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Autore: Vittoria Iorio e Giano Vander
Try Again
Action Thriller
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Try Again
La gente non fa funzionare il cervello, questo è il guaio.
E finché sei un anonimo impiegato senza ambizioni la cosa può andare pure bene. Ma se aspiri a fare soldi, e a farlo illegalmente, devi trovare il modo di fregare i piedipiatti. Perché in tutto questo giro di mazzette e lerciume, loro non è che vengono a pizzicarti per gli affari di grossa portata, anche per paura di fare un torto a chi dà loro da mangiare, ma è sulle piccolezze che ti vengono a rompere le palle. Dettagli, quisquilie, ma che gli forniscono la scusa buona per fotterti.
Al Capone fu incriminato per evasione fiscale, non per associazione mafiosa; Berlusconi fu sputtanato definitivamente solo quando scoprirono il suo giro di prostituzione minorile.
Il segreto è tutto qui: mantenere un basso profilo. E questi del Jonathan Club o sono troppo stupidi per capirlo, o sono talmente idioti da voler giocare a fare gli impavidi a tutti i costi. Gliel'avrò detto centinaia di volte che quelle insegne al neon blu e rosse non si vedono più dagli anni ‘80, e che un locale che si presenta così non pare certo un caffè letterario agli occhi dello sbirro comune.
- Alla gente piacciono. Evidentemente tutti si sentono orfani degli anni ‘80 - mi risponde il negro all'ingresso. Julius, mi pare che si chiami. Mi ricorda il gigante galeotto di un film di Frank Darabont, ma non gliel'ho mai detto; i mangiacocomeri sono permalosi. Subito ti accusano di pensare che i negri siano tutti uguali, e per tutta risposta ti dicono che allora noi mediorientali siamo tutti terroristi, e non te ne esci più.
Con un cenno della testa lo saluto e entro. Solita routine. Quartetto jazz con fotocopia di Louis Prima al microfono, culi che servono drink da un tavolo all'altro, facce da galera che ti scrutano dalla testa ai piedi. Mi bastano pochi secondi per capire tutto di loro: da dove provengono, perché stanno lì e per cosa sono stati dentro. È sempre stata una mia dote; anche i colleghi alla centrale spesso mi chiedevano perché non avessi aspirato alla carriera da profiler invece di farmi venire le emorroidi davanti a un computer.
Mi avvicino al bancone del bar e ordino un analcolico, giusto per non tradire le mie origini che mi vogliono musulmano. Stasera c'è Valentina di turno.
Il che mi fa venire subito una gran voglia di bestemmiare, perché come prepara lei i cocktail non lo fa nessun altro. Desidero quel Black Russian che non ho più bevuto stamattina, e mi viene un prurito al collo. Non posso grattarmi, mi farei sgamare subito. Alla fine la barista mi prepara un bitter con lime e succo di ciliegia. Lo prendo e faccio finta di sorseggiarlo con gusto.
In verità mi sento un frocetto. Se in questo momento mi vedesse Teresa se ne uscirebbe per sempre dal poster.
Faccio un giro dei tavoli salutando leccaculo a destra e a manca. Sul palco, una sbarba con l'uniforme da scolaretta giapponese allieta la serata esibendosi in uno striptease che definire pacchiano sarebbe un eufemismo, eppure riscuote un certo successo tra i presenti, il che la dice lunga sulla loro caratura. Un grassone si alza e borbottando qualcosa di incomprensibile le infila alcune banconote di grosso taglio dentro quella che dovrebbe essere una mutandina; giro i tacchi, schifato.
Alcune ragazze del Jonathan mi si avvicinano con i loro sorrisi falsi, ammiccano. Femmine di bassa lega. È in momenti come questo che mi manchi, Gorgo. Per ammazzare il tempo mi avvio verso la sala giochi; la chiamano così, ma in realtà è una bisca bella e buona.
