
Tobruk (Libia) 21 gennaio 1941 Non riesco a credere che sono ancora vivo. Mi appoggio al muro, chiudo gli occhi e cerco con la mano la mia piastrina di riconoscimento. Mi dà sicurezza quel pezzo di ferro con su il mio nome. Se dovessi morire, penso, almeno sanno chi sono. Sì, perché qui si aspetta solo di morire. Certo, se mi avessero detto che la guerra era questa, mica sarei partito fischiettando da Concesio quando mi hanno richiamato il 1° maggio. Ho in mente questa cosa da stamattina, quando per un momento le bombe hanno smesso di fischiarmi sopra la testa. È stata dura perché sono due notti che ci bombardano. (...) Sono due giorni che me ne sto rintanato nella mensa ufficiali. E chi ha più avuto il coraggio di mettere fuori il naso! Sono un cameriere io, mica uno che spara. E per fortuna che non mi sono più mosso da qui, se no addio Gianni, e chissà perché rido mentre sento gli areoplani che volano bassi su Tobruk. Sarà la paura. È mattino presto, quasi l'alba. Spio fuori dai sacchi che abbiamo messo da dieci giorni fuori dalle finestre della sala mensa. I caporioni lo sapevano da un bel po' che saremmo stati attaccati, ma si sono guardati bene dal dircelo. (...) Riconosco che è un colonnello dalla torretta con le tre stelle d'oro che porta sulla divisa. È tutto impolverato e perdesangue da un braccio. Sono da solo lì dentro, e non ci dovrei stare. Che faccio? Lo saluto o non lo saluto? Poi scatto sull'attenti: - Soldato semplice addetto alla mensa ufficiali Senici Giovanni, 67a divisione Sirte - dico, e resto lì aspettando un ordine di “riposo”, ma quello passa fuori che sembra non vedermi nemmeno, allora mi rilasso e gli dico: - Sta bene, signor colonnello? - . Lui si gira, si tocca il braccio e sorridendo senza guardarmi mi dice: - Stavo meglio prima. Comunque non è niente, soldato. Grazie - . Ostia! Mi sorprende di più quel “grazie” che non trovare un po' di acqua qui a Tobruk, e allora gli rispondo: - Prego, signor colonnello - ma in verità avrei voluto chiedergli - Che facciamo? - . E lui fa una cosa che non dimenticherò. Mi mette il braccio sano sulla spalla e mi dice: - Pensa a portare a casa la pelle, giovanotto, che qui siamo tutti come morti che camminano - e così dicendo se ne va: apre la porta delle cucine ed esce come se niente fosse, aggiustandosi l'elmetto sulla testa. Volevo dirgli di stare attento, ma mi rimetto dietro i sacchi e lo vedo, testa alta e petto in fuori, attraversare la piazza dove ancora resiste il monumento di Mussolini con la scritta VINCERE. Guardo quel colonnello gentile che mi ha detto “grazie” e un momento dopo non c'è più. Una granata li ha disintegrati insieme, lui e il monumento di Mussolini.
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Brescia (Italia) 4 febbraio 2017 Quella scatoletta Alfredo non l'aveva più aperta, ma era una sera speciale e si decise: la riaprì. Scelse un oggetto a caso e concentrò la sua attenzione solo su quello. Girava e rigirava tra le mani una cartolina sgualcita, ingiallita e sbiadita con gli angoli sfrangiati dal tempo e dalle tante volte in cui era stata incollata e staccata dai fogli neri di vecchi album di fotografie. Ne annusò l'odore, ne osservò da vicino i tagli sbrecciati, cercò di immaginarla là, nel passato da cui veniva. Raffigurava un paesaggio. Un disegno a matita e acquarello color seppia creava un primo piano di alberi alti e sottili con ciuffi di foglie alle estremità, a prima vista dei pini marittimi. Sullo sfondo, in dissolvenza, un ambiente rurale, un villaggio di case basse e quello che sembrava essere un campanile. Uno steccato delimitava il perimetro del borgo. Assomigliava a uno dei tanti paesi come ancora oggi se ne vedono nella bassa pianura lombarda. Rassicurante. Tranquillo. Sereno. L'immagine era riquadrata con mezzo centimetro di margine dal bordo e in basso, spostata verso sinistra, una scritta vergata a mano: “Cowra 1941”. Era l'unico indizio che riportava quel paesaggio alla storia da cui proveniva. Osservando meglio i dettagli, Alfredo capì che in quello steccato si scorgeva il reticolato di cui era composto. Le casette basse erano in realtà delle baracche in lamiera e il campanile, infine, era una torretta di guardia. Quel villaggio sfumato nei colori della lontananza gli appariva ora in tutta la sua oggettività: un campo di concentramento. Cowra nel New South Wales, il campo dove era stato prigioniero suo padre.
