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Autore: Giulia Fiori
Jiklitaal
Epic fantasy
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La città del sole e del sogno,

Anno 820 della Quarta era.
La guerra aveva raggiunto la caverna in cui abitava e la protezione da lui creata era debole, come lo era ancora la sua magia. Lampi e luci di ogni colore tempestavano il cielo, le nuvole minacciavano temporali e oscuravano la grande stella del dio Grian di giorno, e quella minore della dea Ghealach di notte. Il cielo non si vedeva più da anni, ormai.
Le battaglie non avevano mai coinvolto il giovane che scrutava il cielo, in attesa della fine di tutto il dolore e della sofferenza che incombevano sull'isola, ma avevano trascinato via coloro che più amava, i suoi genitori.
Accanto a lui, l'uomo che lo aveva cresciuto dopo la loro dipartita, e aiutato con la sua magia, lo scrutava, cercando di capire se il suo allievo avesse raggiunto una padronanza sufficiente dei propri poteri.
Era cresciuto in un mondo buio, circondato da pareti rocciose, ruvide e grigie. Nei primi anni della sua infelice vita, sua madre aveva alleviato quella solitudine, ma, con la sua morte, tutto era diventato più oscuro; e non solo sull'isola, anche dentro il suo cuore. Tutto quello che ricordava della sua vita era quel luogo e il piccolo bosco antistante la sua casa, dove soleva allenarsi con riguardo.
Ma anche quel piccolo sprazzo di colore stava svanendo. Gli incendi avevano quasi raggiunto la sua abitazione e lui non sarebbe stato in grado di contrastare i suoi nemici.
All'improvviso, la terra iniziò a tremare sotto i suoi piedi, un boato assordante riempì le orecchie del giovane mago, sostituito, subito dopo, da un sibilo che permase dentro di lui a lungo. Si chinò, premendo le mani sulle tempie, come per scacciare quell'orribile sensazione di disagio e disorientamento.
Poi il silenzio. I rumori delle battaglie, i fruscii degli incantesimi, tutto era cessato.
Cos'era successo?
Il viso del suo mentore, apparso alle sue spalle, gli fece capire che non c'era più tempo. Il momento era arrivato, doveva uscire da lì e affrontare il mondo al di fuori del suo buco. 

