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Autore: Mariano D'Angelo
Il bastardo
Romanzo
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Il bastardo
La notte era fredda sul monte Algido. Al chiarore della luna, la nebbia saliva dal vicino lago e alimentava le ombre, intorno e dentro gli uomini. Le volpi e gli altri animali erano fuggiti, infastiditi dalla presenza dell'esercito di Roma, nonostante fosse in silenzio.
Tra poco ci sarebbe stata una battaglia e tutti, benché a migliaia, erano soli ad affrontare la morte.
Nei pensieri di ognuno si affacciavano sentimenti difficili da dominare. Cercavano nei loro cuori la fiammella del coraggio, oscurata dal muro della paura. Qualcuno si sorprendeva a pensare alle cose che aveva trascurato, alla porta di casa con l'asse di legno da sostituire, al figlio lasciato a dormire senza un saluto. Altri progettavano già il futuro, quando tutto sarebbe finito.
Tra i Romani c'era un uomo taciturno, la cui audacia era quasi incoscienza, nonostante sembrasse quieto.
Il suo nome era Apollonio, ma tutti lo chiamavano Spurio per ricordargli sempre chi fosse: un bastardo. Figlio di un romano e di una greca, romano per legge, ma non bastava. Per questo era diventato un guerriero, per meritarsi il rispetto. Ed era uno tra i migliori combattenti, temuto dai nemici che non volevano incontrarlo e cercato dai compagni che lo volevano al proprio fianco. Ma non era sufficiente per essere considerato un vero romano.
(...) Il monte, quella notte, divenne la tomba di centinaia di uomini: non era possibile camminare senza calpestare cadaveri, mentre al buio gemevano e piangevano i feriti. I lamenti erano gli stessi di tutti gli uomini, Equi e Romani, e ti entravano dentro fino a scuotere l'anima e nessuno poteva rimanere indifferente, neanche Spurio, che pure aveva vissuto molte volte questa angoscia.
(...) Il viaggio di ritorno fu più lento, ma più leggero. I soldati ridevano felici dello scampato pericolo e lungo il cammino, a poche miglia dalla città, si accamparono, di modo che il giorno dopo avrebbero potuto varcare gloriosi le porte di Roma, tra grida di gioia e tripudio.
Già pregustavano il sesso facile di donne pagate e schiave obbligate.
Cincinnato aveva disposto che il bottino fosse distribuito tra i soldati che lo avevano seguito da Roma, accrescendo così l'amore che essi provavano per lui.
Spurio non volle nulla, invece. La sua ricompensa era ancora lontana.
Quella sera stessa un giovane romano, spinto dai suoi compagni di bevute, lo affrontò.
Non era la prima volta, né sarebbe stata l'ultima in cui avrebbero provato a fare la pelle al bastardo.
Il giovane era agile e forte e stupido. Spurio sapeva che il ragazzo non avrebbe avuto scampo e lo sapevano anche i suoi commilitoni più anziani e anche il comandante che da lontano osservava. Eppure nessuno di loro cercò di fermarlo, forse sperando in cuor proprio che prima o poi un giovane romano avrebbe dimostrato la superiorità della sua razza.
Ma non quella volta.
(...) Era prossimo ad arrivare a casa e il silenzio che respirò gli tolse il fiato. Conosceva quel silenzio irreale, l'aveva già sentito quando era tornato a Morgantina e aveva visto il capo bianco della anziana madre sporcato da una insolente ciocca rossa sulla tempia. Poco più avanti giacevano il corpo svestito della giovane moglie e i cadaveri dei due figli profanati dai cani e dalle volpi.
Senza rendersene conto cominciò a correre, liberandosi di tutto ciò che aveva addosso.
Sullo steccato che divideva la strada di casa dall'orto, appollaiati come tre uccelli notturni, lo aspettavano tre militari. Avrebbe potuto ucciderli in pochi minuti, ma erano forti. Non possenti, forti, perché appartenevano a qualcuno che era intoccabile.
Lo avevano aspettato per comunicargli quanto era stato deciso mentre lui era in battaglia, a difendere l'onore di Roma. Era questo il compito, ma già che c'erano avevano pensato bene di svolgerlo a modo loro.
(...) Come era successo a Spurio prima della battaglia del monte Algido, allo stesso tempo, allo stesso modo, nel cuore di Roma un uomo si interrogava sul volere degli dei.
Una volta Claudio Cesare pensava che quella fosse la più bella ora della giornata, prima che il sole si facesse strada tra i lecci e gli olmi, prima che la città si svegliasse e riprendesse i suoi ritmi, i suoi rumori, la sua confusione.
Ma da quando aveva visto, di notte, gettare nel Tevere decine di corpi malati, non era più la bella ora che ricordava.
