Quando giunse dinanzi alla struttura indugiò a contemplare il cielo. Sembrava che qualcuno avesse scaraventato secchi di porpora su una tela azzurra e, con mano ferma e feroce, sfumato i primi accenni di crepuscolo. Rimase incantato dagli stormi di rondini che punteggiavano la volta, migliaia di graffi inferti con la punta d'una matita. Troppe cose stavano cambiando. Una primavera maldestra si era affacciata in largo anticipo sulla scena dell'inverno. In Provenza erano già arrivate le rondini, o se ne stavano andando. Comunque... Zoran era un professionista, in quanto tale sapeva che tutte le quisquilie vaganti avevano l'obbligo di mimare quelle migrazioni. Era lì per un lavoro, quei tipi di compiti che solo a pensarci in vasca da bagno, al caldo riparo di quattro mura domestiche, fanno tremare le mani e pentire di non essere il fratello scemo del prete; pentire di non ritrovarsi un fesso ben voluto da tutti, con un posto mediocre da impiegato concesso senza titolo di merito, e un loculo prenotato nel buco di culo di qualche paradiso romanzato da chissà quale poeta errante in HIV conclamata e l'alito di genepy. Si trattava di uno di quei compiti che fanno impazzire il cuore come sull'orlo della portiera di un aeroplano. Ma lì, a tu per tu col dovere, aveva imposto all'animo suo di rimanere pacato, imperscrutabile. Come un fiore del deserto su cui schizzano frammenti di una giugulare aperta in due da una sciabolata. Gli ordini erano stati concisi: un buco in testa. Si erano pronunciati alla stregua di operatori del settore, ma non ne sapevano niente. Quando si esegue qualcuno, per avere maggiori probabilità di successo, bisogna sparare due volte consecutive al disopra delle sopracciglia. Niente più. La facciata dell'hotel teneva fede alla promessa di un relais chateau penta stellato. Suggeriva l'idea di una reggia fiabesca appartenuta a reali, dai sotterranei pieni di controversie esoteriche. Un'altra torre di babele romanzata fino alla nausea: il lume vuole essere luce, la luce il sole, il sole, Dio. Il lusso non conosce termini di misura, più l'uomo ci sguazza come un porco nella merda e più ne esige. E più la torre s'innalza fino al punto di offendere Dio, più devastante tuona lo schianto del crollo. Nizza profumava di mare e architettura italiana, tuttavia sia l'olfatto che la vista dell'uomo già non davano più adito alle piccolezze che gli fluttuavano intorno. Era talmente rapito dal lavoro assegnato che in funzione di rito propiziatorio e peccando di stravaganza, aveva oscurato tutto il circostante. Vedeva soltanto se stesso a cento metri dalla porta d'ingresso. Lui e l'hotel. Tutto nero intorno. Un'altra storia già vista migliaia di volte: la gloria del capitale che frantuma la bellezza delle piccole cose, come mattoni cementati sulla superficie del mare. Nonostante i suoi quarantasei anni, Zoran, aveva dentro di sé un fanciullino neanche lontanamente imparentato con quello di Pascoli, ma che a onor del vero lo impegnava a formulare fantasie infantili, come l'attuale isolamento dal mondo. Oppure a fermarsi per strada ad accarezzare qualsiasi cagnolino incrociasse, offrire cibarie ai gatti randagi, o semplicemente fare una beffa e sghignazzare con altri bambini. Se Dio mai, ogni tanto, avesse voluto buttare un occhio sulla terra, avrebbe senz'altro optato per vedere cosa diavolo mai stesse combinando quella sagoma di Zoran. Era un personaggio altalenante tra il thriller e la commedia, un signore grottesco finito per sbaglio sul set di una pellicola drammatica; e la circostanza che lo vedeva ancora all'aria aperta, beato in Costa Azzurra, ad accingersi nello svolgimento dell'ennesimo lavoro, con indosso un'artigianale camicia in lino bianco e bretelle in pelle nera, era l'icastica prova che Dio stava dalla sua parte. Ad aggiungere fortuna alle sue disgrazie, l'aspetto dai pronunciati connotati Balcani vantava un grosso naso aquilino che ringhiava arroganza già