Anno 921 della Quarta era.
Gillion girò l'ultima pagina, sospirò e chiuse il libro. Quella sensazione di vuoto la provava ogni volta che terminava una lettura.
Quando si era alzato, quella mattina, aveva sentito che qualcosa stava cambiando. Era una giornata come le altre: avrebbe svolto il suo lavoro, per poi tornare nella sua stanza. Era l'ultimo giorno della settimana lavorativa e sarebbe partito verso casa la sera stessa.
Era bello tornare a Villandor, anche se questo voleva dire prendere il suo cavallo Brufelo e viaggiare per molto tempo, ma lì lo aspettava la sua famiglia, il suo comodo materasso e il suo segreto.
Arrivò di buon'ora in cucina, arraffò un pezzo di pane morbido appena sfornato e aspettò di incontrare i dolci occhi di Nimel, intenta a preparare la colazione per l'intera corte di Holl. Molte dame mostravano interesse per il giovane elfo contabile, dall'aspetto elegante e curato, ma solo la ragazza delle cucine attirava il suo sguardo. Si conoscevano sin da bambini, ma appartenevano a ceti sociali troppo diversi per poter andare oltre un semplice saluto.
La ragazza non si voltò e corse con i vassoi tra le mani verso la porta che conduceva alla sala reale. Gillion uscì dalle cucine con l'angoscia nel petto: non riusciva a spiegarsi un simile comportamento, non era mai successa una cosa simile.
Percorrendo i corridoi circondati dalle spesse mura e illuminati dalle grandi finestre prive di tende, che davano sulla ricca città sottostante, arrivò alla scrivania, senza accorgersi della presenza del suo maestro, Mabur. L'uomo era intento ad analizzare dei documenti importanti, mordendosi un polpastrello, come al solito.
I capelli dell'elfo, legati in una coda, rossi come le fiamme che alimentano le enormi forge sotto le montagne, scivolarono via dalla sua spalla quando si voltò verso l'apprendista, preoccupato di non aver ricevuto le solite battute mattutine.
- Cosa ti succede, ragazzo? Il tuo vicino di cella ha russato più del normale, questa notte? - .
Quando Gillion non gli rispose, si alzò e si diresse verso di lui, oscurando la luce con le sue spalle larghe il doppio di quelle di un elfo normale.
Il ragazzo riemerse dai suoi pensieri e lo guardò negli occhi verde scuro, domandandosi cosa fosse accaduto.
- Mi spieghi cosa ti succede? Non mi hai nemmeno preso in giro per il mio sangue nanico e per la sedia che scricchiola sotto il mio peso - .
- Perdonami, Mabur, stavo pensando a Nimel. Questa mattina non mi ha salutato - .
- Ah, l'amore! Non l'hai sentito? È diventata la cuoca e assaggiatrice personale del re, dopo che l'ultima è morta avvelenata - .
- Cosa? - disse lui, alzandosi di scatto e facendo cadere la sedia alle sue spalle. - Non è possibile. È troppo rischioso! - .
- Lo so, ma questi sono gli ordini del re. Ora riprenditi e inizia a lavorare - disse il maestro, dandogli una pacca sulla spalla che gli provocò una leggera fitta di dolore.
Durante tutta la mattina, Gillion lavorò poco, troppo preso dai pensieri e dalle preoccupazioni, fino a quando non arrivò la tanto agognata pausa. Si diresse con Mabur, come ogni giorno, ai giardini reali, situati al piano rialzato, chiamati la “terrazza”: da lì era possibile ammirare quasi interamente la capitale del regno, di cui portava il nome.
Erano soliti sedersi sulle panchine, realizzate con i rami delle grandi querce che sorgevano proprio sul perimetro dei giardini, in modo da poter godere della migliore vista che dava sulle cascate artificiali e ammirare la potenza dell'acqua che scrosciava tra le rocce erose dal tempo.
- Questa città è meravigliosa, vero, ragazzo mio? - chiese il contabile, stendendo la schiena contro i rami nodosi.
- Sì, Mabur. Basterebbe solo la cascata per renderla la migliore al mondo, ma un tempo non era così, c'era chi la oscurava. Ricordi le immagini sul libro “Storia dei popoli” che ti ho mostrato? La città dei cavalieri dei Roc la superava in grandezza e bellezza - .
- Hai ragione. È un peccato che sia tutto scomparso - .
Amavano parlare dei tempi antichi: Gillion raccontava al suo maestro quello che apprendeva dai libri e spesso glieli mostrava per renderlo partecipe delle meravigliose immagini raffigurate sopra di essi.
- Non pensare alla ragazza, se la caverà. Inoltre, sarà lei a cucinare e nessuno si avvicinerà al cibo - cercò di tirargli su il morale, ma lo sguardo del ragazzo non cambiò. - Oggi riparti? Non capisco come riesci a sopportare questi spostamenti continui da Holl a Villandor - chiese poi al ragazzo.
- Mabur, sai che devo aiutare i miei genitori con gli ordini; i fiori sono complessi e i clienti aumentano ogni giorno - rispose lui, felice di essere passato a un discorso diverso.
- Mi fa piacere e non mi sorprende, i tuoi sono i migliori maghi fiorai delle terre. Ma il tuo posto è qui. Il tuo villaggio è lontano e questi viaggi rischiano di deconcentrarti dai tuoi compiti - . Mabur era serio adesso, non gli era mai piaciuto questo continuo spostarsi, nonostante capisse la situazione.
- Non preoccuparti, mezzo nano, io sono molto concentrato. Ma ho bisogno di stare con loro nei tre giorni di riposo che ci spettano; in questo modo riesco anche a dormire meglio, su un letto comodo, in una stanza in cui l'aria riesce a passare - .
- Ma come? I buchi di Holl non ti piacciono? - scherzò Mabur, allungando la mano per spettinare i capelli castani del suo amico, riferendosi alle anguste stanze che spettavano a chi lavorava nella capitale. In tutto lo splendore e la ricchezza del palazzo, non vi erano luoghi più tristi, motivo che spronava i dipendenti a non riposare troppo a lungo. Era una tortura vivere lì, ma Gillion non avrebbe mai potuto rinunciare all'incontro mattutino per la colazione, anche se ora temeva il giorno in cui non avrebbe più rivisto la chioma scura della ragazza.

Giulia Fiori

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