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Marsha Matruk (Libia) 30 gennaio 1941 Stiamo marciando da due giorni e da due giorni non mangio e non dormo. Questa è la guerra, altro che i bei discorsi del Duce. Lo penso da quando abbiamo lasciato il campo improvvisato di Tobruk. Fa un caldo della malora e ho sete. Dài Gianni, mi dico da solo, avanti un passo dopo l'altro. Il sergente Bortolotti e Angelo Rossetti sono nella mia squadra. Siamo rimasti attaccati come l'edera. Corre voce che ci portano ad Alessandria, ma qui non sa più niente nessuno. Siamo tanti, madonna santa quanti siamo. C'è la fanteria, ma anche la marina, si vede che li hanno fregati anche loro. Camminiamo seguendo una pista nel deserto. Ogni tanto la strada si alza sopra una duna e si può guardare la marea umana di noi prigionieri, una marea che marcia tutta in fila e penso che siamo un esercito di disperati e di sconfitti. Quando arriva il buio ci accampiamo come meglio possiamo anche perché di notte fa freddo e stiamo tutti vicini. Già dalla prima notte il sergente mi ha detto di non togliermi gli anfibi. Gli ho dato retta, mi sembra uno che se ne intende: - Se te li togli poi non riesci più a rimetterci dentro i piedi - . L'ho detto anche ad Angelo che già aveva slacciato le stringhe. Altri prigionieri non lo sanno e si liberano i piedi da quell'inferno. E poi non si riesce a dormire anche perché le fotocellule illuminano i recinti che troviamo durante la marcia. (...)
Qantas Air Lines (Oceano Indiano) 19 maggio 2017 Così Alfredo partì. Troppa la voglia e la curiosità per non partire nonostante le sue paure. Troppe le cose da chiarire e da approfondire. Troppi i sentimenti sospesi, le parole non dette, i ricordi. In quei mesi la Rete aveva continuato a restituirgli, piccole schegge appuntite di memoria che si conficcavano profonde dentro la suatesta come un pungolo continuo. E se da una parte la curiosità lo spingeva, dall'altra si domandava il perché senza darsi una risposta. Sapeva solo che doveva proseguire in questa migrazione istintiva verso una meta che ancora non conosceva. (...) Su quell'aereo per Sydney alla decima ora di un volo infinito tornò a ripensare a tutto quello che era successo. Si chiese anche se quel viaggio era un andare verso un qualcosa o non fosse più che altro un fuggire. Dal lavoro, dalla routine, dal matrimonio. “Ma non dire cazzate” pensò tra sé rendendosi conto di essere dentro a dei luoghi comuni e che forse tutta la sua vita era un luogo comune e che quindi, forse, qualcosa di vero c'era. Meglio pensare ad altro, così si concentrò sull'ansia che ogni viaggio gli metteva, sul suo inglese stentato, sulle incognite, sui ragni e sui serpenti di cui dicevano l'Australia fosse piena. All'agenzia di viaggi gli avevano raccomandato di portarsi indumenti invernali. Al momento era rimasto perplesso poi aveva messo a fuoco l'enorme distanza che lo separava dall'Australia: una terra dall'altra parte del mondo. Guardò, oltre l'oblò dell'aereo e ancora oltre le enormi ali del 747, la distesa infinita e scura dell'oceano e una precisa domanda si compose nella sua mente: - Cosa sapeva mio padre dell'Australia? - .
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Wakool (Australia) 24 dicembre 1944 Non so com'è successo che oggi è Natale, Natale del 1944. Mi hanno dato un'altra cartolina che non spedirò a nessuno. È già più di un anno che sono qui nel campo di Wakool. Almeno oggi non abbiamo lavorato. Ieri ci hanno dato il permesso e siamo andati tutta alla Messa di mezzanotte. È stato bello, sembrava per la prima volta di essere liberi. Sì, lo so che non era vero, ma eravamo tutti lì, quelli della mia squadra, ad ascoltare la Messa. C'era anche la famiglia Leclark, con la moglie e le due giovani figlie, Judith e Mary. Sono molto carine, ma una in particolare la Judith, che ha sedici anni ed è la più giovane, è proprio bella che sembra un raggio di sole appena spuntato sopra il bush. Il proprietario della fattoria dove lavoro, Antony Leclark, è un brav'uomo e a suo modo ci rispetta, e noi facciamo di tutto per farci volere bene. Ogni giorno siamo trasportati sul cantiere con i camion. Estate e inverno, non ci siamo mai fermati. Sotto la guida degli ingegneri australiani abbiamo scavato e tracciato trincee che poi sono diventate canali di irrigazione. Abbiamo spianato e scavato i terreni per farli diventare risaie. Abbiamo faticato, ma almeno siamo stati uomini. (...)
Brescia (Italia) 18 giugno 2017 Alfredo prese dal portafogli quel pezzo di carta sgualcito dal tempo piegato più e più volte su se stesso. Doveva farlo. Aveva aspettato fin troppo. In quei quindici giorni, da quando era tornato, si era detto più volte lo faccio domani, e poi domani e poi domani ancora. Basta, pensò, oggi è il giorno giusto. L'avrebbe fatto. In fin dei conti era il suo compleanno. E si sentiva molto più vecchio di quando era partito. Trovò un ampio posacenere in metallo e lo portò in terrazza. Poi, senza troppi ripensamenti, diede fuoco a quel vecchio foglio partendo da un angolo e trattenendolo con due dita fin quasi a scottarsi. Sua moglie, da sotto, gli urlò che sentiva puzza di bruciato, ma lui non le rispose. Mentre scendeva le scale, ripensò agli ultimi sette mesi e a tutto quello che aveva bruciato insieme alle parole scritte da suo padre. Poi, alzando un po' la voce, disse a sua moglie: - Stasera usciamo a cena - .
Fabrizio Senici
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