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Autore: Carlotta Camilla Macario
Il peccato del primo quarto di luna
Thriller psicologico
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Il peccato del primo quarto di luna
Rebecca.

Era ormai passato del tempo da quando un dado rosso le aveva indicato una nuova strada da percorrere.

Rebecca aveva deciso di affidare i suoi sogni alla sorte: che fosse già inscritta nel destino o fosse vittima di un flusso imprevedibile, per lei la vita dipendeva quasi esclusivamente dal caso. Aveva da sempre creduto che tutto attorno a lei fosse una combinazione fortuita di elementi pressoché incontrollabili.
Dove sarebbe finita dopo il liceo classico?
Non avrebbe avuto troppa importanza: ovunque, purché lontano da quel che era e soprattutto da quel che era stata.
E il suo dado rosso non si sbagliava mai.
Era però certa che avrebbe studiato Architettura: l'affascinavano soprattutto le costruzioni degli antichi, così possenti da sopravvivere anche per secoli ai loro artefici. Gli edifici, per lei, assomigliavano in un certo senso all'eternità.
Durante quella sera stellata, dopo l'esame di maturità, mentre si trovava nella soffitta della sua casa ad Arezzo, aveva preso in mano il suo vecchio dado rosso che da tempo custodiva come un amuleto e che portava ogni giorno con sé: l'aveva da sempre aiutata a scegliere. Dopo aver assegnato ad ogni faccia dell'oggetto una città diversa, da cui ricominciare a vivere, lo aveva lanciato sul pavimento di legno grezzo.
Il piccolo oggetto era rotolato per circa un metro e prima di fermarsi aveva fatto un breve giro su se stesso, un po' come se il destino fosse stato insicuro e avesse cambiato idea all'ultimo istante.
Torino: i sei puntini bianchi le avevano indicato la patria della Mole Antonelliana e del Gianduiotto.
Rebecca si era innamorata dal primo giorno di quella città graziosa e un po' malinconica, incorniciata dalle Alpi, bagnata dal Po, culla ispiratrice degli artisti e misterioso incontro esoterico tra magia bianca e magia nera.
Dall'alto della Mole aveva ammirato le strade regolari e gli edifici impeccabili del capoluogo piemontese. L'aveva trovato educato e composto, ma vi aveva percepito uno strano lato ambiguo tra le sue mura ed era forse proprio questa sua particolarità ad attrarla: era come se Torino nascondesse un segreto oscuro, dietro a quella perfezione rigorosa, qualcosa di incomprensibile e inconfessabile.
Forse amava quella città perché la trovava così simile a lei...

Filippo.

Si sentiva schiacciato dal cielo: un'immensa e fastidiosa massa nera e pesante.

Non c'era traccia di pioggia, ma quelle nuvole massicce e cupe sembravano voler soffocare le stelle; l'atmosfera era arida e statica, solo smossa leggermente da un venticello mite ma anch'esso asfissiante.

Filippo si era da tempo convinto che la condizione esistenziale perfetta dovesse risiedere nell'ebrezza. Baudelaire aveva ragione: la vita andava soltanto assaporata in uno stato di lieve incoscienza, senza mai prendere tutto troppo sul serio.

Bisognava rimanere un po' più in là rispetto alla realtà del Tempo. Ubriachi.

Quella sera aveva finito l'erba e aveva deciso di buttarsi su un prato incolto a settecento metri di dislivello: non avrebbe avuto senso proseguire in alta quota, dovendo rinunciare a sentirsi leggero come l'aria.

In una serata come quella tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno per tenere compagnia a quella sua triste ma necessaria solitudine sarebbe stata una montagna, un po' di birra, qualche canna, poco ossigeno e la luna.

La luna: era soffocata, come tutto il resto, da quegli enormi nuvoloni insidiosi ed era la sua mancanza a rendere tutto ancora più fastidioso e opprimente.

