Zahara
“Hai abbandonato il tuo Paese, i tuoi figli, i tuoi genitori, ed ora sei sempre in pena per loro. La notte ed ogni momento del giorno pensi sempre a loro. Non potrai mai essere felice lontano da loro e dalla tua terra. ”.
Zahara. Nome che evoca terre aride e riarse come il deserto che nel nord taglia il continente africano. Zahara, estirpata dalle sue radici e costretta ad attraversare quel mare subdolo e dorato. Lacrime più calde della sabbia arroventata avevano solcato la sua pelle liscia. Lacrime sprecate al vento che faceva piroettare granelli nel vano tentativo di offuscare il sole. Gocce d'acqua che non avrebbero donato alcun sollievo alla terra, e non avrebbero prodotto neanche miseri germogli isolati. Lacrime che semplicemente si univano ai suoni misteriosi creati dal vento, un canto disperato di berbere in lutto. Zahara, che come promesso dal nome datole alla nascita , era di una bellezza disarmante. E la sua avvenenza sarebbe stata anche la sua rovina. Zahara venne data in sposa poco più che bambina ad un uomo di quasi vent'anni più di lei, dal momento che la sua famiglia d'origine non possedeva mezzi sufficienti a mantenerla. Suo padre si era sentito rassicurato dalle promesse fatte dall'uomo che presto sarebbe convolato a nozze con la sua primogenita. La giovane non mostrò segni di turbamento quando le venne presentato il futuro marito. Sapeva che una brava figlia doveva obbedire. L'uomo aveva perso molti denti e quando le sorrise vide l'oscurità del cavo orale. Non si spaventò. Era consapevole di non appartenere a se stessa. Era figlia e presto sarebbe diventata moglie. Ogni suo passo, ogni suo pensiero sarebbero appartenuti ad altri. Ma una parte oscura, profonda, che abitava nelle sue viscere viveva di vita propria. Quella voce era stata messa a tacere molti anni addietro, quando bambina le avevano asportato la clitoride e tagliato con un rasoio le piccole labbra. Era stata soffocata, annientata. Così, quando un flebile richiamo aveva tentato di varcare i confini della sua anima per protestare contro suo padre che aveva permesso a suo fratello di studiare mentre a lei sarebbe toccato svolgere le faccende domestiche reclusa in casa, era stato prontamente ricacciato in profondità. Suo fratello avrebbe frequentato la scuola coranica e lei avrebbe raccolto le briciole. In quel momento una rabbia feroce l'aveva pervasa. Da dove arrivava quell'odio cieco? Che cosa voleva dirle? Era la voce. C'era ancora evidentemente. Ma non era stata estirpata per sempre? Per quale motivo viveva ancora? Riusciva a udirla chiaramente. Sembrava pronta ad esplodere. Da fioco alito a urlo roboante che spazza via le pareti e raggiunge l'oceano. Era inutile, non sarebbe servito. Zahara sapeva quale era il suo posto. Avrebbe cercato di carpire un po' di sapienza da suo fratello quando oziava a casa per le vacanze. Altro non le era concesso. La madre dispiaciuta per il turbamento della figlia le aveva sussurrato dolcemente: “Figlia mia, mia cara, non permettere che questo sentimento ti avveleni il sangue. Non siamo nate per fare l'imam. Lascia che siano gli uomini a predicare e combattere. Noi siamo nate per creare, il nostro utero è fatto per dare la vita. Dio ci ha fatte per questo. Gli uomini devono proteggere la nostra natura delicata. Presto anche tu potrai essere madre. Potrai stringere tra le braccia un dono del cielo. Questa è la maggior felicità per una donna. Noi diamo alla luce nuova vita. E dobbiamo portare la luce della gioia anche dentro casa. Cerca di dormire, vedrai che domani tutto ti apparirà come deve essere.” La donna aveva carezzato i capelli lucenti di Zahara che riflettevano il bagliore lunare proveniente dalla finestra. Poi, come se fosse stata consapevole di quell'intrusione, si era alzata per chiudere l'imposta. Allora la luna risentita se ne era andata a gettare i suoi raggi taumaturgici sulla chioma di un altro bambino. A quindici anni la ricoprirono d'oro. Un fragoroso tintinnio di bracciali annunciò il passaggio della sposa. Il velo e l'abito bianchi erano gli stessi di una qualunque giovane occidentale. Ma le mani erano ricoperte da un intreccio floreale all'hennè come da antica tradizione. E lo sguardo. Non aveva niente di gioioso. Era cupo e fiero. Zahara era stata preparata al martirio. Sua madre l'aveva addestrata come ogni figlia che si rispetti. Sarebbero state sacrificate tre capre per il banchetto degli invitati. Lei sarebbe stata la quarta. Come ogni giovane donna del suo Paese aveva timore del contatto con il futuro marito. Sarebbe stata riaperta la