Avevamo terminato da poco la cena, quando Roberto prese a parlare di Giacomo e del mio rapporto con lui. Mi pose tante domande, cercai di rispondere con calma, senza fornire spunti per discussioni o polemiche. Ma la mia attenzione non bastò: dopo pochi attimi cominciò ad alzare il tono di voce, a mostrare un'espressione aspra, contrita. Prese a fare paragoni tra la mia e la sua storia precedente, a trovare da ridire su tanti miei comportamenti. Indagò poi sul mio passato più remoto, relativo a fasi molto lontane della mia vita. Era un commissario di polizia che raccoglieva indizi, li catalogava e analizzava secondo il suo personale giudizio, senza tener in alcun conto i tanti aspetti della mia vita di allora che gli narravo, i miei vissuti infantili e adolescenziali, le scelte adottate e subìte, gli eventi traumatici della mia esistenza, la mia bassa autostima e l'insicurezza, che si traduceva in un bisogno patologico di conferme da parte di chi amavo. Di tutto questo ero ben consapevole grazie a una psicoterapia intrapresa molti anni prima, che mi aveva consentito di focalizzarmi sui passaggi difficili e dolorosi del rapporto con i miei genitori, le mie sorelle e mio fratello e poi con il mondo esterno. Cercai di trasmettergli i miei bisogni, le mie paure, i miei limiti, riconoscendo gli errori commessi, motivandoli tuttavia di volta in volta con le ragioni che ne erano state alla base dentro di me. Come sempre, agivo verso di lui in buonafede, mantenendo la più assoluta sincerità e non censurando gli argomenti. Dovetti a un certo punto prendere atto che, quello che credevo essere un dialogo tra due persone che si amano, si era trasformato in un vero e proprio interrogatorio, con tanto di lampada puntata negli occhi. Quando evidentemente decise di aver raccolto abbastanza dati contro di me, esplose. Balzò in piedi, batté un pugno sul tavolo, cominciando a urlare: - Tu sei una puttana! Una grandissima puttana! È inutile che infarcisci i tuoi racconti con tanti aspetti di sofferenza e traumi, non mi freghi! Sei solo un'egoista che vuole scoparsi tutti quelli che le capitano a tiro e crede di aver trovato in me il fesso che ci casca! Come l'hai fatto ad Amsterdam lo rifarai ancora e ancora! Con tutti i libri che hai letto, non hai capito un cazzo della vita e degli uomini! Tu mi hai perso, tra noi non potrà esserci più nulla. Non mi fido di te, ho fatto bene a mantenere alte le mie difese! Sei solo una piccola provinciale, una piccolo-borghese che agisce come i preti, che predicano bene e razzolano male! D'altronde, me lo hai detto appena ci siamo conosciuti: gli esseri umani sono promiscui, pronti al tradimento, vogliono solo fare sesso! E tu me l'hai dimostrato ad Amsterdam! E non venirmi a dire che poi me l'hai confessato, per lavarti la coscienza! Ti piaceva tornare dal fesso e fingere di cospargerti il capo di cenere, tanto il fesso ti avrebbe perdonata! Invece non ti perdono, grande puttana che non sei altro! Sei solo un'opportunista, pensi solo a te stessa, agisci sempre con grande scorrettezza! Sei anche una grande bugiarda: ti nascondi dietro la tua falsa sincerità, ma chi mi dice che non mi nascondi chissà quali infamie? Sei priva di empatia, non sai immedesimarti nei miei stati d'animo, nelle sofferenze e nei tradimenti che ho dovuto affrontare nella mia vita! Domani torneremo a casa e poi non voglio vederti mai più! Se mi ha abbandonato mia madre, chiunque può farlo, figuriamoci dopo l'esperienza con Mary come posso più credere in una donna! Ma non aspetterò che sia tu a lasciarmi, quando ti sarai stancata di me, che mi