Rapinatore a piedi.
La promessa originaria la feci la mattina che mia madre se ne andò via di casa con il gommista della Goodyear, da cui aveva fatto l'inversione delle gomme due settimane prima. Avevo undici anni e solennemente giurai a me stesso che non mi sarei mai e poi mai comperato una macchina. Mio padre invece acquistò per la prima volta una bottiglia di vodka, si ubriacò ed uscì nel freddo della notte a tagliare gli pneumatici di tutte le automobili parcheggiate nella strada; non valutando che così facendo, avrebbe intanto fatto un favore al suo rivale in amore. Finì in carcere, per quattro giorni, e quando ne uscì la prima cosa che fu costretto a fare fu quella di andare direttamente alla banca a stipulare il mutuo per i risarcimenti: mutuo che di fatto, lo avrebbe legato al suo lavoro di insegnante precario per i successivi quindici anni, distruggendone sul nascere il sogno di diventare uno degli sceneggiatori di Tornatore. Sette anni dopo, quella promessa la rinnovai, ampliandola. Il giorno in cui mio padre ritrovò l'amore tra le braccia di una poliziotta del terzo distretto, io giurai a me stesso che sarei diventato un delinquente (anche se fondamentalmente non ero interessato al genere) e già che c'ero, aggiornai la promessa iniziale aggiungendo la regola “non usare mai la macchina per fuggire dal luogo del delitto”. È così che è nato il mito dell'inafferrabile rapinatore a piedi, il ragazzo agile con il passamontagna che entra nei minimarket del padovano puntando la pistola afferra l'incasso e fa perdere le sue tracce nei vicoli circostanti nel giro di pochi minuti; facendo ammattire la polizia di mezzo Veneto. Sono inafferrabile, perché ho sempre studiato i miei assalti nei minimi dettagli Segno con dei gessi Maimeri, di colore ogni volta diverso, le vie di fuga prossime all'edificio in cui ha sede il mini market, privilegiando i percorsi poco battuti dalla gente in giro per compere, le scalinate in discesa e i vicoli a scarsa illuminazione. E faccio pochi colpi, a distanza di tempo lunga e variabile, assolutamente non necessari al sostentamento della mia banale e tranquilla vita di liceale dell'ultimo anno del Carlo Goldoni; la quale supporto invece economicamente dando ripetizioni di inglese e spagnolo agli studenti dei primi anni. A chi crede che l'adrenalina vada a mille in quei momenti, voglio dire che nel mio caso non succede. Tutto avviene molto tranquillamente, forse perché conservo sempre quella lucidità e quella freddezza che mi hanno regalato il soprannome di “Gelo” nella cerchia delle mie compagne di classe, ragazze a cui mai ho dato, anche per un attimo, parvenza di interesse amoroso. Non ho mai permesso che qualcosa andasse storto, che l'imprevisto si frapponesse anche solo per un attimo tra me e la realizzazione di una rapina. Ho sempre valutato con attenzione anche la miriade di telecamere di sicurezza che stanno rendendo insecretabile la nostra vita di tutti i giorni. E variato i travestimenti durante i sopralluoghi, di modo che nessun zelante ispettore potesse notare una presenza assidua di qualcuno nelle vicinanze del minimarket, qualche giorno prima del colpo. Ho impostato la mia vita sul controllo, sul rifiuto dell'imprevedibile e sul mantenimento delle promesse. Ma da qualche parte, nascosto nelle pieghe della nostra adattabilità alla vita, esiste un piccolo spazio, quasi un taglio, in cui la vita stessa riesce, nei momenti più impensati, ad iniettare il veleno della sua forza superiore. Perché di veleno mi sembra che si tratti. A me succede alle 16.45 di oggi pomeriggio, in questo momento, mentre punto la pistola contro la cassiera bionda e le intimo di versare i soldi nella busta di carta della Calzoleria Gianassi che ho appena recuperato in un bidone della spazzatura qui vicino. Non la vedo e non la sento, la signora anziana con il cappotto beige che a fatica sta rimettendo gli spiccioli dentro il suo consunto portamonete verde. Non la vedo e non la sento, le sono passato davanti senza osservarla nel momento in cui sono entrato. Non la vedo e non la sento, fino a quando non mi giro e i suoi occhi incrociano i miei. Allora al noto e la sento. - Te gà i stesi oci de tua mama, mona – Me lo dice avvicinandosi piano al mio viso. E mi tira un ceffone che a me sembra solo la prima carezza dopo tanto tempo.