ferita, dopodiché sarebbe stato mostrato il sangue che denunciava la perdita della sua innocenza. Ma il dolore. Il dolore che sarebbe scaturito, sarebbe stato indicibile. Non poteva scordare l'immensa sofferenza dell'amputazione. Adesso l'avrebbe rivissuta ogni notte che il suo sposo avesse desiderato entrare nel suo corpo martoriato. E le notti, con o senza luna, sarebbero state molte, troppe. Non sapeva se augurarsi di rimanere presto incinta. Almeno per un po' di tempo non sarebbe stata toccata. Almeno non avrebbe udito il grido straziante della voce. Si sarebbe morsa a lungo le labbra per soffocarla. Forse stavolta sarebbe morta definitivamente. Fatima e Aisha arrivarono a breve distanza l'una dall'altra. Zahara aveva compiuto appena diciannove anni quando nacque la secondogenita. Disgrazia volle che si trattasse di due femmine. Doveva dare un erede maschio alla famiglia. Fortunatamente era ancora giovane. La gioia promessa dalla madre, però, non giunse mai. Suo marito aveva comprato un televisore e lei cercò di apprendere il più possibile da quell'apparecchio. Certo amava prendersi cura delle figlie, ma non riusciva a colmare la sua sete di conoscenza. Da suo fratello era riuscita ad imparare a leggere in arabo ma non riusciva a scriverlo, conosceva inoltre solo termini legati alla religione mentre avrebbe voluto apprendere molto di più. Se sua madre avesse saputo che guardava trasmissioni proibite l'avrebbe fatta castigare dal marito. Doveva essere cauta per non farsi scoprire. Le bambine per fortuna erano troppo piccole per capire ma presto non avrebbe più potuto guardare la televisione, sarebbe diventato troppo rischioso. La maggior parte del tempo lo trascorreva tra le mura domestiche. Si comportava egregiamente con il marito, non litigavano per alcunché. L'unico svago per Zahara, al di fuori dell'abitazione, era recarsi a trovare i genitori. Tuttavia accadeva di rado essendo pericoloso spostarsi per la città con le bambine. In Somalia la legge non era in mano al governo, che di fatto era troppo debole. Diverse fazioni desideravano il potere e spartire quel poco che c'era. All'epoca Al- Shabaab era il gruppo più temibile: fervente sostenitore della jihad e della sharia, era in possesso di vari campi di addestramento nel Sud del Paese e spesso riceveva finanziamenti dai pirati delle coste. Un fratello del padre di Zahara era un loro finanziatore e suo figlio un militante. Un venerdì, dopo la preghiera, Zahara si recò con le bambine dalla madre. Aveva voglia di vederla, era passato troppo tempo dall'ultima visita e la situazione in città appariva relativamente tranquilla. La madre la accolse con una grinza di sorriso. All'interno della piccola abitazione sedevano suo zio, suo cugino e degli sconosciuti. Gli ospiti stavano bevendo shah e conversavano con suo padre allegramente. Uno di loro si mise a fissare la nuova arrivata. Nuruddin non riusciva a toglierle gli occhi di dosso. Nelle sue scorribande non aveva mai avvistato una creatura di tale bellezza. Il padre di Zahara smise di ridere e si bloccò con il bicchiere a mezz'aria. Quell'uomo era pericoloso. Bisognava partecipare alle sue battute, non contraddirlo mai e mostrarsi il più possibile accondiscendenti. Non gli piaceva l'espressione avida che avevano assunto i suoi occhi quando era entrata la figlia. Dentro di sé pregò che la moglie la portasse al più presto nell'altra stanza. Zahara a capo basso si spostò come un'ombra dietro le sagome degli uomini per raggiungere la madre che le faceva cenno di seguirla. Il padre trasse un respiro di sollievo quando scomparve alla vista degli ospiti. La giovane si mise ad aiutare docilmente la madre senza chiedere chi fossero gli invitati, abituata a non immischiarsi negli affari degli uomini. Aisha si accontentava di essere cullata e allattata, Fatima invece voleva muoversi ed esplorare il nuovo territorio. Mentre le due donne discorrevano, la bimba più grande sgattaiolò nell'altra stanza e prese a saltellare, ignara di trovarsi al cospetto di terroristi. Quando la madre si accorse della sua assenza si precipitò nel salone. L'astuto Nuruddin aveva preso la bambina in braccio e gli lasciava trillare la barba. Zahara avvertì una fitta allo stomaco quando vide suo padre a disagio, ne dedusse che non si trattava di una banale visita di cortesia. Rivolgendosi al padre si scusò per il comportamento irriverente della figlia. “Fatima, mi ha detto che si chiama così. Piccina, è ora che torni dalla madre. Sei fortunato ad avere una così bella nipote e una figlia di così rara bellezza!” esclamò