Tracanno il mio pseudococktail ed entro. I tre tavoli da biliardo sono tutti occupati; a quello più vicino all'ingresso ci sono degli ispanici, non so se messicani, portoricani o quale altra mondezza, sta di fatto che hanno trasformato la sala in una ciminiera; bevono e fumano a oltranza, nonostante il divieto. Mi avvicino a una slot machine e ci infilo una moneta; tentiamo la fortuna, per una volta. I rulli cominciano a girare, una minima speranza la nutro.
Manco il tempo di dirlo. Black out.
- Miguelito, que coño! - urla uno poco distante da me. Qualcuno rialza il contatore; la corrente ritorna, e con essa il casino di prima. Tutti continuano a bere, ad appestare la sala e a giocarsi la loro paga settimanale, come se nulla fosse. Io devo continuare a mantenere il profilo basso. Questi fottutissimi hijos de puta non sono capaci di risolvere le piccole questioni in maniera discreta. Fisso la macchina mangiasoldi; il display analogico mostra un'enorme scritta lampeggiante. INSERT COIN. Si vede che non era serata, dico a me stesso.
L'aria ormai è diventata irrespirabile. Esco da quel posto di merda e torno nella sala grande, e da dietro riconosco il pelo impomatato di Vinnie Castravelli. Mi avvicino a lui e lo saluto a bassa voce; lui col suo tipico fare da mangiaspaghetti urla il mio nome ad alta voce e mi saluta platealmente abbracciandomi e baciandomi. Mi lascia addosso sudore e odore di brillantina Linetti, poi mi invita a sedermi al tavolo con lui.
- Ti presento i miei amici, compa'! - , mi fa, orgoglioso; la sua voglia di ostentare ricchezza e fama è il suo punto debole, e cavargli da bocca i prossimi spostamenti di Manolito sarà un gioco da ragazzi.
- Vinnie bello, ti fai sempre più magro. Qual è il tuo segreto? - gli chiedo, sfoggiando un sorriso che più paraculo non si può.
- La fica, compa', la fica. Ogni sera una diversa. La mattina colazione all'italiana con pane, burro e marmellata e cappuccino tiepido; un po' di footing, poi pasta a pranzo, secondo e frutta per cena; e poi la sera almeno due ore di sesso, compa' - .
- O magari è Manolo che ti fa rigare dritto e ti leva l'appetito - , gli faccio. L'ho colpito nell'orgoglio. Italiani. Sono sempre convinti di essere superiori a tutto e tutti. Accusa il colpo.
- Ma vafanculo a mammeta, compa'. Io mica c'ho bisogno di lui per fare soldi. Che ti credi, che sono la sua puttana? - .
- Non mi permetterei mai, Vinnie. Bisogna imparare dai migliori, e tu sei il migliore. Da te ho tutto da imparare, se vorrai insegnarmi, - già gli si gonfia il petto - anzi, non immagini quanto ti invidio. Sempre circondato da gente importante, dalle donne più belle della Florida. Mi piacerebbe un giorno essere come te, ma non so se sarei all'altezza. Ecco perché vorrei avere l'onore di accompagnarti nei tuoi prossimi impegni; non ti chiedo di trascinarmi in affari grossi, so benissimo che arrivare a trattare con Don Ramon sarebbe troppo precoce. Ma giusto una cosuccia semplice per iniziare, per farmi le ossa - .
Lo vedo che cambia espressione. Non gli piace quello che gli ho detto, ma imperterrito vado avanti. Devo farlo.
- Pensavo al prossimo affare che hai con Manolito Ramirez... se solo potessi darmi la possibilità di incontrarlo al vostro prossimo appuntamento e presentarmelo, te ne sarei eternamente grato - .
Tace. Forse ha subodorato la fregatura, o forse le mie lusinghe gli stanno facendo partorire sogni di gloria.