consideri solo uno stallone! No, sono io a lasciarti! Ringraziami che ti riporto a casa, poi non voglio più saperne di te! Mi hai distrutto la vita, non meriti niente!. La terra che trema sotto i piedi, si spacca, movimenti sussultori e ondulatori, panico, dolore, vertigini, vuoto, senso di colpa. La sensazione di star vivendo ancora una volta un incubo, il bisogno di svegliarmi e scoprire che la realtà è ben migliore, diversa, positiva. Nulla, non mi risvegliavo. Era quella l'atroce realtà. M'imposi calma e tolleranza, cercai di mantenere un tono di voce pacato, ma non mi permetteva di parlare, mi sovrastava con la sua possanza fisica, con le sue urla, con la sua ira. Continuava a battere il pugno sul tavolo, ad avvicinarsi minaccioso al mio volto gridando offese e insulti, guardandomi con odio. Tentai a lungo, aspettando una sua pausa per cercare di farlo ragionare, calmare, per poter spiegare le mie ragioni, per dirgli che mai avevo voluto fare solo sesso nella mia vita e che, come tutti, avevo commesso i miei errori in passato, ma che lui non aveva il diritto di giudicare la mia vita, perché il mio passato era solo mio, lui non esisteva prima, non poteva sapere com'ero, cosa provassi, con quali disagi dovessi convivere. Provai anche a dirgli che io non mi ero mai permessa di giudicare il suo passato, durante il quale mi aveva raccontato di essere stato un dongiovanni, di aver avuto più donne contemporaneamente, di aver tradito, di aver abbandonato. Mai avevo pronunciato alcuna parola di biasimo, né mi ero mai appigliata a motivazioni moralistiche, avevo anzi sempre capito e mai condannato. Ma non m'ascoltava, inveiva contro di me senza il minimo senso della reciprocità: lui aveva il diritto di aver fatto tutto quanto aveva fatto, io ero solo una grande puttana. E come mi permettevo di paragonarmi a lui, uomo di mondo, io che ero solo una povera piccola donna che credeva di saper psicanalizzare gli altri, mentre non era in grado di farlo neanche con sé stessa? Scoppiai a piangere, ero disperata. Oramai le sue urla mi giungevano ovattate, distorte, quasi un'eco. Mi sentivo finita, sconfitta, incompresa, sola come non mai. Mi alzai, me ne andai in bagno, cercando inutilmente di calmarmi. Mi raggiunse, spalancò la porta, mi urlò altri insulti, altre accuse. Quando uscii dal bagno, sembrava esser preso dalla spossatezza della sua sfuriata. Taceva, con un'espressione torva sul volto, si muoveva a scatti, sbattendo tutti gli oggetti. Provai a chiedergli se voleva venire a letto: – Non ci voglio stare vicino a te. Dormo sul divano. Tentai di convincerlo, non ci fu nulla da fare. Mi misi a letto, consapevole che avrei passato una delle peggiori notti della mia vita. Provavo un dolore sordo, un senso completo di disorientamento. Mi chiedevo quali e quante fossero le mie colpe verso di lui, di quali infamie mi fossi macchiata. Da quando avevo lasciato Giacomo, non c'era stata una sola volta in cui non fossi stata onesta e sincera con lui, in cui non mi fossi dedicata a lui con tutto il cuore e l'amore che avevo. Certo, l'episodio di Amsterdam faceva male anche a me, ma perché all'epoca non aveva detto nulla e aveva lasciato cadere l'argomento? Avevo riconosciuto la mia colpa, gliel'avevo confessata io, dimostrandogli quanto fossi pentita, lasciando subito l'altro e comportandomi, da allora in poi, alla luce del sole. Non c'era null'altro che desiderassi, se non di essere felice con lui, che invece mi colpevolizzava a distanza di tre mesi e soprattutto metteva in discussione tutta me stessa, la mia vita, le mie scelte. Essere impossibilitata