Avere le ali. Giorno primo.
– Ho una molta fretta – dice l'uomo di mezza età, picchiettando con le nocche sul bancone piazzato nell'atrio dell'albergo “Maristella”, all'estrema periferia di Noli, così lontano dal mare che la pensione finisce per avere una clientela davvero atipica per una località balneare; una clientela fatta, ad esempio, da rappresentanti di commercio o da lavoratori in trasferta, ossia da gente che, anche se Noli è un gioiello di borgo marinaro, passa per la Riviera senza badare ai colori del golfo, e se l'afrore del salmastro non si sente molto, pensa che sia anche meglio. – Ho una molta fretta – ripete l'uomo di mezza età, rivolto al titolare della pensione che cerca di ammansirlo con brevi sorrisi, alzando ogni tanto lo sguardo mentre sbriga le poche formalità necessarie per affittargli una camera “spaziata e con un panorama il più open air, come diciamo qui? Aperto? Ecco, più aperto possibile”. L'uomo di mezza età ha un profilo che sembra scolpito nella pietra e porta in testa un copricapo d'altri tempi, simile ai Borsalino che si vedono nei film americani degli anni cinquanta, in testa ai poliziotti in borghese che indagano sulla mafia di “Broccolino”. Ha modi gentili, eppure nel timbro della voce c'è una sfumatura algida, che fa perdere subito la voglia di replicare. Sembra uno di quegli insetti dai colori sgargianti che si rendono ben visibili per tenere i nemici alla larga. Il titolare della pensione ha capito immediatamente di aver davanti un americano. Ma se avesse maggiore esperienza sui toni che può assumere la lingua, a seconda del colore che le conferiscono i casi della vita, avrebbe compreso ancor meglio di avere a che fare con un italo americano. Di quelli che negli Stati Uniti ci sono arrivati da giovani e poi, anche se hanno mantenuto i contatti con le proprie origini, si sono integrati bene e hanno assorbito gli accenti locali, e insieme a questi il modo di vivere e pensare. L'uomo, dunque, non ha imparato discretamente l'italiano, come pensa il signor Ferdinando mentre trascrive i dati del passaporto sul registro dell'albergo; piuttosto, si può dire che l'italiano lo ha moderatamente dimenticato. Del resto, al signor Ferdinando non è d'aiuto quel nome, David Fairbank, che sta copiando sul registro, e se sapesse che in effetti l'uomo si chiama Franco “Frank” Giorgelli, capirebbe anche il perché dell'intercalare “come diciamo qui?” che il tizio usa spontaneamente, in prima persona, perché propriamente straniero non si sente. Frank Giorgelli guarda con fastidio l'uomo in livrea che continua a sfogliare stupidamente il suo passaporto. Gli fa perdere solo del tempo, con il suo rigirare tra le mani il documento. Nemmeno fosse in grado di accorgersi che è fasullo! Invece, non c'è proprio alcuna possibilità che se ne accorga, perché il passaporto lo ha esibito un mucchio di volte, da quando ha lasciato Denver, e lo ha messo sotto il naso a gente che di documenti ne vede migliaia, tutti i giorni. Se un documento falso è fatto con passione, resta difficile anche per gli esperti accorgersi delle differenze. In carcere, s'incontra gente capace di realizzare con amore le cose più impensate. – Venga che l'accompagno nella sua stanza – dice finalmente l'albergatore, e lo fa scandendo un po' troppo le parole, come si fa con un bambino scemo, tanto che a Frank la cosa comincia a dar fastidio. Salgono al terzo piano della palazzina, utilizzando un ascensore che procede tra una miriade di vibrazioni. L'albergatore continua a rifilargli sorrisi di circostanza, un po' imbarazzato in quei pochi secondi di viaggio, quando non si sa cosa dire e i silenzi sembrano scortesi. Frank stringe la maniglia della sua grossa borsa da viaggio, che per nessun motivo ha voluto cedere alla guida.
La stanza è meno banale ed anonima di quanto Frank avesse temuto, ed è anche molto più grande. Inoltre, nella parete opposta a quella d'ingresso si apre una finestra affacciata su un bel tratto della costa ligure. Il mare si vede molto da lontano, ma s'intuisce facilmente, al confine della striscia azzurra del cielo e prima che inizi la macchia più grigia delle case. Particolari trascurabili per molti clienti, non per un ex internato in un carcere di massima sicurezza.
Ogni tanto, Frank si sveglia di soprassalto, nel cuore della notte, e non fosse per la piccola lampada che lascia accesa sul comodino, gli verrebbe da gridare disperato, in preda all'incubo di trovarsi ancora nella sua “0037, secondo livello, braccio terzo” di tre metri per tre e sessanta.