Poi improvvisamente sorride, forse sono riuscito a infinocchiarlo. Il suo sorriso sfocia poi in una grassa risata. Riesco a vedergli l'otturazione al piombo su un premolare inferiore, tanto che ha la bocca spalancata. Mi sa che l'ho fregato. Rido anch'io per compiacerlo. Poi sento punzecchiarmi lo stomaco, sotto al tavolo. Mi basta un'occhiata per capire che la sua mano lardosa sta impugnando un coltello e me lo tiene puntato addosso.
Come non detto, m'ero sbagliato.
- Ma che minchia mi dici, compa'? Ti pensi forse che sono nato ieri? Te lo dico una sola volta: non cercare di metterlo dentro al culo a me, perché stai sbagliando completamente persona. Un altro al posto tuo a quest'ora sarebbe ridotto a un misto di frattaglie raccolto in cartone da imballaggio, ma a te voglio dare l'opportunità di fare retromarcia, perché c'hai l'aria di uno sveglio, Nidàlle, uno che capisce subito quando stare seduto al proprio posto e quando chiedere il permesso per andare a pisciare. Hai capito, compa'? - .
Lo guardo fisso negli occhi, poi annuisco. Lui molla la presa e si tranquillizza. ‘Sto mangiakebab di merda è arrivato fresco e tosto e pensa di farmi fesso, starà pensando. Mostra sicurezza di sé. Anche troppa. Mi sa che tra poco mi conviene alzarmi e andarmene, prima che ci ripensi.
- Ma quando minchia arriva ‘sta bottana? Le avevo chiesto un Martini e prosecco quindici minuti fa – particolarmente nervoso, lo vedo. Sarà stato il mio discorso su Manolo a farlo incazzare, probabilmente non voleva farlo sapere a nessuno – bah, meglio se nel frattempo mi fumo una sigaretta, va'. Che per caso c'hai da accendere, compa'? - .
L'accendino con le tette, quello col GPS. Ce l'ho nel taschino della giacca. E comincio a credere che Allah esiste. Lo tiro fuori e glielo porgo, lui appena lo vede spalanca gli occhi manco non vedesse una sorca dal dopoguerra.
- Hai capito il marocchino qua? Ti tratti bene eh? E questo me lo devo comprare pure io - .
Quando Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto.
- Vinnie, perdonami se ti ho mancato di rispetto poco fa. Ci tengo alla tua amicizia, perciò ti prego di accettare questo accendino come regalo. È il mio modo di chiederti scusa - .
I suoi occhi sembrano brillare, maneggia delicatamente il piccolo aggeggio d'argento che riflette nelle sue pupille le luci blu e rosse del locale. Mi guarda. Mi si avvicina e mi abbraccia così forte da togliermi quasi il respiro. Poi accende la sua Marlboro e ripone l'accendino all'interno della giacca, mostrandomi con orgoglio il fatto di averlo messo proprio nella stessa tasca del portafoglio. Si dice che il fumo uccide. Stavolta mi ha salvato il culo.
Nouri sostiene che, da uomo di scienza, non può ammettere l'esistenza di un Destino o di un ordine precostituito degli eventi, di un Dio che decide le sorti della gente a proprio piacimento, ma che è l'essere umano con le proprie azioni ad influenzare la sfera degli avvenimenti nella vita propria e altrui.
Lo so che non ci capisci un cazzo, ma in questo momento ti voglio bene lo stesso, Nouri.
Alle mie spalle sento un casino indicibile, gente che urla e applaude. Tra mille parole che non mi significano niente riconosco un dobro, e capisco che finalmente Mikail è arrivato. Mi volto e lo vedo lì, con i suoi bodyguard alle costole, che dispensa a cazzo di cane saluti e sorrisi falsi.
Non ne posso più di stare qui accanto a Castravelli, che nel frattempo continua a parlare e raccontarmi fatti suoi di cui non me ne può fregar di meno, e io manco lo sento. Con la scusa di andare a salutare Mikail mi congedo da lui; mi saluta con un altro abbraccio e due baci, lasciandomi di nuovo addosso sudore e profumo di brillantina Linetti. Mi dirigo verso il mangiacaviale, lui mi vede da lontano e subito mette in attesa tutti gli altri. Mi saluta con una stretta di mano energica e un sorriso appena accennato. Gli italiani dovrebbero prendere lezioni di stile da lui.