dalle fototessere ogni qualvolta gli controllassero i documenti. Gli occhietti neri e rotondi ricordavano vagamente quelli di un procione e, tornando al discorso del fanciullino, gli sorridevano, dando un contrasto combattuto nel suo disperato insieme somatico. Non c'erano vie di mezzo: se incontravi Zoran o ti contagiava con un sorriso o doveva ucciderti. Con quegli occhi che, nei momenti clou perdevano la freschezza, come un pesce che marcisce in time-lapse, si deformavano dall'allegria allo squilibrio nello scatto rapido di una normale conversazione che muta in scippo. Istantanei alla stregua di un giro sfortunato di roulette russa. Prima di avviarsi all'entrata consultò il suo Casio f 91w al polso. Erano le diciannove e tredici del 29 Febbraio. Attese un minuto, lo sfruttò per inforcare una mascherina, dopodiché agguantò la sua borsa nera di alta sartoria italiana e s'incamminò risoluto verso la struttura. Al primo impatto avvertì una folata di peccato e opulenza schiantarglisi addosso. All'interno dell'albergo un lampadario mastodontico, minuziosamente composto di cristalli ciondolanti, sovrastava il centro della hall. Un nero, umile dentro una parca camicia bianca e gilet rosso, ne spolverava le strozzature e i filamenti godendo dell'ultima luce del giorno che ancora si proiettava generosa dai finestroni imperiali, indicando dove agire alla mano consunta del dipendente. Dalla scala pieghevole e malferma che lo reggeva a tre metri da terra, provenivano degli scricchiolii sospettosi, istintivamente intelligibili con quanto fosse una buona idea smettere subito e portare via l'attrezzatura prima di ritrovarsi in terra con una manovra acrobatica da contorsionista. Senza contare quanto stonasse nel lusso una scala da carpentiere che pure una Madonna in un bordello avrebbe trovato le sue ragioni. Il simbolo della struttura era ritratto nel gioco delle mattonelle in marmo alla stregua di un mosaico gigante ebano e nocciola. Rappresentava una chiave stilizzata inserita dentro un triangolo senza base. Tutto armonizzava come la prova di erudizione architettonica: dai muri dorati ai grandi archi in pietra, alle colonne bianco candido poste a incorniciare il lampadario, il soffitto dipinto da eleganti ghirigori ridondanti. Zoran azzardò il passo accusando come l'impressione che i quadri appesi alle pareti gli rimproverassero occhiate di sufficienza, ostentando il loro incommensurabile valore. All'angolo si ergeva imponente, tra il ritratto di una bambina e un paesaggio balneare che altro non doveva essere Nizza anni Cinquanta, un pendolo d'epoca con cui il tempo era stato magnanimo, conservandogli l'antico splendore dei giorni passati. Senza sapere da dove attingere buon auspicio, prima di dirigersi alla conciergerie, l'uomo decise di dedicare l'attenzione su quel curioso pezzo da museo, come in cerca di un segno caritatevole lasciato dalla sua stella. Se la saggezza del proverbio recita che il tempo è tiranno, il pendolo n'era la più azzeccata personificazione materiale: due metri di acacia dall'aria severa con ghingheri aurei a esaltarne i particolari. Le lancette ferme alle ventitré passate erano in totale discordanza con il Casio e l'avvicendarsi del mondo fuori, dando l'impressione che quel diavolo di pendolo, ottenebrato dalla propria maestosità, se ne infischiasse di cosa effettivamente succedeva intorno a sé. L'uomo contemplò l'arte magistralmente applicata in quell'amalgama di oro e legno, tastò con le dita gli arabeschi capricciosi e osservando attentamente il quadrante, gli parve che dall'altra parte qualcuno a sua volta lo guardasse, come se all'interno mulinasse una profondità invisibile a occhio nudo. Si scosse dalla sensazione e riavendosi gli sovvenne un aneddoto di quando era poco più che bambino. Suo nonno, un contrabbandiere di prestigio internazionale, era solito portare al polso un orologio di fattura svizzera, un pezzo studiato ad arte per l'élite