Una sera un gatto davanti al Santo Sepolcro: voglia di libertà
Come un esploratore solitario che ha perso bussola e mappa. È questo che significa essere liberi? (Haruki Murakami)
C'era un gatto una sera di fronte al Santo Sepolcro. Eravamo io, lui e un turista rumeno. Da poco la chiesa era stata chiusa. La piazza deserta, e il gatto se ne stava lì davanti al sagrato. Il turista rumeno era molto impegnato a fotografarlo. Il gatto, appollaiato su un capitello mozzo, sembrava pietrificato tra le pietre. Casualmente aveva lo stesso colore del marmo e la luce serale giocava indubbiamente a favore. Ma lui, il gatto, ci metteva del suo. Era immobile, totalmente incurante dei due, io e l'altro, che ci contendevamo lo spazio per immortalare l'animale in tutte le posizioni possibili. Una specie di diatriba silenziosa come il silenzio che ci stava attorno perché Gerusalemme deserta è un miraggio. E lo sapevamo entrambi. Normalmente la città viene presa d'assalto, in tutte le ore del giorno e della notte e, quella zona in particolare, attira costantemente l'attenzione di molti. Pellegrini e fedeli soprattutto all'alba, il pomeriggio clientela mista tra visitatori generici e devoti di ogni sorta, dai cattolici agli ortodossi. La sera di nuovo processioni di credenti, più o meno fervidi. Quel silenzio era quindi prezioso, così come – e forse solo allora me ne ero resa veramente resa conto – vagare in solitudine. Due parole chiave e in qualche modo accomunate dallo stesso destino. Due “senza”: senza meta e senza nessuno. Mancanza di scopo e obiettivi da condividere. Un comune denominatore piuttosto evidente: libertà e assenza totale di vincoli. Nessuna gabbia. Il viaggio in solitudine, con una famiglia a casa per scelta, è prima di tutto: aria fresca, la tua. Quella che non devi patteggiare con nessuno...
Da Varanasi alle balene ai cimiteri. Perché proprio là? La scelta della meta non è mai casuale
Non si arriva mai tanto lontano come quando non si sa dove si va. (Johann Wolfgang Goethe)
Alcuni viaggi nascono in biblioteca. Sono gli itinerari legati a un interesse storico, culturale, di approfondimento. Altri, invece, sono frutto di chissà quali strani meccanismi o desideri, magari inconsci. Fatto sta che in alcuni posti ci si trova e basta. Sono spesso luoghi in cui non è necessario avere con sé una cartina, un programma o un itinerario. Sono posti fatti per vagare o, semplicemente, per restare immobili e osservare. Sono luoghi che affinano tutti i sensi perché costituiscono un tripudio di odori, suoni e colori, frammisti e, spesso, in antitesi tra loro. È difficile distinguerli, ma forse è proprio questa commistione o confusione, dipende dai punti di vista, che rende il tutto unico e affascinante. A Varanasi ciò accade da sempre, in qualunque stagione o momento della giornata. È una delle città più antiche del mondo, in cui la storia si è talmente stratificata da rimanerle appiccicata addosso con tutte le contraddizioni del caso. Varanasi, forse anche per questo, è la città degli ossimori, a cominciare da quello più evidente e sostanziale: tra la vita e la morte. Stanno l'una accanto all'altra con una naturalezza così impressionante da sembrare quasi indifferenza. La bilancia per pesare la legna dei roghi funebri se ne sta vicino a quella per quantificare il cibo; chi si fa la barba nell'acqua del Gange sta a due metri da una pira fumante. Una donna che lava il suo sari, il tipico abito femminile indiano, a un passo da una famiglia che prega per il caro estinto. Ma qui tutto è possibile. Varanasi, Benares, del resto, è il cuore e l'anima dell'India. È la città in cui gli induisti, provenienti da tutto il Paese, vengono per purificarsi nelle acque del sacro Gange, la Ganga che è madre, tutrice, senso e sostegno dell'esistenza. Qui gli indiani vanno a morire per porre fine al ciclo delle reincarnazioni. Così tutto si svolge nel fiume e attorno al fiume. I ghat, le scalinate che scendono verso il corso d'acqua, sono il più grande teatro umano che abbia mai visto. È una scenografia cangiante, lunga sei chilometri, quella che offre Varanasi. Inizia all'alba. Di solito c'è la nebbia. È un'atmosfera rarefatta. La mattina presto si intravede il profilo della città e le barche sul fiume in una processione infinita per la preghiera. Poi la luce cambia colore e diventa dorata. Intanto c'è chi si lava nel Gange, chi offre corone di fiori, chi accende candele. C'è un viavai che diventa sempre più insistente appena il sole si fa più alto. Ci sono mendicanti, donne, uomini, anziani, bambini, cani liberi (moltissimi), mucche e scimmie. Ci sono i sadhu, asceti che meditano, praticano yoga insieme alla rinuncia dei beni materiali. Alcuni indossano un saio arancione, altri sono nudi e ricoperti di cenere. Dietro i ghat, la città di Varanasi è un labirinto di vicoli, di persone, di animali e di merci...