- Caro Nidal, hai portato i confetti? - mi sussurra a bassa voce. Facciamo affari insieme da due anni e sta nel suo locale, ma nonostante ciò ha questa perenne paura di cimici e microspie, perciò continua a parlare in codice pure se sta seduto sulla tazza del cesso e deve chiederti la carta igienica perché è finita. Faccio un cenno col capo, poi dall'altro taschino tiro fuori uno scatolino rettangolare tipo quelli delle fedi nuziali.
- È tutto qui dentro. Non devi fare altro che inserire la chiavetta a forma di tartaruga e cliccare su connect.exe; appena tutti i ping avranno dato esito positivo, ricontattami e provvedo ad avviare il trasferimento della grana - .
Mi zittisce, invitandomi ad abbassare la voce. Poi mi fa cenno con la mano di consegnargli il pacchetto. Glielo porgo, lui si guarda intorno e furtivamente lo mette nella tasca sul petto. Poi prende il portafoglio da quella interna e tira fuori un mazzetto di banconote da cento dollari. Ne conta dieci e me le porge.
- Consideralo un aperitivo per il tuo disturbo. Appena avrò la conferma degli invitati ti chiamerò per la cena completa. - poi, riguardandosi intorno, mi sussurra nell'orecchio - È sempre un piacere avere a che fare con te. È un peccato che tu non possa bere, lì al tavolo 7 ci sarebbero due mie connazionali desiderose di conoscerti - .
Lo ringrazio e lo saluto stringendogli la mano. Mi allontano con fare spavaldo: ho ottenuto ciò che volevo, un po' a culo ma l'ho ottenuto, e l'affare con Mikail si è concluso in pochi minuti. Non mi resta che uscire da questo posto e, nell'attesa di una mossa del mangiaspaghetti, tornarmene a casa. O forse no.
Mi blocco quasi verso l'uscita, e mi ricordo di avere un conto in sospeso. Torno indietro, a passo svelto, e mi dirigo di nuovo verso la sala da biliardo. Ora due tavoli sono liberi, mentre su uno i messicani stanno ancora lì a giocarsela.
Mi avvicino di nuovo alla slot machine, inserisco una moneta e tiro la leva. Nulla.
Secondo tentativo. Nulla.
Ultimo tentativo. I rulli girano, io mi sforzo di ipnotizzarli. Ma nulla, anche stavolta.
Sul display appare una scritta.
TRY AGAIN.
E no, bello, stasera torno a casa da vincitore.

Ho sempre trovato romantica la notte. La luna e le stelle ti guardano fare nell'oscurità il cazzo che ti pare senza giudicarti. Non sono un musulmano modello, questo lo so. Lo desideravo quel Black Russian, e sicuramente me lo sognerò stanotte. Preparato nel modo giusto, con l'esatta quantità di Kahlúa, da Valentina che me lo servirà nel tumbler col sorriso sulle labbra. Ma lì non ce l'hai, la libertà di fare il cazzo che ti pare, perché se ti vedono con un Black Russian in mano di sicuro qualcuno comincerà a mormorare che un mangiakebab trasgressore è uno di cui non ci si può fidare, e allora devi rendere conto a tutta la Sacra Famiglia della Florida e dimostrare che sei uno fidato. Fanculo.
M'è venuta voglia di una sigaretta, ora. Entro in macchina e decido di assaporarla lì prima di rientrare. Tanto sono solo in questo parcheggio, e la notte non mi giudica.
Tiro una prima boccata che mi sa di liberazione dal nazismo; mi ci voleva proprio. A mano a mano, ogni tiro mi diventa un incontro coi pensieri. Alcuni piacevoli, altri che vorresti scoreggiare via al più presto.
Penso a Gorgo, alla sinuosità un po' sgraziata del suo fisico da gatta randagia, al casino in cui si è cacciata e in cui sta per cacciare me e tutti quelli della squadra.