meno modesta. Zoran bambino rimaneva affascinato dall'immagine del nonno che tirava da tasca malloppi di banconote a fisarmonica, e sempre scorgeva lo sfavillio del quadrante quando il nonno agitava il polso per ostentare arcobaleni di carta moneta. Gli chiedeva sovente di mostrarglielo, e visto l'interesse del nipote, una sera l'anziano promise che in punto di morte quell'orologio sarebbe stata la sua eredità. Zoran non era neanche ragazzo, una malattia condannò l'anziano a soli tre mesi di vita. Un giorno i due passeggiavano vicino a una balaustra vacillante, a ridosso di un corso d'acqua poco distante dalle loro cascine. Il nonno si trattenne a guardare lo scorrere impetuoso del fiume, il bambino fece lo stesso senza tradire il silenzio imposto dall'adulto che, sfilato l'orologio glielo mostrò chiedendogli se sapesse a cosa servisse. Zoran diede la risposta che poteva: la più banale, cagionando disappunto nella mimica del nonno. Il nocciolo della questione forse era troppo profondo per un imberbe, poiché era troppo altresì per un anziano come lui. “Il tempo è la ricchezza più grande che possiedi, e un orologio non serve a sapere che ore sono, bensì per tenere il controllo dei momenti che passano. Quindi non conta che orologio porterai indosso, conta come saprai utilizzare il tuo tempo." Detto ciò, l'ex contrabbandiere d'armi che aveva passato la vita a spendere i suoi soldi guardandosi le spalle, si fece scivolare dalle dita il monile, lasciando che le acque torbide se lo ingoiassero. Quella lezione rimase talmente vivida nel bambino ormai fatto uomo, che Zoran si raccolse nell'atteggiamento più snob che poteva concedere a un pendolo, come un gatto che piscia sulla ruota di un Ferrari e, sgombro di qualsiasi pensiero, si presentò al banco d'accoglienza con l'aria beata di un cadavere appena proclamato santo. - Bonsoir à tout le monde. - Il segno benigno che aspettava si mostrò al ricevimento, bastava andare avanti per far sì che si svelasse. Appunto, il soggetto presente dietro il raffinato banco di marmo e rovere, era un giovane distratto con un lembo di camicia che penzolava svergognata fuori dallo smoking, il nodo della cravatta fiacco, la spilla sul bavero figurante lo stemma della struttura al contrario e come se non bastasse portava una scarpa slacciata. - Bonjour, oh... buonasera. Je peux vous aider? - - J'ai une réservation sous le nom de Achille Guerra Morales, s'il vous plait - Zoran teneva la voce a un bisbiglio, come se le parole gli salissero dallo stomaco. - Pardon monsieur, je parle un peu français... - si scusò il giovane sfregandosi la nuca con toni cordiali, come per recuperare dell'incompetenza. - We can speak english... - accomodò il cliente con sinuosa affabilità. - Italiano is very better se... se lei vuole... - - Italiano va benissimo giovanotto. - - Aah menomale, la ringrazio monsieur - sorrise il ragazzo, nel tentativo di ingraziarsi la simpatia dell'ospite. - Avrei una prenotazione a nome di Morales. - - Sì, sì, sì, sbrighiamo delle pratiche e l'accompagniamo in camera, un attimo per favore. - Zoran stette a osservare il giovane affaccendarsi dietro il banco. Gli solleticava un sorriso vederlo così esagitato e fuori posto. - Allora signor Achille. Una notte in camera e colazione. Perfetto, solo un attimo per favore... - - Tutti gli attimi che le servono. - Un indugio, che seppe ben mascherare, colse Zoran alla sprovvista: il giovane aveva portato la cornetta all'orecchio e con nuda nonchalance disse “è arrivato." L'ambiguità di quel gesto acquistava volume nello sterno, come una mongolfiera che si appresta a spiccare il volo. L'uomo si limitò a studiare in fondo agli occhi del ragazzo per captare una spiegazione, la ricevette solo in parte: - Arriva il capo per il check in... - mormorò sfuggendo dallo sguardo affilato dell'ospite. C'era qualcosa che non andava...
Angelo Mezzettieri
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