Un tumore al cervello e un anno di vita possono giustificare un sacco di cose. Anche una strage di consulenti finanziari. Erano loro che l'avevano rovinato, facendogli perdere i soldi, la famiglia, la salute. E la dignità.
Già da un po' di mesi Franco aveva dei forti mal di testa, ne era sempre andato soggetto, ma questi non rispondevano ai normali analgesici. Poi un giorno di inizio febbraio litigò al bar con Giuseppe, il cameriere, per un caffè che non gli pareva caldo. “Ma cosa dice, dottore, se è appena uscito dalla macchina! Mi faccia sentire”. Toccò la tazzina. “Ma se scotta anche la tazzina!” Franco bevve il suo moscio caffè e se ne andò. Ma a ora di pranzo, all'Abruzzese, la birra non gli parve fredda come il solito. Non disse nulla, terminò la sua consumazione e uscì. Ma l'indomani mattina si presentò al Pronto Soccorso dell'ospedale.
“Non è operabile.” Era già grosso come una noce, proprio lì, in mezzo alla sua testa. La risonanza magnetica era stata chiara, la biopsia spietata. Un glioblastoma al terzo stadio avanzato. Appena fosse entrato nel quarto stadio, l'ultimo, la sua espansione si sarebbe accelerata, si sarebbe infiltrato nelle zone circostanti e tutta la faccenda si sarebbe conclusa rapidamente. “Quanto tempo mi rimane?” “Se non fa niente, pochi mesi. Se fa la radioterapia, può arrivare a un anno.” “E che qualità di vita avrò?” “I dolori di testa saranno più frequenti e intensi. Continuerà a non sentire il caldo e il freddo e avrà continui sbalzi di umore. Potrebbe anche avere delle crisi epilettiche.” “E la radioterapia cosa comporta?” “In genere perdita dei capelli, e poi nausea e vomito. Potrebbe anche avere sensazioni di spossatezza.” “Quanto tempo ho per decidere?” “Prima lo fa, meglio è. Diciamo che se vogliamo provare a rallentare il tumore, dovremo cominciare la terapia al più tardi all'inizio di marzo.” Era il 20 febbraio 2014. Gli restava più o meno una settimana per decidere se tirarsi un colpo o se invece fare la radioterapia e poi il colpo tirarlo a quel maledetto che lo aveva rovinato. Perché tutto era partito da lì. Tumore compreso.
In realtà, le vicissitudini di Franco con i consulenti finanziari risalivano a molti anni prima, e avevano avuto vari protagonisti. C'era stato chi aveva provato a rovinarlo, ma non c'era riuscito, chi gli aveva inferto un primo terribile colpo e chi gli aveva dato il colpo di grazia finale. Si era trattato indifferentemente di consulenti bancari o di promotori finanziari. E non era successo solo a lui. Di moltissimi altri aveva sentito che erano stati rovinati da cinici operatori di quella bassa finanza. Franco aveva anche riflettuto a lungo sulla faccenda e aveva cominciato a capire. Era tutto il settore che non girava per il verso giusto. Al settore della consulenza finanziaria dovrebbero essere destinate solo persone con un certo profilo, cioè corrette, abili e competenti. Invece vi si può trovare un po' di tutto, gente cinica o perbene, competente o inesperta, abile o superficiale. Persone molto diverse, che però hanno tutte una cosa in comune, e cioè che per arrivare a fine mese devono sottostare alle direttive che gli vengono calate dall'alto. Come tutti. E allora il problema si sposta lì, nelle alte sfere, dove ti dicono che i clienti devi farli investire di più, dove ti danno come obiettivo di vendere questo o spingere quello. O di liberarti prima possibile di quell'altro, rifilandolo all'amato cliente. Che, per carità, ufficialmente resta sempre il loro idolo, basta leggere lo statuto societario o il codice etico, o dare un'occhiata alla loro pubblicità. Ora, puntare l'indice sui grandi capi potrebbe sembrare un'assoluzione, ma non lo è. Perché di operatori cinici, incompetenti e superficiali ce n'è comunque tanti, troppi. Tutta gente che ci mette anche del suo, per rovinarti. E ci riesce benissimo. I consulenti finanziari sono esposti tutto il giorno, tutti i giorni, al miracolo dei soldi che si moltiplicano, ti arricchiscono partendo da niente, o quasi. E questo produce effetti spesso devastanti. Così ci provano anche loro, e giocano in proprio, passando parte del loro tempo a cercare sui monitor il biglietto vincente. Quando poi pensano di averlo trovato, ci puntano sopra i soldi di famiglia, e siccome sanno di rischiare, hanno bisogno di sentirsi rassicurati. Allora ci sta pure che consiglino ai clienti il loro stesso investimento, così, giusto per convincersi