Rebecca

Si era appena regalata una doccia rinfrescante, dopo un'interminabile giornata trascorsa sui libri di Scienze delle Costruzioni.
Prima di vestirsi si fermò a guardare la sua immagine riflessa sul gigantesco specchio della sala da bagno: gli occhi dolci da cerbiatto circondati da ciglia folte e nere, la bocca rossa a forma di cuore, i capelli castani che le scendevano ondulati sulle spalle sottili ma forti, la vita stretta che preannunciava dei fianchi rotondi e sinuosi, gambe sottili ed eleganti.
Alcuni le avevano detto che era come se fosse stata dipinta da un bravo artista: non sembrava esserci nulla di imperfetto nel suo corpo, nemmeno una piccola disarmonia. Eppure lei sapeva che quel pittore aveva commesso un piccolo errore: un incisivo storto verso la guancia destra.
Quel dente rappresentava la sua salvezza.
Rebecca amava tutto ciò che creasse scompiglio, mettesse in disordine o fuggisse agli schemi. Amava i puzzle incompleti, i vasi rotti. Odiava essere considerata perfetta: la sua bellezza non risiedeva nei suoi lineamenti armoniosi, ma tutta in quel dente storto di cui probabilmente nessuno aveva mai fatto caso, se non il suo dentista.
‹‹Diamine! È tardissimo!›› bisbigliò tra sé preoccupata. Si vestì il più velocemente possibile: era rimasta sotto la doccia per quasi mezz'ora e il suo ragazzo la stava aspettando in salotto, da molto di più.
Stava bene: adorava Torino e amava Lucio, un ragazzo stupendo con una chioma nera e riccia che profumava di felicità.
Quando uscì dal bagno sentì squillare il suo cellulare. Fu Lucio a passarglielo, mentre lei stava goffamente cercando di sollevare sopra le orecchie l'asciugamano di seta che aveva appena avvolto attorno ai capelli bagnati, per poter rispondere alla chiamata.
‹‹Ciao mamma.››
‹‹Rebecca, ho una brutta notizia. Ti ricordi Carlo di Borgata Fiorita? Il cugino primo di tua nonna Ada?››
‹‹Si, beh? È forse morto?›› In realtà non aveva minimamente idea di chi fosse.
‹‹Lo hai saputo da tuo padre?›› continuò la voce femminile, sorpresa.
‹‹No, ma mi parlate dei parenti della borgata soltanto quando ne schiatta... cioè... ne viene a mancare uno.››
‹‹Proprio così. Dobbiamo tornare lì per il funerale.››
‹‹Mi dispiace!›› Rebecca tagliò corto distratta, già pronta a chiudere la chiamata e ad afferrare l'asciugamano attorno ai capelli che stava scivolando via.
‹‹Dovrai venire anche tu.››

18 marzo 2009
Borgata Fiorita

I loro genitori erano finalmente riusciti ad aggiustare il vecchio sistema di riscaldamento. Fortunatamente a novembre era bastata la stufa di ghisa della cucina a riscaldare la loro casetta di pietra, ma non sarebbe stata più sufficiente a dicembre: quell'inverno sarebbe stato gelido.
Erano sole, davanti alla zuppa che la loro mamma aveva preparato per pranzo, ma che entrambe non avrebbero mangiato.
‹‹Non è successo niente, hai capito? Devi dimenticare tutto.››
La piccola Livia non rispose. Non parlava da giorni.
‹‹Devi scordare quello che hai visto! Fallo per la nostra famiglia. Se dirai qualcosa non avremo nemmeno più i soldi per mangiare e tanto meno per scaldarci.›› Matilde stava cercando di convincere la sorellina ad ascoltarla, ma non riusciva a smettere di piangere. Era pallida come uno spettro e aveva gli occhi gonfi e circondati da aloni rosso sangue.
Livia però, continuava a guardarla, immobile, con la stessa espressione vuota e interrogativa che aveva ormai da tempo.
‹‹Non devi dire nulla ai nostri genitori!›› ribadì ancora, osservando il ritratto di famiglia appeso al muro. ‹‹E non comportarti in modo strano. Torna a sorridere e a cantare le tue filastrocche... ti supplico.››
La piccola, solo quel punto, annuì silenziosa.
‹‹Il mio sacrificio ci proteggerà da lui e quando sarò più grande saremo tutti liberi. Mi vendicherò. Promesso.››

Rebecca

Era ormai da cinque minuti che stava fissando il piatto di riso venere sul tavolo di metallo, senza dire una parola. Non aveva appetito, ma si sentiva in colpa: Lucio si era impegnato così tanto a preparare quella cena e non avrebbe voluto deluderlo per nessun motivo.
Patrizia, la ragazza con cui Rebecca condivideva un piccolo appartamento in centro, le aveva lasciato la casa libera; avrebbe così potuto festeggiare, sola con Lucio, il loro primo anno insieme. Sarebbe stato tutto perfetto, ma il suo umore era pessimo.
La telefonata di sua madre l'aveva colta di sorpresa: come poteva obbligarla a tornare, dopo anni, in quel posto sperduto tra le montagne che tanto la inquietava?
Si staccò violentemente una pellicina dal pollice, con un morso.

Quello era il luogo in cui era nata, in cui aveva vissuto fino ai sette anni, il luogo che apparteneva alla vita che aveva dimenticato.
Il luogo in cui era morta.
Sono nata due volte e con la mia prima vita non voglio averci nulla a che fare.

