La prigione delle Favole Sole
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Gli stivali avorio varcarono le mura dell'antica villa che sapeva di sangue. Il rumore sordo dei tacchi fu inghiottito dal riecheggiare del vento. Un vento che fuori non colpiva feroce, ma lì dentro era amplificato dall'eco torvo sulle persiane serrate e dal sibilare ininterrotto degli spifferi. Il suo ululare attorniava. Paralizzava. Usurava di brividi la pelle del commissario Maya Desìo. Nell'immenso salone, la libreria bianco laccato si ergeva come un iceberg, accecante, sotto i fari della polizia. Un maxischermo spento era un buco nero nel suo ventre. Un divano in pelle bordò si adagiava sul tappeto persiano. Le ballerine intagliate nel legno, in fila su una mensola in vetro, erano sonnambule, schizzate dagli incubi più cupi per invadere i primi attimi di coscienza. Nei dipinti ad olio, le giovani danzatrici di Degas, vestite di tulle, soffocavano nelle cornici cesellate nel bronzo e si rifrangevano nello specchio di fronte, contornato da Swarovski. La puzza di carne umana abbrustolita e le macchie di sangue sul pavimento segnavano un percorso fittizio dalla porta d'ingresso alla gigantesca bocca del camino, dove sfolgoravano gli ultimi scoppiettii non ancora sedati. Lì dentro, il corpo nudo di una donna continuava a crepitare, nei bruscoli che si levavano, attraverso la canna fumaria, nel furore del buio. Le gambe erano state sbranate dal fuoco e si perdevano nei pezzi di legna residui. Il braccio destro penzolava, stillando un filo di sangue che disegnava una via tortuosa, in grado di scavalcare il palmo della mano, imbrattare le dita e il diamante che vi splendeva, convogliare sulle unghie smaltate di rosso, e gocciolare sul pavimento. La mano sinistra era incenerita, come l'avambraccio. Il petto, rivolto alla cappa, permetteva ai seni, sventrati, di ambire alle stelle, fuggendo nell'infinito che si schiudeva su di loro. Il collo si abbandonava all'indietro e, sul viso annerito e tumefatto, gli occhi sbarrati, del colore dei prati in primavera, ammiravano per l'ultima volta il candore del salotto schizzato di rosso. Dalla bocca socchiusa, sgorgava un rivolo che impregnava le ciocche di capelli, testimoni di quella che doveva essere stata una folta capigliatura corvina. La pelle, ridotta a brandelli, scopriva la carne viva. L'estremo piacere e l'immane orrore di guardare in faccia la morte avvampavano sul volto del commissario Maya Desìo. Erano lontane quasi vent'anni le fiamme di quel fuoco che ne aveva corroso l'adolescenza, eppure, di fronte a quello spettacolo, divampavano vive come non mai. Quaranta gradi invasero il suo corpo, affetto dal virus della rivalsa, per cui morire o uccidere. Quaranta gradi, nell'abisso della mente, smarrita la strada maestra. Quaranta gradi, tra le labbra, quando intinse le dita nel sangue di quella donna e, rapita dall'incoscienza dalla follia, assaggiò il gusto ferroso. Il rimorso la risucchiò. L'addentò alla gola, come un vampiro. E in un vampiro la stava trasformando. Nell'alveo sconfinato del rogo spento, che ancora scottava la pelle sotto i vestiti, Maya vedeva riflesse le proprie gambe infuocate che si sbrindellavano, i muscoli che si scioglievano, le ossa che si consumavano. Strazianti urla si levavano dalla polvere dei secoli, la deturpavano, sfregiando il viso con la contrazione estrema delle guance. Una mano robusta le ghermì il braccio, così magro che sotto la giacca di pelle si percepivano solo le ossa: - Tutto ok, Maya? - la voce graffiante dell'ispettore di polizia Claudio Lorusso incupì l'interrogativa con una prolissa emissione di fiato. - Sì - il viso arrossato spiccava come una torcia tra il cappello e la sciarpa in lana nera. - Il fuoco l'aveva già ridotta in questo stato quando siamo arrivati. Abbiamo provveduto a sedare le fiamme. - Claudio non staccava gli occhi dal camino, benché le palpebre bruciassero