della bontà della loro scelta. E quando poi succede il patatrac, giù tutti appassionatamente, loro e noi. Con la differenza che noi non c'entravamo un cazzo. Questo pensava Franco ed era difficile dargli torto. D'altronde, l'esperienza che lui si era fatta in proposito era avvenuta in un periodo molto significativo, fra il 2000 e il 2008. Dal crac dei titoli tecnologici al caso Lehman Brothers. Così non fu difficile per lui prendere quella importante decisione. Anzi, l'aveva deciso subito, davanti a quel responso che lo condannava, che si sarebbe vendicato. Lasciò comunque passare qualche giorno, poi telefonò e prenotò la radioterapia. Se aveva vissuto come un bambino viziato, almeno sarebbe morto da uomo. Facendogliela pagare. Franco Lofusco era un tipo controverso, a partire dal nome. “Ma allora, tu sei franco o fosco?” lo prendevano in giro le compagne di scuola. Poi nel modo di fare. Timido e impacciato, ma abile e intelligente, seduceva con una facilità incredibile. Che si trattasse di ragazze o, più tardi, clienti. Ma la sua prima vittima fu la madre, che lo viziò oltre ogni dire, litigando spesso con il marito, un ufficiale napoletano venuto al Nord per fare carriera, e diventato vice-comandante della Divisione Ariete. E controverso infine anche nell'aspetto. Alto, castano, occhi chiari, Franco appariva morbido e indolente. Di testa invece era veloce, pronto, sicuro. Una sicurezza che a volte lo rendeva perfino un po' troppo sbrigativo e superficiale. Liceo classico al Don Bosco, scienze politiche a Trieste, nel 1977 Franco fu assunto nell'ufficio pubblicità della Goryex a Spilimbergo, dove si mise in luce per capacità professionale e facilità di relazione. Per lavoro entrò lì in contatto con l'agenzia pubblicitaria J.Walter Thompson (JWT), che nel 1982 lo portò nella sua sede di Milano come direttore clienti. Ritornò a Pordenone nel 1987, a trentasei anni, e qui fondò una sua agenzia, la LF- Comm, in società con la moglie Patrizia Framarin, rampolla di una dinastia di notai. Era un uomo, ormai, aveva anche due figli, ma sembrava solo un ragazzino cresciuto.
Franco sapeva bene che promotori finanziari e consulenti bancari sono figure diverse. I primi sono professionisti al servizio di istituti finanziari (banche o SIM), operano in genere fuori sede, cioè vanno in casa dei clienti, e vengono remunerati a percentuale. I secondi, invece, sono veri e propri dipendenti delle banche e lavorano in uffici interni. Ma per lui erano entrambi pericolosi. I più corretti gli sembravano ancora i promotori, se non altro perché già nel nome dichiaravano la loro ambiguità, così che uno diffidente, se avesse voluto, avrebbe anche potuto cautelarsi. Sarebbe bastato chiedersi: promotori di cosa, o di chi? “Good question” dicono gli inglesi, gente concreta. Proprio in quel periodo aveva anche letto da qualche parte che nel corso dell'ultimo anno svariate decine di promotori erano stati radiati dall'albo professionale. Ma oltre a questi, si chiedeva Franco, quanti altri danneggiavano i clienti con comportamenti scorretti, anche se non sanzionabili? I consulenti bancari, invece, già con il nome ti suggerivano che erano lì apposta per consigliarti. E allora tu, complice una buona dose di ignoranza finanziaria, finivi per fidarti. Perché alla fine, in quello stramaledetto settore dovevi pur fidarti di qualcuno, se volevi investire i tuoi soldi. E invece anche loro erano manovrati e potevano fregarti, tanto quanto gli altri. Anzi, per lui erano perfino peggiori perché, visto che lo stipendio lo prendevano comunque, erano anche meno propensi a sbattersi per gli interessi del cliente. Era pur vero che negli ultimi anni almeno la categoria dei promotori aveva cercato di correre ai ripari, e rifarsi una verginità. La situazione era compromessa, la mancanza di credibilità causata dalla scarsa trasparenza e dai conflitti d'interesse stava mettendo in forse lo stesso sviluppo del settore. Così le istituzioni di categoria avevano cominciato a intervenire. La stessa CE si era fatta carico del problema e nel 2004 aveva emanato la famosa MIFID (direttiva per la tutela del cliente, entrata in vigore in Italia alla fine del 2007). Insomma sembrava che qualcosa si muovesse, ora che il danno era fatto e le vittime giacevano sul terreno. Ma c'era poi da fidarsi? Il lupo, si sa, perde il pelo... Quanti ancora sarebbero andati in malora, prima che le cose cambiassero veramente?