Lutto
Non era stato semplice, all'inizio, durante i primi tentativi. Una scelta così radicale, dettata dalla necessità di non confrontarsi con nessuno e di lasciarsi andare stancamente alla deriva, per forza di cose non poteva essere troppo facilmente perseguibile. Aveva richiesto dedizione, attaccamento, sperimentazione, per arrivare ad un rinnovato incasellamento del dipanarsi giornaliero: fatto di distacco dalle abitudini, di camminate lungo le vie meno battute (testa china e passo lento) attenzione a non intralciare nessuno. E silenzio. Non chiedere, non sorridere, non dare adito, tacere. Niente giornali da comperare, niente colazione al bar, minima spesa nel piccolo supermarket dietro la piazza. Pagando sempre in contanti, senza chiedere borse di plastica, rifiutando i punti regalo con un lieve gesto di diniego della mano, mai ricaricando il telefono alla cassa. E poi lasciare la posta ad affacciarsi disordinatamente dalla cassetta, i panni stesi ad asciugare all'interno dell‘appartamento, la macchina parcheggiata quattro isolati più in là, con l'unico obbligo di ricordarsi di spostarla, la notte del terzo martedì del mese, in occasione della pulizia delle strade. Un lento dissolversi sparendo agli occhi della comunità. Fino a non farvi più parte, quella parte in fondo di contorno che aveva portato avanti nei sei mesi precedenti, prima che la perdita della moglie si facesse più sorda e meno lancinante, più completa ma meno sensibile alle sollecitazioni esterne. Non esserci, per incominciare. Non appartenere nemmeno più alle chiacchiere bonarie dei condòmini, al panorama raramente mutante degli anziani seduti sulle panchine o alla curiosità dei nuovi arrivati: desiderosi di sapere, capire, controllare. E successivamente, sparire del tutto. Alla vista attenta come a quella casuale, agli occhi indagatori e a quelli vaganti soprappensiero, alle orecchie in ascolto e a quelle confuse dalla ridondanza dei suoni. Rendersi invisibile: colore nei colori, silenzio nel silenzio, respiro nell'aria. Un venerdì di settembre, finalmente, si rese conto che gli sguardi lo attraversavano. Non solo non rimbalzavano sul suo completo stazzonato di color celeste, ma nemmeno vi scivolavano o lo aggiravano. Andavano via dritti, ad appoggiarsi su qualcosa alle sue spalle, senza che niente ne ostacolasse il percorso. Poteva addirittura guardare direttamente le persone negli occhi, senza che la sua immagine, anche appena percettibile, si disegnasse sulla loro retina. Oppure rimanere seduto al tavolino del bar anche per mezz'ora, prima che, titubante, una cameriera si avvicinasse stranita dal fatto di non essersi accorta del suo arrivo. E talvolta, da lì, anche andarsene senza pagare, lasciando la cassiera a riflettere su chi effettivamente avesse consumato quel cappuccino lasciato a metà al tavolino diciotto. La mattina che guardandosi allo specchio non si vide riflesso, capì che la sparizione era completata e non era più necessario mettere in atto tutta quella serie di strategie a cui si era precedentemente uniformato. Si sentì in qualche maniera libero: di uscire, guardarsi intorno, soffermarsi più a lungo sulle cose anziché concentrarsi sull'evitamento delle persone. Libero di camminare al passo che preferiva, nel tempo a disposizione, verso direzioni il più variabili possibile. Fece anche una giravolta su se stesso, allargò le braccia davanti ad una signora cinquantenne piena di pacchetti, sorrise al vigile che stava sistemando la multa sul cruscotto di una vecchia Panda: senza che nessuno si accorgesse minimamente di lui, senza che la sua immagine venisse restituita da una qualunque superficie riflettente. E anche se nel momento in cui si mise a piovere, in qualche maniera si spaventò del fatto che non sentiva le gocce d'acqua scivolare lungo il viso, si disse che stava bene, in questa solitudine sospesa, ancora appesa al dolore non cancellato. Qualche giorno dopo vide per la prima volta la sagoma. Sul muro di fronte al cinema ormai chiuso, incastrata tra una banale frase d'amore e la pubblicità di una palestra con sauna ed annessi. Solo il contorno di un uomo, apparentemente in attesa. Nessun volto, nessun accessorio. Si fermò a guardarla per qualche secondo e proseguì. Ma il giorno dopo, quasi inconsapevolmente, si fermò a fissarla per più di un minuto. Non vi fu mattina, da allora, in cui non passasse a dare un'occhiata, un saluto, un distratto sguardo alla ricerca di una consunzione o di un ampliamento. Che non si palesava. Si accorse che dalla panchina in fondo alla piazza, vicino al pretenzioso parco giochi fatto di uno scivolo e poco più, riusciva a tenere la sagoma sotto controllo. Per cui si risolse a passare delle lunghe ore lì, semplicemente stando, ad osservare la gente che passava, i bambini che giocavano, gli anziani o i ragazzini flirtanti che si sedevano inconsapevolmente al suo fianco. E intanto scopriva che nel nulla in cui era lentamente scivolato, vi erano ora insoliti spazi da riempire, feritoie in cui lasciare entrare senza patimento, varchi di non belligeranza con il mondo tutto. Giorno dopo giorno, a poco a poco: fino a questo preciso momento stralunato in cui un bambino gli si ferma davanti e prima di correre a giocare gli dice “Buona giornata Teo”. Allora di colpo Teo dirige lo sguardo verso il solito muro e scopre che la sagoma ora ha occhi, bocca, capelli. E mani, piedi ed un buffo cappello. E che tutto questo appartiene a lui. Un ragazzo con una bomboletta in mano si allontana. E a lui sembra che per un attimo si volti in un gesto di saluto. Oppure è solo un riverbero di luce. Forse è ora di ricominciare a ritirare la posta. Intanto.
Andrea Mitri
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|