per le esalazioni: - Secondo il medico legale, potremo recuperare quanto basta per capire a che ora è morta. Portava una cavigliera in acciaio con inciso il nome: Pompea Selvaggia Boccarosa. Trentacinque anni, regista di horror hardcore. Un'imputazione per omicidio con evirazione, risalente a maggio 2016, ai danni del produttore cinematografico Maurizio Santos. Per questo, dal 21 novembre era agli arresti domiciliari, in attesa di sentenza - . L'ispettore torse il muso per l'odore di carne carbonizzata che aveva invaso le narici: - L'ultima pattuglia dei carabinieri è passata ieri alle 18.30, ed era tutto in regola - . Nelle vene di Maya il sangue scorreva palpitante e infiammava il corpo. Le pupille, talmente piccole da non scorgersi più nelle iridi scure, si approssimarono caute a quei seni squarciati: - Cos'è successo ai seni? - - C'era una tenaglia a terra, vicino al camino. Probabilmente l'hanno usata per strapparglieli. L'ha presa la Scientifica. - Claudio gracchiò un colpo di tosse e assestò il nodo alla sciarpa: - Forse l'hanno ferita a morte nei pressi del portone, dove iniziano le tracce di sangue, e poi l'hanno buttata nel fuoco. Strada facendo, le hanno fatto fare un giro sul divano. Ci sono macchie di sangue anche lì - . Maya si sporse sul divano dove, inoltre, alcune abrasioni disegnavano una pittoresca ragnatela sullo sfondo bordò: - C'erano animali in casa? - - No. L'ha chiesto anche il magistrato di turno che è appena andato via: è il nuovo sostituto procuratore Moncino. Ha detto che vuole essere messo al corrente con estremo tempismo sugli sviluppi dell'attività d'indagine, e ha chiesto anche perché il commissario non fosse qui. - Maya si svincolò della sciarpa che la stava soffocando, e l'arrotolò alla bretella dello zaino: - Gli hai risposto che ero in ferie e ho diritto a una vita privata? Ero a Foggia da mia madre. Non potevo certo correre di più - . - Cara mia... - il tono ironico garantì una maggiore inclinazione agli occhi a mandorla dell'ispettore - tu non hai avuto il piacere di conoscerlo: ti assicuro che Moncino non è un tipo socievole, tantomeno disponibile. Taciturno, schivo. In sintesi, direi, odioso... come te. - - Bene. Andremo d'accordo - Maya frugò nel caos dello zaino, cavò il burrocacao e lo passò sulle labbra screpolate dal continuo mordicchiare - Sarà odioso, ma di certo è attento: ci sono impronte di gatto appena visibili per terra, e graffi evidenti sul bracciolo, accanto al sangue. - - In effetti c'è anche una ciotola con dell'acqua in cucina. Comunque gatti non ce ne sono, oppure sono scappati. Cazzo, non capisco proprio che ci frega! - sbottò Claudio. Nel candore dei mobili laccati si specchiavano le sagome dei colleghi della Scientifica, bardati di guanti e impegnati a prelevare campioni di sangue, elementi di tessuti e capelli, che finivano nelle asettiche buste di archiviazione. Maya si inoltrò tra loro, rispettando gli spazi adeguati a non importunarli. Claudio la seguì, sollevandone la sciarpa che, dallo zaino, sfiorava il pavimento. Dall'uscio aperto si scorgeva il giardino della villa, non troppo grande da smarrirci la vista, dove gli alberi si intricavano come complesse sculture contemporanee. Maya sgranchì le spalle, coperte da una fredda giacca di pelle nera che scendeva a stento sui fianchi, stretti in un paio di leggings. Si chinò sulla maniglia e scrutò il bordo della porta blindata: - Non vedo segni di effrazione. La vittima può aver aperto all'assassino? - - Così sembrerebbe - Claudio si grattò la narice dalla quale sbucava un piccolo tampone: - Non ci voleva stanotte. Sono stramorto. Ieri ho preso un cazzottone in allenamento - . - Come sempre - borbottò lei, che immergeva le pupille nel buio della notte, steso oltre la porta d'ingresso - Gli indumenti della vittima? - - Non ci sono. Ha aperto nuda, oppure l'hanno svestita e hanno fatto sparire la roba. - Claudio si strinse nel giubbotto