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Autore: Elisa Mantovani
Nictofobia Il Buio dell'Anima
Racconti Triller Horror
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Nictofobia Il Buio dell'Anima
Orchessa.

Deve essere pomeriggio. Il sole batte sul centro del tavolino: faceva lo stesso riflesso quando sono arrivato in questo posto assurdo anzi, quando lei mi ci ha portato.
Ho cercato di muovermi, e sono caduto con la sedia a cui sono legato, peggiorando solo le cose.
Deve avermi sollevato mentre dormivo perché, quando ho riaperto gli occhi, niente più pavimento sporco, niente più formiche: solo questo dannato riflesso del sole sul tavolino, e di lei nessuna traccia.
La cosa assurda è che non so chi sia: non la conosco!
Da quanto tempo sono in questo posto, possibile che nessuno mi cerchi?
Teresa, così gelosa da non lasciarmi solo nemmeno al bagno: possibile che non abbia smobilitato l'intera polizia per cercarmi?
La donna che mi ha portato qui dice di chiamarsi Rachele: anonima, sciatta, con un viso che sembra disegnato dalla mano di un bambino frettoloso.
Perché mi sta facendo questo?
Devo cercare di liberarmi, ma come?
Non ne posso più: mi ammalerò così, immerso nelle mie feci, nella mia urina.
Ho freddo, tanto anche, e fame.
Appena mi sono svegliato ho vomitato le poche cose che avevo mangiato per colazione... Era la colazione?
Sì, ricordo che stavo per andare al lavoro, lei che mi si avvicinava, mi chiedeva qualcosa. Le puzzava il fiato: questo lo ricordo benissimo; poi ho sentito un dolore acuto al collo, come se una vespa mi avesse punto.
Non era una vespa: era l'ago di una siringa, che ho intravisto troppo tardi. Mi sono sentito subito mancare, non ho avuto nemmeno il tempo di reagire.
Deve avermi caricato sulla sua di macchina, e portato qui.
Adesso ho una fame incredibile; non pensavo che mi tornasse, non in una situazione così allucinante.
Tutto questo finirà: sì, mi verranno a cercare.

***
Rachele canticchia.
Nessuno immagina ciò che ha fatto, perché non è che un'ombra, una sorta di fantasma costretto a vagare tra i vivi. Giorgio non si ricorda di lei, di quante volte si erano incrociati nel bar che frequentava prima di andare al lavoro.
Aveva preso a seguirlo, sapeva tutto di lui: impiegato in una ditta di telefonia, la compagna, con cui conviveva e usciva solitamente al sabato e alla domenica. Usciva solo con lei.
Rachele a smesso di prendere le medicine, non fanno che intontirla e basta: adesso invece si sente libera, finalmente.
Pensa a quanto sia stata brava nel trovare il posto perfetto per il suo Amore, un luogo in cui nessuno andrà a cercarlo: la casa dell'Orco.
Lei la conosce bene invece, perché in quella casa ci era nata. L'Orco era suo padre, un diavolo scappato da uno squarcio dell'Inferno.
“Sono passati otto giorni: quanto tempo ci vorrà prima che si innamori?”, sussurra fra se e se.
Si allunga sul divano e si assopisce, immaginando quanto sarà bello il momento in cui lui le dirà:
“Ti amo Rachele!”.

***
“Perché?” continua a ripetere Giorgio, mentre lei sistema la sportina sul tavolo.
Rachele non parla, e la cosa lo atterrisce.
La fissa, con i polsi che gli mandano fitte lancinanti, lo stomaco ridotto a un sassolino.
“Chi sei? Cosa vuoi da me?” continua, la voce impastata dallo sfinimento.
Gli si avvicina con un piatto di plastica tra le mani.
L'odore del cibo gli provoca una nausea istantanea, ma deve mangiare.
Lo imbocca, facendogli cadere grumi di pasta e sugo sulla maglietta; gli fa bere acqua gelida, che piomba nello stomaco come un pugno.
“Ti prego, lasciami andare. Non ti ho fatto niente, non so nemmeno chi tu sia!” le dice singhiozzando.
Lei lo guarda, impassibile, poi torna al tavolo.
“Per questo: perché non mi hai mai fatto niente, nemmeno un saluto. Adesso sai chi sono, sai che senza di me non puoi vivere... Lo sai vero?” Le ultime parole le grida.
Giorgio rimane a bocca aperta, sporca di sugo e saliva rappresa. La vede sorridere, vorrebbe dirle qualcosa, ma cosa?
Cosa dire a una psicopatica per farle capire quanto stia sbagliando?
Non può dire nulla, anche perché sente la testa pesante, i pensieri sfilacciarsi non appena cerca di dare loro una forma.
Rachele lo osserva, mentre il capo inizia a ciondolargli sul petto.
Pensa che, quando sarà il momento, gli farà un bel bagno: lo faranno insieme, avvolti da una nube di schiuma profumata.
Esce. Chiudendo alla meno peggio la porta marcia della casa abbandonata, con il cuore gonfio di speranza e l'animo più leggero che mai.