Quando l'albergatore lo lascia solo, l'italo americano svuota con cura la sua valigia munita di combinazione. L'ordine: ecco una cosa che, in galera, finisci per imparare senza rendertene conto. In basso, i calzini con gli slip; nel cassetto sopra, pantaloni e cinture; ancora più in alto, camice cravatte e maglie. La pistola no, l'arma va lasciata nella valigia, chiusa a chiave nell'armadio sotto le giacche. La chiave la nasconde nella cassetta di scarico del wc. Meglio non lasciare niente, alla portata dei curiosi. Soprattutto, considerando che l'arma non è un giocattolo da autodifesa, ma una Heckler & Koch MK23 dotata di silenziatore, e non sarebbe facile dare certe spiegazioni ad un agente italiano. Qui, i poliziotti sono così diffidenti!
Frank è arrivato a Noli da non più di tre ore e spera che questa sia l'ultima tappa del suo viaggio in Italia. Lui che nemmeno si ricordava più come fosse fatta l'Italia e come fosse la gente e quali profumi e colori e suoni ci fossero per le strade del suo Paese natale, in sei settimane ha compiuto un itinerario di duemilacinquecento chilometri, tanto casuale da ricordare una caccia al tesoro. È sbarcato all'aeroporto di Milano dopo un volo di quasi dodici ore e nella città lombarda è rimasto nove giorni, stordito da tutto quel movimento e dalla frenesia della gente per le strade, ma anche dall'architettura della metropoli. A Denver, gli italiani li chiamano ancora “pizza and spaghetti” così anche lui, quando pensava all'Italia, s'immaginava un'unica sterminata fattoria, affollata di massaie che tirano la sfoglia sull'aia per fare le tagliatelle e di mariti che tornano dai campi con la zappa sulle spalle e hanno voglia di ballare una tarantella prima di mettersi a tavola. Invece, si è trovato davanti a delle vetrine che nemmeno a New York si riescono a vedere ed è passato sotto grattacieli modernissimi, forse meno arditi di quelli americani, ma sicuramente meno tetri. Però, la pizza l'ha provata davvero, nei ristoranti di Milano, più buona di tutte le imitazioni che ha mangiato negli States e ancora più buona di quanto gli raccontava sua madre, almeno fino a quando era stata in grado di andare a trovarlo, una volta ogni mese, nel parlatorio del carcere. Sua madre, sì, era davvero italiana. Ha ritrovato il suo volto nei lineamenti di tante delle donne che ha incontrato e l'ha rivista nel modo di camminare e di muovere le mani delle ragazze toscane, che erano poi le sue conterranee. Frank, a Milano, è arrivato con tre fotografie nella borsa. La prima è una vecchia stampa in tonalità di grigi, realizzata più di trent'anni prima, eppure incredibilmente nitida, perché è stata scattata nello studio di un fotografo di Baltimora, con le luci giuste e la posa ricercata, quasi artistica. La seconda non ha più di quattro anni ed è a colori. Eppure, poiché chi l'ha realizzata non aveva ambizioni da professionista, il risultato è non più che decente. Nell'inquadratura, abbastanza azzeccata, si vede un gruppo d'amici, schierati in doppia fila contro una parete azzurra. Ma la definizione è bassa e i volti si riconoscono appena. L'ultima è l'ingrandimento di un particolare della precedente. L'uomo ritratto in primo piano, per lo sgranarsi dell'immagine, potrebbe essere chiunque. Quasi. Frank infila le tre fotografie nella tasca interna della sua giacca leggera e scende al piano terreno. Al bancone della pensione, non trova più l'uomo mellifluo e sinceramente fastidioso, ma una ragazza di poco più di trenta anni, graziosa e delicata come solo una ragazza italiana può essere. Gli ricorda i ritratti dei pittori rinascimentali toscani, che ha ammirato cento volte nei libri d'arte presi in prestito dalla biblioteca del carcere. Profili dolci, apparentemente inermi, eppure tanto rassicuranti ed intensi che riuscivano a lenire la rabbia che sentiva dentro. La donna che è dietro il bancone ha i capelli che sembrano raccolti in una specie di treccia complicata. Invece, a guardare bene, ci si accorge che li ha portati semplicemente in alto, con gusto tutto femminile, e li ha bloccati con un fermaglio, ottenendo un effetto inatteso ed elegante. La ragazza gli sorride ed è un cenno spontaneo. Frank ha imparato a riconoscere i gesti genuini, più precisamente quelli non genuini, e lo ha fatto a sue spese. Contraccambia il sorriso, senza nemmeno doversi sforzare. Non gli è capitato troppe volte, negli ultimi due anni, e molto meno ancora nei ventisei precedenti.
Federico Maderno
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|