per arginare il freddo: - Sinceramente, è inquietante. Fuoco, tenaglie, torture... Sembra un rito medievale per liberarsi di una strega - . Maya si sventolò con le mani, ma l'aria smossa non era sufficiente. Ribolliva come in una sauna tarata male. Una cappa asfissiante toglieva il fiato. Si svestì del cappello di lana, consentendo ai capelli bruni di cascare sul collo, assieme a una goccia di sudore che proseguì fino alle clavicole: - Cercate computer e cellulare. Voglio tutte le email e i messaggi di qualunque social a cui era iscritta. E i tabulati telefonici - . - Il computer non c'è. Sparito anche il cellulare. E non ci sono tracce di pen drive o hard disk esterni. È stato sottratto anche il Dvr delle telecamere. - Claudio aprì una persiana blindata che dava sul retro della villa. Oltre un cancello secondario, le torce degli sbirri illuminavano l'aperta campagna, solcata da un sentiero sterrato: - Stanno verificando eventuali calchi di gomme. Ci sono segni di effrazione sul cancelletto, ma non sono recenti, perché è stato riparato. Quindi, se ieri sera qualcuno è giunto da lì, ha aperto con la chiave, oppure ha scavalcato - . L'ispettore selezionò sul cellulare la mappa di Google e seguì col cursore: - Pare che il sentiero attraversi la campagna alle spalle di via Amendola e vada in direzione sud. Da quello che vedo, un fuoristrada potrebbe farcela ad attraversarla, anche se con difficoltà - . Maya smarriva lo sguardo in un cielo privo della dolcezza della luna. I muscoli facciali si distendevano all' impatto con l'aria fredda proveniente dalla finestra, che seccava le labbra e la costringeva a ungerle di saliva. - Cambia burrocacao, Desìo, lascia perdere le porcate dei supermercati - sfregandosi le mani congelate, l'ispettore richiuse la persiana che borbottò alla maniera di un ingranaggio arrugginito - I vicini, che ci hanno chiamati, avevano sentito delle urla verso le 19.00 e poi un odore strano del fumo che proveniva dal comignolo. Ma non hanno visto auto arrivare o andar via dalla strada principale. Le loro telecamere non sconfinano oltre la proprietà. - - C'è una cassaforte? - Maya si tolse la giacca di pelle. - Desìo, hai davvero tanto caldo? - - Sì. È un problema? - - Solo se è menopausa: sei troppo giovane. - Le sopracciglia pettinate si corrugarono, accentuando la ruga di espressione che le divideva: - La cassaforte, mi chiedevi? È nella stanza da letto, nell'armadio a muro, chiusa. Alle 9 verrà il fabbro. Abbiamo rintracciato i genitori. Ci parli tu? - - No, fai tu. Credo che andrò a farmi un doccia, poi torno - Maya strappò coi denti una pellicina dalle labbra. Fluì un rivolo di sangue: - Accidenti! Cerco un bagno - . - Non morirmi dissanguata. Comunque per me hai la febbre, e pure alta. - In bagno, uno specchio gigantesco rifletteva un lavandino in pregiato marmo rosa, su cui si ergeva un rubinetto impeccabile. Maya si buttò acqua sul viso e lasciò che colasse sul collo. La nausea strappava dalle viscere l'urto del vomito e gonfiava la gola. Gli occhi erano contornati da cerchi violacei, la bocca stuprata dal freddo e dalla furia degli incisivi. L'odore di bruciato era placato dalla lavanda, un fresco respiro che si dipanava da un cestino in vimini oberato di campioncini di profumo. Nel mezzo, vi si adagiava una benda di tessuto nero, su cui luccicava una scritta di strass: ‘Glemoù lounge 2013'. Aveva le estremità stropicciate, come fossero state annodate e in seguito fosse stato praticato con le mani un tentato stiraggio; la parte interna presentava un alone di trucco. Come una reliquia cui era stato assegnato il compito di tenere vivo un prezioso ricordo, Maya l'adagiò nello zaino e si incamminò sotto un cielo che prometteva la collera scrosciante di un temporale. La villa alle spalle scompariva nell' oscurità. Erano le 3.00 del mattino, di venerdì 13 gennaio.
Carmen Trigiante
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