***
Devo avere la febbre alta.
Non riesco a scaldarmi, se non quando inzuppo i vestiti con i miei stessi liquami ma, poi, è ancora peggio.
Ho gridato così tanto che ho perso la voce; mi fanno male la gola e gli occhi, non riesco a tenerli aperti se non per pochi minuti.
La testa mi pulsa, la nausea non mi dà tregua: mi sembra di impazzire!
Ho i polsi martoriati da queste maledette corde... sono corde? So solo che, ad ogni minimo movimento, sento la pelle lacerarsi sempre di più.
Cosa vuole da me?
Dio; fa che mi svegli, che sia un incubo, ti prego!

***
Rachele guarda fuori dalla finestra il vento che sferza gli alberi.
“Forse avrei dovuto lasciargli una coperta”, pensa: inizia a fare freddo, e sono quattro giorni che non va da lui.
Suo padre le aveva insegnato che con la sofferenza e la privazione anche il più potente degli uomini diventava fragile, come un ramoscello; lei lo aveva provato sulla sua pelle il significato di quelle parole: sa che per non soffrire bisogna sottostare al più forte e lei, adesso, è la più forte.
Giorgio lo imparerà e lo accetterà, ne è convinta.

***
La puzza è atroce: la sente ancora prima di entrare.
Gli ha portato una coperta di pile: lo ama, non vuole che si ammali.
“Aiutami ti prego!” riesce a sussurrarle; è ridotto male: il viso smagrito, gli occhi circondati da occhiaie nerastre.
“Lo sto facendo.” Gli dice, e gli sistema la coperta sul petto.
Trema, sicuramente ha la febbre. Sotto la sedia un ammasso putrescente ha quasi raggiunto i piedi, saldamente legati alla sedia.
La sedia ha un buco: glielo ha fatto lei, come ha fatto un buco nei pantaloni e nelle mutande per permettergli di espletare le funzioni corporee, lo stesso trattamento che le riservava suo padre, quando la puniva.
Va al tavolo: gli ha portato del pollo arrosto, che ha comprato due giorni prima.
“Basta” biascica Giorgio.
“Dipende tutto da te!” gli risponde.
Non riesce nemmeno a capire quello che stia dicendo; l'unica cosa che riesce a razionalizzare è la libertà, la sua vita che adesso sembra un ricordo sfocato.
“Questione di tempo e ti piegherai alla forza del mio amore!” continua la donna, poi riprende a tagliare il pollo, mentre lui inizia a piangere.
Rachele si avvicina.
Giorgio alza la testa dolorante, la guarda, e cerca di sorriderle.
Lei se ne accorge, rimane un attimo perplessa, poi accosta la forchetta carica di cibo alla sua bocca.
Lui continua a sorridere.
La fissa, e i suoi occhi sembrano velarsi di lacrime; Brutta stronza, è questo che vuoi, pensa. Sente il cuore battergli sempre più forte: deve assolutamente sfruttare quel momento.
“Grazie!” dice con dolcezza: uno sforzo che lo spossa quasi quanto un conato di vomito.
Rachele rimane con la forchetta sospesa: anche il suo cuore ha preso a scalpitare, sente le guance incendiarsi dall'emozione.
“Io ti amo Teresa!” esclama lui, e due grosse lacrime gli scendono sulle guance scavate: non si rende conto del nome che ha pronunciato, la sua mente è ottenebrata dalla disperazione.
Si ritrova con la faccia sul pavimento.
Sente tutte le ossa scricchiolare; un dolore sordo, lancinante gli attraversa il corpo facendolo urlare: lo ha gettato a terra, la sedia che gli preme addosso come un soffocante carapace.
Davanti al volto contorto dalla sofferenza, sente il suo alito mefitico, che riesce a sovrastare il miasma che lo infetta.
“IO SONO RACHELE!” gli urla in faccia

Elisa Mantovani

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