C'era stata un'altra notte che aveva segnato il suo rapporto con Roma: aveva 14 anni. Suo padre lo aveva portato in un lupanare. Avrebbero potuto soddisfarsi con tutte le schiave e liberte che frequentavano la sua ricca casa, ma decise che il figlio perdesse la verginità in un bordello lurido e frequentato dalla plebe.
Un servo gli aveva mostrato la strada.
Avevano percorso i vicoli bui, tra case sporche e fatiscenti come le persone che ci abitavano, per le quali Claudio sentiva crescere un odio profondo, che i loro sguardi avidi e miserabili non facevano che alimentare.
Arrivarono in uno slargo in terra battuta, dove c'era una vecchia locanda. Furono accolti da un uomo che salutò il servo con confidenza e attraversarono lo stanzone pieno di gente apparentemente indifferente.
Sul retro si apriva una stanza con sette nicchie, il regno di una donna senza denti, dagli abiti ricchi, che gestiva le prostitute.
Quel posto era scuro e puzzava di fumo, le donne alla luce fioca delle fiammelle sembravano degli animali deformi e gli uomini, in fila, bevevano e sputavano per terra. Qualcuno si menava già il pene, per non perdere tempo.
Provava ribrezzo e paura.
Aveva dovuto aspettare dietro la tenda che suo padre facesse i suoi comodi con la donna che aveva scelto; poi toccò a lui, ma non ebbe il permesso di chiudere la tenda. Il padre e il suo servo lo guardavano e si prendevano scherno di lui.
La donna era grassa e puzzava di umori, ma almeno cercava di non mettergli fretta e con pazienza gli manovrava il membro. Quando le sembrò che fosse quasi pronto si sdraiò e se lo infilò nel sesso gonfio e molle, restando sdraiata mentre lui era in piedi tra le sue cosce.
Quella notte perse la sua verginità due volte, la prima con la donna, la seconda quando uccise il servo che aveva riso di lui.
Pagarono la ruffiana che fece gettare il corpo in un canale, mentre suo padre si complimentava con il figlio mostrandosi fastidiosamente compiaciuto.
Il grido di un venditore lo distolse dai suoi pensieri, annunciandogli che il giorno stava cominciando. Si incamminò verso il Senato, seguito in disparte da due servi pronti a dare la vita per difenderlo, se fosse stato necessario.
A pochi passi dal Senato lo aspettava Tito Marzio, per mettere in atto il piano concordato.
Marzio era il più giovane di una dinastia importante e fiera, ma la sua condotta dissoluta e il vizio del gioco lo stavano lentamente portando a dissipare tutto. Non era così facile distruggere un patrimonio economico e sociale come il suo, ma lui ce la stava mettendo tutta e ci stava riuscendo. Claudio conosceva le sue debolezze e sapeva come approfittarsene, sollecitando l'aiuto spontaneo del giovane patrizio. Aveva pagato i suoi debiti di gioco e Marzio gliene era riconoscente. Quello che non sapeva è che gli uomini con cui perdeva i suoi soldi al gioco erano alle dipendenze di Claudio, che onorando i suoi debiti di gioco, in realtà, pagava se stesso, comprandolo gratuitamente.
Questo era il campo di battaglia di Claudio, non meno insidioso di quello su cui i Romani affrontavano gli Equi e guardavano in faccia la morte. Si muoveva abilmente in quell'ambiente corrotto, tra amici e nemici che combattevano senza insegne. Quelle voci che parlavano di libertà, di gloria e onore, dicevano in realtà di terre, profitti e denari, e lui lo sapeva. Ma questa consapevolezza non gli creava alcun problema: tra le oscure trame che intessevano i rapporti tra i potenti di Roma, si sentiva perfettamente a suo agio.
Tutto a Roma si poteva comprare, e niente poteva essere negato ad uno come lui, ricco, influente e di nobile stirpe.
Ma come su un campo di battaglia, ogni debolezza, ogni piccolo passo falso avrebbe costituito l'inizio della fine, forse proprio per mano di un uomo come Marzio, che poco prima lo aveva lodato.
Per questo non poteva tollerare il rifiuto di Licia, figlia di Spurio e di Domitilla: non era concepibile che una come lei – nata da un bastardo e da una donna ripudiata dalla propria famiglia – respingesse le lusinghe di uno come lui.
Perfino le offerte generose di terre e denari con cui aveva cercato di convincerla non avevano sortito alcun effetto.
Ma oggi l'amico Marzio avrebbe giurato davanti agli dei che Licia era sua schiava, togliendole così ogni diritto. E nessuno avrebbe potuto contraddirlo.
Non certo Spurio, impegnato in battaglia contro gli Equi e magari morto prima di sera, se solo gli dei avessero accolto le sue preghiere.
Non certo Domitilla, prigioniera di quattro dei dieci uomini mandati dallo stesso Marzio a rapire Licia.

Mariano D'Angelo

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