perdurante anche nei secoli successivi. La prima fase dell'umanesimo corre sul filo della produzione petrarchesca. La sua epistola, che narra l'ascesa del monte Ventoso, ci trasmette la condizione esistenziale dell'uomo, scarnificata dai pregiudizi che obnubilano il senso della realtà. Parlando dei riflessi della nuova scienza ed il nuovo metodo di ragionamento epistemologico, l'opera – che rappresenta la polarità del vetusto sistema oramai in deficit, e incapace di supportare l'uomo nel cammino di risveglio – è il De sui ipsius et multorum ignorantia, manifesto che ribadisce la concezione di una visione vitalistica e rinnovata. Tale teoria mina le basi della filosofia e teologia aristotelica, i cui centri propulsori medievali erano a Padova, a Bologna e a Parigi. Ne derivano un modus vivendi e operandi che, grazie ad una diatriba appunto eristica e polemica, disputano contro il dogmatismo teologico, per affermare valori empirici e utili alle vicende terrene incarnate in una dimensione palpabile, non effimera, che permette la disamina in senso pervasivo e fluido della dinamicità di quegli elementi che denotano l'homo novus in una società delineata in stretta sinergia con la vita di altre persone, nel senso politico, storico e antropologico. In sostanza, bisogna rendersi conto che per una rinascita vivida e florida urge lo scardinamento del senso egoistico di concepimento dei rapporti umani i quali, quasi sempre, sono autoreferenziali. Insomma, bisogna partire dall'incipit: l'educazione. Già gli umanisti Guarino e Vergerio avevano incentrato le loro metodologie pedagogiche a favore dell'apprendimento umano. L'indagine linguistica e umanistica invece, porta con sé un gergo misconosciuto, il greco: nell'età antecedente l'umanesimo gli studiosi avevano interagito con le opere platoniche, ma in veste d'eresia. Essendo l'aristotelismo, illo tempore, un pensiero dominante, veniva filtrato – dal punto di vista glottologico – da commentatori latini e arabi che avevano strutturato un gergo specialistico, spesso non adattato all'originale. Questo però non deve sostituire la vera ricerca dell'apprendimento d'una lingua che, a quel tempo, era percepita come nuova. Lo stesso Petrarca pativa il deficit della conoscenza della lingua greca, ma, da parte sua, l'attività di recupero delle discipline umanistiche, ha impegnato una nitida e feconda stabilizzazione architettonica delle opere greche e latine. Insomma, si promuove l'esigenza di non assecondare la chiusura psicologica e intellettuale per suggellare una continuità intellegibile, non costipata. Tutto accompagnato da una attività filologica di indagine critica rivolta a definire il presunto originale dei manoscritti antichi, di cui Petrarca si fa iniziatore. Il metodo dello stemma codicum, ideato dai filologi, è utilizzato come strumento per identificare l'archetipo di un manoscritto antico. Ciò solidifica la tradizione filologica e testuale, e questo oggi viene insegnato nelle accademie italiane. Ricorrendo a un simile approccio empirico i filologi non hanno dubbi: si enuclea l'importanza d'un lavoro ecdotico sviluppato nel censimento dei testimoni e nell'esame delle singole lezioni, per stabilire quella più congrua e vicina all'originale. Per quanto concerne le opere petrarchesche, frutto solo in parte di una rielaborazione stilnovistica, esse introducono importanti novità: l'io lirico, acquisendo indipendenza, con tutte le sue contraddizioni, segna l'avvicendarsi di esperienze poetiche e poietiche che delineano percorsi non sempre lineari o claudicanti, impervi di ostacoli, connotati da esperienze significative. Un aspetto che affiora pure nel Secretum, nel quale si avvista qualche breve spunto per la psicoanalisi. In questa piccola parentesi, si intende sviscerare anche una quaestio non di poco conto nella storia della (nostra)letteratura: il coefficiente dell'io lirico petrarchesco. Esso evidenzia l'esistenza di un conflitto interiore diviso tra esigenze spiritualizzanti e desideri terreni, pervasi dalla amorfa e arretrata convinzione che tutto ciò che definisce la materialità sia peccaminoso. Ma la concezione dell'amore petrarchesco non resta isolata. La passione amorosa