In volo con Buddha Air a Kathmandu: la paura dell'aereo
Solo chi rischia di andare troppo lontano avrà la possibilità di scoprire quanto lontano si può andare. (T.S. Eliot)
Su uno scaffale sopra la mia scrivania c'è un certificato, è quello di Buddha Air. Recita così: Ms. Paola Scaccabarozzi had a once in a lifetime experience on board Buddha Air's Everest Experience Flight to Mt. Everest on 12/11/2017.
Più che un certificato è una sorta di glorioso attestato di sopravvivenza perché la compagnia aerea in questione – non è mistero per nessuno – compare nella cosiddetta “black list”, un elenco poco confortante di linee aeree che, secondo le stime di chi si occupa di sicurezza in volo, sarebbe meglio evitare. Infatti avevo giurato che non avrei mai messo piede su quell'aereo! Tanto più che ho paura di volare, a prescindere. Ma anche in questo caso il viaggio solitario può risultare terapeutico. È una sfida costante con te stessa, e quella con la compagnia aerea dalla fama dubbia ne è un esempio eclatante. Ero a Kathmandu. Sera tardi, qualche messaggio WhatsApp con figli e marito per accertarmi che a casa filasse tutto liscio. Poi un messaggio da un amico: “Hai prenotato il volo per vedere l'Everest dall'alto, vero?”...
“Sta aspettando qualcuno?” A tavola da sola
La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi. (José Saramago)
Prima ti guardano. Poi ti girano timidamente intorno e ti pongono la domanda che vorrebbero farti già dal primo momento, ma che tengono in serbo mediamente per un quarto d'ora: “Signorina, sta aspettando qualcuno?” Qualunque sia il paese che stai visitando, il quesito è sempre il medesimo e non è solo una forma di cortesia, quasi dovuta, prima di portarti il menù. È una curiosità mista a incomprensione con sfumature diverse in base al luogo in cui ti trovi. Una cosa è certa: una donna da sola al ristorante, soprattutto la sera, genera perplessità. Quella degli altri, non la tua. Tu ti stai gustando la scena. Anzi, le numerose scene che regolarmente ti si presentano davanti agli occhi. Una cena solitaria garantisce, infatti, un eccellente osservatorio antropologico. Ci sono i camerieri e i loro sguardi, quelli degli altri viaggiatori, in gruppo o, per lo meno, in coppia. E tutto il resto: il come si sta a tavola, che cosa si ordina e come, di che cosa si parla. Con quali ritmi, quali le specialità culinarie. L'ambiente in cui ti trovi: senza altri al tuo tavolo, lo guardi, inevitabilmente, con maggior attenzione. E poi a tavola si collezionano storie che possono trasformarsi in ricordi indelebili. A Marrakech le mani veloci di una donna che stava preparando il cous cous, a Napoli una pizza solitaria che si era trasformata in una serenata improvvisata...
Più sola di così! Quando si scelgono le isole
La ragione è un'isola piccolissima nell'oceano dell'irrazionale. (Immanuel Kant)
Una volta avevo letto un racconto di David Herbert Lawrence. S'intitolava: L'uomo che amava le isole. Mi era piaciuto parecchio per due ragioni: adoro le isole e mi sono spesso domandata che razza di persone fossero gli isolani. Me li immaginavo come personaggi un po' strani, tra il solitario e il malinconico. Impregnati di salsedine e di vento, li ho sempre pensati come soggetti schivi, orgogliosi, con le radici piantate saldamente in una terra che deve sopravvivere alle insidie del mare. Lawrence, l'isolano lo aveva descritto, non a caso, proprio così: “L'unica sua fonte di soddisfazione era la consapevolezza di essere solo, completamente da solo a impregnarsi di spazio. Solo con il grande mare e la sua isola salda nel mezzo. Nessun altro contatto. Niente di umano poteva portare il suo orrore vicino a lui. Soltanto spazio, umidità, crepuscolo: spazio lambito dal mare! Era l'unico pane di cui aveva bisogno l'anima per saziarsi”. Sarà anche per questo che amo le isole e, più sono piccole, più mi piacciono. Anzi, penso che un'isola, per essere veramente tale, debba avere dimensioni microscopiche, infinitesimali. Un puntino in mezzo al mare, uno scoglio a cui aggrapparsi. L'isola minore è un viaggio solitario all'ennesima potenza. Ne è l'emblema e l'apoteosi. Il solo arrivarci implica staccarsi dalla terraferma, tagliare il cordone con il continente e con la famiglia e con una parte di sé. Vuol dire avere un biglietto certo d'andata e uno dubbio di ritorno. La motivazione è estremamente concreta: con il mare grosso i traghetti non salpano...
Paola Scaccabarozzi
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