Penso a mio padre e mia madre, alla vergogna che devono sopportare ogni giorno in una Esfahan che sparla di tutto e tutti; a quello scansafatiche di Karim, al mio alter ego Farid e a quel leccaculo di Nabil; al piccolo Nassim, che ora dovrebbe avere 25 anni ma il cui ultimo ricordo risale a quando ancora andava in triciclo.
Penso poi a Nouri, che in questo momento mi direbbe che la sigaretta che sto fumando è veleno, perché i miei recettori nicotinici aumenterebbero il mio già perenne stato di eccitazione e nervosismo provocandomi la tachicardia e mettendomi così a rischio di infarto; ma poi penso che lui non ci capisce un cazzo.
Il mio stato di alienazione viene interrotto improvvisamente da una caciara; gente che esce dal locale in maniera un po' troppo rumorosa. Cerco di non farci caso; mi sforzo di tornare alla mia beata sigaretta e ai miei pensieri quando un “compa'” attira la mia attenzione. Da lontano riesco a scorgere la sagoma di un tarchiatello in abito bianco che urla al cellulare.
Vinnie.
Come cazzo fa ad avere ancora tutta quella forza di urlare a fine serata? È talmente sbronzo che non si rende neanche conto di quanto alza la voce. Riesco a sentire chiaramente, parola per parola, i suoi discorsi.
- Mano', tra 20 minuti sto fuori al Lockhart Stadium. A tra poco, compa' - .
Bingo. Non posso seguirlo adesso, darei troppo nell'occhio. Ma ha il mio accendino col GPS: anche se gli do cinque minuti di vantaggio, rintracciarlo sarà un giochetto da ragazzi. Si gira e mi vede, io nascondo la sigaretta. Cazzo! Questo con la lingua lunga che ha mi sputtana davanti a tutti. Per fortuna si limita a sorridere e salutarmi da lontano. Ricambio la cortesia, gli faccio un cenno di saluto con la mano. Lui finalmente entra in macchina e sfreccia via. Forse ci siamo.

Parcheggio a meno di duecento piedi dallo stadio, dietro a due alberi per essere sicuro di non essere scoperto. Vinnie esce dall'auto alla sua maniera, bordellaro e festaiolo.
Manolito è immobile, con le mani in tasca. Una statua. Devo ammettere che ha classe da vendere per essere un pischello poco più che ventenne. Ricorda un po' il Sonny di Miami Vice, ma in versione messicana. Colletto della camicia fuori alla giacca e occhiali scuri anche a notte fonda.
I due si stringono la mano e iniziano a parlare, e io rimpiango i tempi di cui ero alla DEA, quando con una cimice piazzata sotto la macchina di quel mangialasagne avrei potuto ascoltare chiaramente tutte le loro stronzate. Invece no, non sento un benemerito cazzo da quaggiù.
I gesti di Vinnie sono inequivocabili, e grazie a questo suo fare cafone capisco che stanno parlando di affari, di soldi e di tette. La stanchezza comincia a farsi strada. Dovrei avere a disposizione giornate di almeno 40 ore per poter reggere questi ritmi; ho più caffeina che sangue nelle vene, ma non mi basta più. Mi ci vorrebbe una striscia, ora come ora, ma non voglio ricascarci. Non mollare, Nidal, non mollare.
I due si stringono la mano, fanno per andarsene. Manolo non batte ciglio, Vinnie si gira un'ultima volta.
- Mi raccomando, alle 7,30 puntuale eh! Non farmi aspettare compa', io intanto starò da Franco's a fare colazione - .
Quel vizio di alzare la voce mi fa venire sempre voglia di riempirgli la bocca con la sua stessa merda, pur di farlo stare zitto; ma stavolta è stata una manna dal cielo. Saluta Manolito con un sorriso a cento denti. Sorrido anch'io.