Sulla scia di quelle riflessioni Franco, che in un primo tempo aveva solo deciso di vendicarsi di quello che lo aveva rovinato, pensò: “Già che ci sono, perché non fare qualcosa per evitare che questo scempio si ripeta in futuro? E anziché morire come un cane, uscire di scena alla grande?” E pian piano, mentre i capelli cominciavano a cadergli a ciocche, prese ad accarezzare l'idea di passare da una vendetta personale a una crociata contro l'intera categoria. Avrebbe potuto rinforzare tutte quelle loro belle intenzioni con un piccolo promemoria personale, un deterrente contro la tentazione di possibili ricadute. Come giustiziare alcuni di loro che pagassero per quelle vecchie colpe. Questo però cambiava tutto. Doveva ipotizzare un dettagliato piano d'azione, per verificare se l'impresa era fattibile, se aveva un senso. Così, per prima cosa definì una serie di questioni basilari. Come ucciderli? Quale arma usare? Come far arrivare il suo messaggio? Come individuare le vittime? Quante operazioni prevedere e di che tipo? Dove compiere le operazioni? E quando? Come evitare di cadere nella rete delle indagini? Quanto tempo calcolare per l'impresa? Poi voce per voce trovò le risposte che gli servivano per mettere in atto quel folle progetto. Ne usciva un'impresa difficile e complessa. Lunga soprattutto, e lui di tempo ne aveva poco. Un anno, gli avevano detto. Trecentosessantacinque giorni. Quaranta però se n'erano già andati. E altri cento non sarebbero stati utilizzabili (finché il suo aspetto non fosse tornato normale). Per il suo piano restavano così solo duecentoventicinque giorni, che avrebbe dovuto utilizzare tutti, dal primo all'ultimo. Una sfida contro il tempo, sperando nel frattempo di non essere fregato da un ictus. Come dire, a morte piacendo. Era anche evidente che per non essere scoperto subito avrebbe dovuto tenere per ultima la sua vendetta. Si trattava di posticiparla alla fine dell'impresa. Il grande finale. Ma se la malattia avesse dato segni di accelerazione, avrebbe rivisto il piano, non voleva certo rinunciare a vendicarsi. Infine, quell'imprevisto cambio di prospettiva gli creava un altro grave problema, perché lui dopotutto aveva già cominciato a muoversi in una certa direzione. Quindi avrebbe dovuto fare dei pesanti aggiustamenti, con l'insorgere di inevitabili danni collaterali, ma quale guerra non ne aveva? L'importante era che la causa fosse giusta e lui su questo non aveva più dubbi. Verso le otto di mattina di venerdì 12 settembre, appena rientrato a casa dopo l'esecuzione di Roma, Franco si buttò sul divano. L'allentamento della tensione gli aveva fatto scoppiare un terribile mal di testa. Pareva che gli avessero messo il cranio fra le ganasce di una pressa e sentiva stringere, e stringere. E si mise a premere anche lui con le mani ai due lati della testa. Era insopportabile, e svenne. Per la prima volta. uando sentì le sirene delle volanti.
Giorgio Ronco
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