a dialogare con lui, a fargli capire che non ero come lui si ostinava a vedermi, che ero un'altra donna da quando lui era entrato nella mia vita e che le sue frasi e i suoi continui riferimenti e paragoni con Mary (paragoni che, da parte mia non facevo mai con Giacomo) mi ferivano nell'animo, mi incutevano preoccupazione e gelosia. Se avessi adottato il suo stesso metro di valutazione, avrei potuto affermare che lui continuava a sentire e probabilmente a vedere Mary, che mantenesse ancora, insomma, un rapporto segreto con lei. Ma non volevo accettare un'ipotesi così nefasta, credevo alle sue parole, quando mi diceva che, se ne parlava spesso, era per la rabbia che ancora si portava dentro per le cattiverie e i tradimenti subìti e non perché avesse ancora dei sentimenti per lei. Perché dunque io credevo in lui, malgrado tutto, ma lui non credeva minimamente in me? Cosa c'era di così terribile e malvagio in me da assicurargli quelle devastanti certezze sul mio conto? Non era evidente, come tutti coloro che ci circondavano avevano più volte affermato, che l'amavo immensamente, che vivevo di e per lui? Come tante volte m'era accaduto durante l'infanzia, quando pensavo: “Mia madre ha detto o fatto questo. Ma mia madre non può sbagliare. Quindi sono io quella sbagliata”, anche ora mi sovveniva la stessa, amara, considerazione: ero io che non andavo, che ero colpevole di soprusi, inganni e crudeltà. Ero io, quella sbagliata. Lui era il mio amore e, se vedeva questo in me, doveva esserci del vero. Solo che io non me ne rendevo conto. Perché, come diceva lui, ero opportunista ed egoista, incapace di valutarmi oggettivamente per quel poco che ero. Cercai almeno di rilassare il corpo, di ritrovare un minimo di calma a letto. Dopo pochi minuti, riprese a urlare: – Sei un'egocentrica, concentri tutta l'attenzione su te stessa, te ne sbatti i coglioni di me! Come ho fatto ad amarti, a non capire che sei solo una puttana, come tutte le donne del mondo? Continuò a inveire senza sosta, vomitando insulti di ogni tipo. Di tanto in tanto m'accusava anche di arroganza e presunzione, visto che non gli rispondevo. Paradosso nel paradosso: m'impediva di parlare, di esprimermi, per poi accusarmi di ignorarlo. Andai in bagno, gli passai vicino, allora urlò ancora più forte, con gli occhi iniettati di collera. Presi due batuffoli di cotone, l'infilai nelle orecchie, sperando di riuscire almeno in minima parte ad attutire le sue grida. Ora la sua voce alterata mi arrivava filtrata dall'ovatta, senza per questo non farmi comprendere tutto ciò che mi urlava contro. Passarono ore con questa tortura. Riusciva a trovare sempre nuovi appellativi offensivi nei miei confronti, mentre tesseva le sue lodi, e a infangarmi con ogni epiteto, a inventarsi nuovi inganni che avrei perpetrato contro di lui. A notte alta, distrutto, finalmente tacque. Si gettò sul divano, si rivoltò a lungo, alla fine crollò. Sentii il suo respiro più profondo, capii che dormiva, sebbene fosse un sonno molto agitato. Cercai di calmarmi un po', ma la testa era in fiamme, mi aggredivano senza tregua tutti i suoi insulti, le cattiverie gratuite e le accuse che mi aveva rivolto. Ero in un terrificante, buio labirinto, senza speranza di riuscire a trovare l'uscita. In balia di lui. Forse, all'alba, mi addormentai per un paio d'ore. Sonno popolato da incubi. Mi svegliai di soprassalto, lui dormiva ancora. Mi alzai, andai velocemente in bagno, mi vestii. Avevo bisogno d'aria. Quando stavo per aprire la porta del camper e far scendere la scaletta elettronica per uscire, mi chiese con voce astiosa: – Dove credi di andare? – Ho bisogno di prendere aria, di camminare un po'. – Ma dove vuoi andare? Qui intorno non c'è niente, solo campagna. E poi non vedi che piove? Portati almeno l'ombrello. C'era tuttavia qualcosa di diverso nel suo tono, rispetto alla sera e alla notte. In parte, s'era un po' calmato, gli era sbollita la rabbia più acuta. Presi l'ombrello e uscii. L'aria era umida e pungente, la mancanza di sole rendeva cupo il paesaggio. Ma la cupezza era soprattutto dentro di me. Avrei voluto potermene andar via senza tornare, ma ero in una situazione complicata. Non avevo idea di dove fossimo esattamente, né quanto distasse il più vicino centro abitato, dove prendere un bus e raggiungere una stazione ferroviaria. Non c'era nessuno a cui chiedere informazioni e inoltre avevo tutto il mio bagaglio a bordo del camper. Camminai a lungo tra campi di grano e vigneti bagnati dalla pioggia, finché mi ritrovai in una piccola radura. Mi poggiai a un muretto spossata, avevo bisogno di parlare con qualcuno. Chiamai Teresa, la persona che meglio poteva capirmi. Mi rispose subito, credeva che la mia fosse una spensierata telefonata per comunicarle quanto fosse bello il nostro viaggio, quanto stessimo bene insieme, ma, appena sentì la mia voce, mi chiese preoccupata: – Cosa succede? Hai una voce... State bene? – Ieri sera ho vissuto l'inferno. Presi a raccontarle l'accaduto. Era incredula, sbalordita. Fino al giorno prima le avevo trasmesso con i miei messaggi e tante foto tutta la gioia che provavo, quanto fosse magico l'itinerario che stavamo percorrendo e ora le passavo una sofferenza così acuta. Mi suggerì di mantenere la calma, aggiungendo che forse la cosa migliore era di tornare subito. Le spiegai che ero in un luogo in cui ero impossibilitata ad agire da sola, ma che avrei aderito immediatamente alla volontà di Roberto di chiudere lì il viaggio e tornare a casa. Ero in preda a una profonda confusione e uno sconforto infinito. Vedevo solo nero davanti a me. La salutai con la promessa di farle sapere presto, in un modo o nell'altro, come andassero le cose. Tornai al camper con la morte nel cuore, non sapevo cosa avrei trovato, ma certamente m'aspettavo altre aggressioni, nuovi improperi e minacce. Trovai la caffettiera sul fuoco, la tavola imbandita per la colazione, un mazzolino di fiori in un vasetto. Cercò di sorridermi, mi chiese come stessi e se mi andasse di fare colazione. Pian piano provò a parlare del più e del meno, scusandosi per aver perso il controllo e dispiacendosi per le cattiverie espresse. Ero interdetta. Dunque non pensava ciò che tanto brutalmente m'aveva urlato per ore? Era pentito? S'era accorto di avermi messo in profonda crisi, di avermi ferita ingiustamente? [...]Ero davvero devastata, oramai priva di forze e di speranze. Ero vittima di una serie infinita di paradossi, incongruenze, falsificazioni. Avevo un muro invalicabile davanti a me, un nemico che voleva distruggermi, un individuo ostile al mio modo di essere, al fatto stesso che esistessi. Mi lasciai condurre al ristorante, spossata fino a sentirmi svenire. Nulla più contava, se era questo ciò che Roberto pensava di me. Un senso di profondo fallimento mi assalì sempre più prepotentemente, avvertivo dentro un dolore sordo, un senso d'impotenza pari a quello che si prova durante un incubo, quando si vorrebbe muoversi, parlare, correre, ma si è come paralizzati. La barriera d'incomunicabilità che aveva erto tra noi era insuperabile, impermeabile a qualsiasi tentativo. Cenammo nel più assoluto silenzio, intervallato qua e là da un sussurrato: – Sei una