Se Teresa Orlowski mi apparisse qui, seduta accanto a me, e mi facesse un pompino completo, potrei affermare senza dubbio alcuno che questo è in assoluto il giorno più fortunato dei miei 35 anni buttati nel cesso.

Ho sonno. Vorrei tornarmene a casa e sprofondare nel letto, ma quelle parole mi risuonano nella mente martellanti.
“Alle 7,30 puntuale” e, soprattutto, “da Franco's”.
Seebreeze Boulevard, dunque. È lì che si vedranno, è lì che porteranno a conclusione chissà quale altro grosso affare da figli di puttana quali sono; ed è lì che, dunque, bisognerà radunare la squadra. Perché è lì che, se tutto andrà bene, Manolito Ramirez colorerà di rosso sangue le acque del New River. Mai avuto problemi col giovane rampollo del secondo cartello più importante di Fort Lauderdale, né lui ne ha mai creati. I messicani si assomigliano un po' tutti; fondamentalmente bevono litri di tequila, vestono con abiti chiari e rimpinguano le saccocce vendendo grosse quantità di bianca.
La differenza tra di loro è tutta nel rumore.
Quando c'è nell'aria un carico di García te ne accorgi, volente o nolente; al porto ti ritrovi sbirri e facce di merda che ti squadrano da testa a piedi, anche se sei una mammina che spinge un carrozzino col figlioletto; dovunque tu vada c'è sempre qualcuno che parla al cellulare, e che ti scruta da dietro a un paio di occhiali scuri; le strade vicino alla zona dove deve completarsi l'affare sono puntualmente chiuse per lavori in corso.
Tutt'altra storia quando ci sono di mezzo i Ramirez. Sarebbero capaci di infilartelo nel culo senza vaselina e tu manco te ne accorgeresti. La discrezione, ecco il loro punto di forza; perché per numero di affiliati non arrivano manco alla metà degli uomini di García.
Manolo da ragazzino era un tranquillone; chi lo conosce dice che dopo il liceo voleva studiare per diventare giornalista. Ma è nato da una famiglia sbagliata nel posto sbagliato. E ancora più sbagliato è stato il suo atteggiamento di menefreghismo e spavalderia, quando tra tanti buchi in cui infilare il suo uccello ha scelto quello di Morena García. La figlia di Ramon el Carnicero. E Ramon non vedeva l'ora che una mezza sega come Alexander combinasse quel bel casino, per poterlo ricattare con facilità e far fuori il suo rivale di sempre.
Adesso, mentre i miei pensieri sono illuminati solo dai fari della mia macchina, quasi mi dispiace che Manolito debba fare una brutta fine. Nella mia posizione non dovrei farmi tanti scrupoli, né avere rimorsi di coscienza. Ma tant'è.
Se ne parlassi con Nouri, lui mi direbbe che è proprio dell'animo umano, anche del più freddo e crudele, provare compassione per qualcuno. Ecco perché è ormai di pubblico dominio il fatto che Nouri non ci capisca un cazzo.

Entro nella stanza da letto. Lei dorme beatamente, e la cosa mi fa incazzare non poco.
Mi stressa tutte le notti per colpa della sua insonnia e adesso invece ronfa alla grande.
Però m'incanto a osservarla dormire.
Le curve dei suoi fianchi sembrano fatte apposta per permettere di afferrarla e trattenerla; quest'idea mi fa diventare il cazzo di marmo. Short e canottiera, senza reggiseno. Le si intravedono i capezzoli, e io non resisto. Mancano poco più di 3 ore all'appuntamento con Alexander; potrei starmene un po' accanto a lei, continuare ad ammirarne quella bellezza talvolta sgraziata che mi fa impazzire, aspettare le cinque del mattino e svegliarla con una bella tazza di caffè.
Potrei.
Ma quel culo, quel dragone tatuato sull'inguine mi suggeriscono altro.