si districa nell'ottica cavalcantiana, formulazione isolata all'interno della corrente stilnovistica, che ridisegna la costante per ciò che realmente trasmette: l'inappagamento, con una esperienza d'amore elaborata in maniera devastante. Secondo tale pensiero, il vitalismo umano tende ad annichilirsi e a genuflettersi di fronte all'archetipo di morte dell'anima. Infatti, in Cavalcanti, le vicende amorose discorse con minuziosità in una solida impalcatura metrica, affiorano e proliferano in una teatralizzazione della passione che mina l'istinto di vita. Le deduzioni della psicoanalisi studieranno, e non casualmente, il concetto d'istinto vitale contrapposto a quello di morte. In base a ciò possiamo riassumere che la visione tragica cavalcantiana sta alla base del Canzoniere e del Triumphus Cupidinis. Questa linea di tendenza ha altri predecessori, risalenti all'età della cortesia e delle buone maniere stilistiche. Innanzitutto il trovatore Bernard de Ventadorn, con la sua sofferenza implacabile che nega ogni approccio affettivo, e il cui pathos viene sedimentato da molto dolore. Quell'analisi viene infoltita da Petrarca, che la fa propria. Come anche il De Amore di Andrea Cappellano, scritto all'incirca nel 1100, il cui trattato, propinando la fenomenologia del mal d'amore, di cui la produzione petrarchesca si serve, tralascia i topoi della gioia di amare. La veste classicheggiante dell'amore viene suggerita anche da Tibullo, ma sono soprattutto le elegie che lamentano un amore deprivato e tormentato. Solamente in Dante vige l'idea conciliatoria del terreno col divino, per cui l'esperienza materiale si carica di trascendenza e spiritualità e si inserisce in una forma candida e stilisticamente accettata (Vita Nuova). Da qui traspare un eloquio non patetico, anzi, fluido nell'elogio, e in una lode che, rivolta all'amata, non fa altro che tessere la bellezza di Dio. Petrarca vive considerando il proprio trasporto per Laura un ostacolo verso la santità ed è per quello che l'io dibatte con l'anima sulle debolezze, le quali formeranno la costituzione dell'uomo moderno e saranno confutate nel De otio religioso, nel De vita solitaria e nei Psalmi penitentiales, nel Secretum, dove emerge la ricerca della preghiera. E nonostante il tempo, la contemporaneità è imperniata di questi aspetti, segno di un'epoca che cerca di fuggire al laccio della morte spirituale, dileguando così le nebbie di una negligenza morale che porta all'indolenza. Le divergenze abissali dei registri linguistici tra Dante e Petrarca, evidenziano difformità sostanziali tra i due artisti. Da una parte il plurilinguismo dantesco che esemplifica il suo enciclopedismo, denominando la varietà del reale: dall'altra il monolinguismo petrarchesco dà ampia luce a virtuosismi formali con tono serio e solenne. I Trionfi sono un poema allegorico in lingua volgare in terzine, articolato in sei visioni oniriche. Si assiste così a sei trionfi successivi, in cui ogni allegoria scalfisce la precedente; nell'ordine abbiamo Amore, Pudicizia, Morte, Fama, Tempo, Eternità. Nei Trionfi, a cui Petrarca lavora dal 1340 e riesumati fino alla morte del poeta, vengono riprese e sintetizzate le riflessioni del Canzoniere, dei trattati morali come il Secretum, il De vita solitaria, il De otio religioso, nonché delle raccolte epistolari Familiares e Seniles. I Trionfi ambiscono all'universalità della Commedia di Dante. Nell'opera petrarchesca si nota un profondo raccoglimento spirituale. Il desiderio di gloria e l'amore carnale verso la sua donna sono elementi minimizzati ed osservati nella loro ontologia, senza alcun velo demistificante. Il poemetto si presenta come il viaggio ideale e universale dell'uomo dal peccato alla redenzione, un tema tipico dei testi poetici allegorico-didascalici medievali come il Roman de la Rose e la Divina Commedia, che diventa per Petrarca un vero e proprio termine di paragone. Il poema dantesco si manifesta sia come prototipo formale indiretto, con la scelta del Petrarca di adottare lo schema metrico della terzina, sia come baluardo concettuale del voyage allegorico-morale intrapreso.
Valentina Bandiera
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