Nureddin rivolgendosi al padrone di casa mentre porgeva la bambina alla madre. Zahara non riuscì ad evitare lo sguardo dell'uomo che la trapassò violentemente. Sentì la sua bramosia come la fame di un leone che ha atteso a lungo la preda. Si affrettò a raggiungere la cucina per rimettersi ad aiutare la madre. Mentre sfaccendava si rese conto di avere addosso un insolito disagio. Attese che gli ospiti lasciassero l'abitazione prima di salutare i genitori e rientrare a sua volta a casa. Ma la sensazione non l'abbandonò. Dopo circa una settima dalla visita presso i genitori, un gruppo armato fece irruzione nel cuore della notte a casa di Zahara. Il marito cercò invano di difendere la moglie e le figlie. Ma aveva solo un bastone, non possedeva armi. Lo uccisero a sangue freddo. Due colpi nel ventre e il pover'uomo cadde al suolo come una sacca vuota. Zahara supplicava gli uomini: “Vi prego, non abbiamo oro, prendete i pochi soldi che abbiamo, sono in quel cassetto! Per carità, non toccate le bambine!” strappandosi i capelli invocava a gran voce pietà per le figlie. Ma nessuno corse in suo aiuto. Venne prelevata dall'abitazione con la forza, trascinata da braccia robuste di esseri senza volto. Fatima di soli tre anni teneva stretta a sé la sorellina di un anno. Non riusciva a smettere di urlare. Strillava a pieni polmoni l'unica parola che le usciva, ripetendola infinite volte: “Mammaaa!!!”. Aisha invece piangeva mesta. Zahara non riusciva a pensare a niente. Tutto era avvenuto in rapida successione. L'avevano prelevata in camicia da notte. Erano entrati in casa spalancando con un calcio la porta. Come era possibile che i vicini non si fossero resi conto di niente? Forse si erano ritirati per paura. Non c'erano altre spiegazioni. Il suo pensiero era rivolto ossessivamente alle bambine. Tentò invano di divincolarsi per tornare indietro ma era impossibile sfuggire alla stretta. Una volta fuori si rese conto che purtroppo anche la via era deserta. Non sarebbe servito a niente continuare a gridare. Nessuno sarebbe arrivato in suo soccorso. Le camionette della polizia sparivano sempre quando ce ne era bisogno. Gli uomini senza volto la condussero in silenzio sopra una jeep. Non era possibile vedere i loro tratti perché erano incappucciati. Solo una minuscola fessura nella stoffa lasciava intravedere gli occhi. Tra gli sguardi della notte più cupa riconobbe l'espressione di Nureddin, non aveva dubbi. Era lui. Era quell'essere immondo l'artefice della morte del marito. Quel criminale non era abituato ai rifiuti, considerava gli individui che gravitavano nella sua sfera come una sua proprietà. La legge era sotto di lui. Il sogno di Nureddin era infatti far cadere il fragile governo e stabilire il controllo su tutto il Paese. Nel frattempo si sarebbe impegnato a seminare il terrore in lungo e in largo. Tutti lo avrebbero rispettato e temuto. Se uccideva era sempre per una causa che lui riteneva giusta e suprema: il ripristino della sharia e delle antiche tradizioni, inshallah. I vetri della jeep erano oscurati da tende improvvisate: lembi di stoffa logori con fiori stampati color della terra dopo un acquazzone. Comunque Zahara non prestava attenzione al mondo fuori. Era troppo sconvolta. Non possedeva sufficiente lucidità. Tutto era offuscato nella sua mente. Riusciva solo a sentire l'eco della voce di Fatima che la chiamava, tuonava in ogni atomo del suo esile corpo scuotendola e facendola rabbrividire nonostante la calura. Dopo un tempo che poteva essere un minuto come un anno, la sollevarono e la condussero fuori dal veicolo. Chissà se c'era la luna a rischiarare il paesaggio. Zahara non l'avrebbe ricordato. Tutto le appariva avvolto dalle tenebre, anche lo stanzone rischiarato dalla tremula luce delle candele. Ma l'immagine degli occhi corvini e impauriti di donne tenute in cattività come bestie le sarebbe rimasta addosso per sempre. Erano sguardi colmi di terrore e impotenza. Con una spinta la fecero sedere accanto a una ragazza accovacciata sul pavimento. La porta si richiuse pesantemente. Dopodiché si udirono dei passi allontanarsi. Poi più niente. Solo silenzio. Non c'erano vento o rumori di animali notturni. Solo un silenzio irreale e inquietante. Zahara attendeva che le chiedessero qualcosa, ma le giovani tacevano, probabilmente rassegnate al loro destino. Lei doveva tornare dalle figlie. Non sapeva come, ma avrebbe utilizzato qualsiasi mezzo. Quella notte pregò a lungo. E la voce si risvegliò. Non era morta, non ancora.
Alessandra Solina
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