Prendo tra le mani il suo piede sinistro; smalto nero sulle unghie, come piace a me. Mi illudo che l'abbia fatto apposta. Salendo lentamente più su le carezzo l'interno coscia, come piace a lei. Dorme ancora, non è cosciente mentre, per istinto, apre entrambe le cosce per lasciare scivolare meglio la mia mano. La sfioro appena, giusto il tempo di rendermi conto che è già bagnata. Non mi serve sapere altro.
Gli shorts sfilano via che è un piacere; ha il vezzo di curare l'hair style del suo paradiso intimo almeno una volta a settimana, e pure questo mi fa impazzire. Comincio a percorrere con la lingua la sua fessura seguendone il senso verticale; con la punta le sfioro il clitoride, lei ha un sussulto. Mi prende per i capelli con una mano e mi spinge più forte tra le sue cosce. Proseguo nella mia opera di dolce risveglio leccandole le piccole labbra, poi torno sul suo punto di maggior sensibilità, a piccoli baci. Emette deboli gemiti. Quando poi, salendo sempre più su, giungo in prossimità dell'ombelico, si sveglia definitivamente.
- Ma che vuoi, figlio di puttana? - . Il suo tono non è incazzato, tantomeno seccato. Anzi, pare molto compiaciuta, tant'è che mi prende la testa spingendola tra le piccole tette.
- Sono venuto a darti il buongiorno - biascico, e con i denti le mordo un capezzolo che ora è diventato un chiodo di diametro 12, - o sarebbe meglio dire: un ottimo giorno - continuo, mentre ormai, risalito lungo il collo, riesco a guardarla dritto negli occhi. - Alle 7,30 sulla Seebreeze Boulevard, dalle parti di Jonathan's. Sono stato bravo o no? - .
Accenna un sorriso, mi bacia con veemenza; poi mi cinge con le sue gambe in una morsa degna del manuale del kamasutra.
- E allora? Cosa vorresti adesso? Un applauso? O magari un pompino? - mi fissa, con quegli enormi occhi profondi, - beh, scordati sia l'uno che l'altro - , poi con un'abile mossa ribalta le nostre posizioni, ritrovandosi sopra di me.
- Scopami, Nidal. Scopami, prima che cambi idea - .

Forse il sonno, forse lo stress. Non so come sia successo. Non mi era mai capitato finora. Cazzo, non con lei.
Siamo stesi l'uno accanto all'altro, a fumare una sigaretta. Impassibile, lei; io non dico una parola, e francamente non saprei proprio che dire. Non c'è mai stato imbarazzo tra noi, manco quando me ne vado in giro per casa nudo, sventolando il bandierone. Eppure stavolta c'è un silenzio che mi snerva più dell'assolo di un chitarrista metal.
- Io ho sondato il terreno, ho fatto la mia parte, - rompo gli indugi io - ora tocca a te organizzare la squadra. Sai tu chi chiamare, e cosa fare - .
Si gira verso di me. Conosco quello sguardo; tipico di quando sta per farmi una sparata delle sue.
- Nidal, guardami nelle palle degli occhi: è piovuto e spiovuto, ok? Non è successo nulla. Amici come prima e vaffanculo ai sensi di colpa. È tutto a posto. Io vado a darmi una rinfrescata, tu intanto prepara una tanica di caffè. Abbiamo un po' di telefonate da fare, e un lavoretto da portare a termine - .
Mi dà una pacca sulla spalla e si alza. Io resto a letto a fissare il soffitto. Non mi ero mai accorto di quanto facesse schifo quel lampadario: gabbiani dorati con pendenti di Swarovski. Mi rendo conto che focalizzare la mia attenzione su quell'esplosione di kitsch è solo un vano tentativo di non pensare al problema principale.
Una défaillance con Gorgo.
Porca puttana.

Nouri la spiegherebbe come una normalissima forma di somatizzazione dell'ansia, scaturita dalla consapevolezza di essere entrati in una situazione più grossa di noi, con un'elevata possibilità di insuccesso e, soprattutto, di morte.
Mai come ora, vorrei che Nouri ci capisse qualcosa.

Vittoria Iorio e Giano Vander

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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