‹‹Non sei obbligata a tornarci!›› Lucio la guardò, sgranando i suoi grandi occhi neri teneramente. ‹‹E non sei nemmeno costretta a mangiare il riso!›› continuò, togliendole il piatto da davanti.
Rebecca alzò lentamente lo sguardo. ‹‹Scusami... è che...›› non terminò la frase, Lucio le prese una mano. ‹‹Troviamo una soluzione domani, adesso baciami.››
La ragazza gli accennò, a quel punto, un sorriso flebile e fece sfiorare leggermente le labbra sulle sue. Lo amava: amava la fossetta che gli si formava sulla guancia sinistra e le sue mani calde, ma amava ancor di più la dolcezza e l'apprensione che le riservava. Da mesi, si era resa conto che era l'unica persona in grado di farla sentire importante ed era anche la sola capace di regalarle un affetto così smisurato: con lui si sentiva un po' più integra.
‹‹Prima ridammi il mio riso! Chi ti ha dato il permesso di togliermelo!›› Sorrise di più e immerse il viso nei capelli ricci e scompigliati di quel ragazzo che credeva di amare.

La bambina girava su se stessa nella stanza ovale, forse per imitare i pivot di una ballerina; era goffa. Attorno a lei giacevano immobili decine di statue di marmo dagli occhi vitrei che sembravano osservarla e maledirla per qualcosa che avrebbe fatto.
Sullo sfondo, una parete a scacchi bianco e nera si avvicinava insidiosa alla piccola... sempre di più, ma lei continuava a sollevare incurante il vestitino azzurro di tulle che indossava come fosse un tutù e danzava. I suoi capelli corvini e lisci svolazzavano indomiti.
La felicità risiedeva tutta nei suoi occhioni innocenti e stonava con la tristezza e l'inquietudine che la circondava.
Si sentì, ad un tratto, una musica allegra e un po' stonata di un pianoforte che iniziò ad accompagnare i movimenti scoordinati della piccola.
Una finestra grande giaceva in mezzo alla stanza, fuori trionfava un bel sole, ma dentro era tutto scuro.
Un attimo dopo si aprì una porta di legno che prima non c'era; tutto divenne buio e l'atmosfera ancora più opprimente e spaventosa. La musica cessò di suonare, la bambina sparì nel nulla, con la sua felicità.

Soffoco...

Rebecca voleva urlare, ma qualcuno la teneva stretta e non le permetteva di respirare.
‹‹Va tutto bene! Tranquilla! Ci sono io.››
Si accorse di essere nel letto della sua stanza, tra le braccia di Lucio.
La sveglia segnava le cinque e quattro minuti.
‹‹È il solito incubo?›› le chiese il ragazzo, con una voce che sembrò cercare di rendere il più possibile rassicurante. Lei però non riuscì a rispondere, le lacrime incominciarono a scenderle freneticamente sul viso. Si sentì improvvisamente lo stomaco esplodere e tutto il corpo precipitare in una voragine.
Uno, due, tre... respira... dieci minuti e passerà, passerà tutto.
Si riaddormentò, quasi subito, sfinita.

Filippo

Era la terza volta consecutiva che faceva cadere in buca soltanto la biglia bianca. Il gioco del biliardo non faceva per lui ed era evidente che al suo migliore amico piacesse vincere facile.
‹‹Fil, hai proprio problemi a fare centro. Povere le tue donne! Se vogliono consolarsi mandale da me.›› Giacomo, che tutti chiamavano Jack, lo prendeva sempre in giro, ma sapeva bene che Filippo con le ragazze non avrebbe mai avuto problemi. E non erano soltanto la bellezza ammaliante, il carisma o l'intelligenza a renderlo così intrigante, la sua più abile arma di seduzione inconsapevole era quell'alone di mistero che lo attorniava, quella pacata riservatezza che lo rendeva irresistibile.
A Filippo non interessava farsi notare, né farsi conoscere, eppure più sfuggiva ogni cosa e più il mondo femminile sembrava rincorrerlo e volerlo conquistare.
‹‹Dai Fil! Ti ho stracciato un'altra volta! Torniamo a Borgata Fiorita che al Rose Pub c'è la serata latina!›› Giacomo era bello e solare, ma Filippo era un'altra storia. Già ai tempi del liceo nessuna ragazza si era mai vantata di essere riuscita a passare del tempo con il ragazzo più affascinante della scuola e anche se qualcuna lo avesse fatto, non sarebbe stata presa sul serio.
Era passato ormai qualche anno, ma la storia non era cambiata e Filippo sembrava sempre più irraggiungibile.
‹‹Io vado a casa, domani mi sveglio presto, niente Rose Pub.››
‹‹Mi deludi!››
‹‹Buona serata Jack. Non rimorchiare troppo, mi raccomando!›› Filippo si congedò frettolosamente, mentre il suo amico stava ancora sistemando l'asta del bigliardo contro il muro della sala giochi.
Prima di uscire dalla porta principale, si sistemò il ciuffo ribelle biondo che gli cadeva sempre sugli occhi: verdissimi e sottili ma luminosi come due lampadine. Aveva uno sguardo profondo da mettere addirittura soggezione, che però smorzava con un sorriso dolce e sbarazzino.
‹‹Non sono come te Fil, le ragazze non mi piovono addosso.››

Carlotta Camilla Macario

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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