puttana, una puttana colta, ma pur sempre una puttana. Usciti dal ristorante, gli prese una nuova crisi di rabbia. Voleva lasciarmi lì. Mi avviai a piedi, alla ricerca di qualcuno a cui chiedere informazioni per ritrovare il B&B. Dopo qualche minuto mi raggiunse con l'auto, m'aprì bruscamente lo sportello, intimandomi un duro: – Sali. Riprese subito a urlare frasi del tipo “Mi hai distrutto la vita”, “Non vali niente”, “Sei solo una puttana”. Tacqui fino all'arrivo al B&B. Lì cercai per l'ennesima volta di dialogare con lui, di fargli recuperare un pizzico di ragionevolezza, ma senza esito. Scoppiò a piangere, dicendo che, se l'aveva abbandonato sua madre, era logico che lo facessi anch'io, che nessuna donna al mondo meritava la sua fiducia, che non avrebbe voluto vedermi mai più, una volta tornati a casa. Disperata, presi il cellulare e bloccai Giacomo con un'apposita applicazione, dicendogli che tanto non me ne importava nulla di stare in contatto con lui, che lo stavo definitivamente bloccando. Sperai che questo lo risollevasse, gli restituisse un minimo di tregua, gli dimostrasse la mia ferma volontà di vederlo sereno. Reagì malissimo, insinuando che lo stavo facendo “fesso e contento”, che tanto, una volta tornati a casa, l'avrei sbloccato e ripreso la mia tresca con lui. Alla fine, distrutta, scesi dalla macchina, salii su e bussai alla porta del gestore. Gli chiesi se avesse una camera libera, me la confermò accanto alla nostra, che mi feci aprire per prendere ciò che mi occorreva per la notte per poi andarmene nella stanza attigua. In pochi minuti ero a letto, ben consapevole che avrei trascorso una nuova notte da incubo. Dopo pochi minuti lo sentii arrivare, parlare col gestore, chiedergli evidentemente se aveva mie notizie. Poi sentii la camera accanto aprirsi e richiudersi. Non chiusi occhio, quella notte, rigirandomi nel letto con un tormento e una disperazione ancora più forti delle volte precedenti. Piansi a lungo, sommessamente. Poi mi assalì una crisi d'asma con forte tosse (di base provocata dalla mia allergia, ma nei momenti di forte tensione come quelli totalmente psicosomatica), ma senza avere con me alcun farmaco per calmarla. Mi ritrovai all'alba a pezzi nel corpo e nell'anima. Di primo mattino Roberto bussò alla mia camera, mi alzai per aprirgli, rimettendomi poi a letto subito, visto che non mi reggevo in piedi. Esordì dicendomi di avermi sentita tossire tutta la notte e aver capito che avevo una crisi d'asma. Mi chiese perché mi fossi fatta dare un'altra camera (domanda davvero pleonastica) e come stessi. Gli risposi: – Come mi vedi. Uno schifo. Si accomodò sulla poltroncina al lato del letto e, tempo dieci secondi, ricominciò a inveire sulla mia scorrettezza, inaffidabilità e cattiveria nei suoi confronti. Ormai non l'ascoltavo più. Come in Puglia e poi a Padula e altre volte a casa sua, anche in quel momento cercai di chiudere l'udito, per quanto fosse possibile. M'infilai completamente sotto il lenzuolo, cercando così di ovattare le sue grida. Dopo quasi un'ora di tortura, si alzò e uscì. Avevo deciso: mi sarei velocemente preparata e sarei andata via. Avrei anche lasciato il mio bagaglio lì, pur di non rivederlo. Ma dopo un po' tornò a bussare alla mia porta. Mi disse di essersi calmato e voler solo parlare con me, promettendomi che non si sarebbe fatto prendere ancora dall'ira. Il livello di adrenalina gli stava lentamente calando, si sentiva in colpa per come m'aveva trattata, per i suoi insulti e per avermi fatto star male tutta la notte.
Giulia Ventale
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