Mi avventurai per le ciottolose strade di Londra, tra luci gialle delle lanterne ed il rumore delle ruote e zoccoli delle carrozze lanciate nelle strade, risuonando tra le ultime oscure figure che si affrettavano a tornare alle proprie case, incuranti delle proprie vite. Di tanto in tanto tra una via ed un vicolo riscoprivo cantoni incendiati per scaldare barboni e prostitute che facevano un gran baccano per attirare l'attenzione dei passanti. La sporcizia era lasciata un po' ovunque e le gore in mezzo alla strada sgorgavano come latrine a cielo aperto. Sembrava un'apocalisse che dava spazio alla rivoluzione industriale ormai in avanzamento. Arrivato alla bottega, con discrezione misi la chiave nella serratura. Tentennante mi persi ad osservare la piccola vetrata la quale, ormai da tempo trascurata, si era ricoperta di fuliggine e polvere tanto da sembrare spettrale. Da fuori era persino impossibile riconoscere i dettagli dei mobili al suo interno. Entrai e chiusi a chiave la porta alle mie spalle, gettai il mantello ed il cappello sulla sedia, presi i ceri ed accesi una lampada ad olio. Con tutta fretta mi diressi nel mio studio, situato nel retro bottega. Di là nessuno avrebbe notato la mia presenza permettendomi di studiare e lavorare in tutta tranquillità. Posai la lanterna sul tavolo e presi la scala su ruote e cominciai a salire sugli scaffali in alto pieni di polvere e ragnatele. Presi i libri piccoli e grandi, vecchi e nuovi. Li gettai man mano sul tavolo sottostante tra la scala e la libreria incurante dei danni che avrei potuto fare. Caddero rovinosamente alcuni sul tavolo ed atri sul pavimento con un gran tonfo. Poi mi spinsi sempre con la scala alla mia destra a prendere bocce di spezie e salii tra polveri e liquidi. Me li intascai così che sarei potuto scendere a mani libere. Di fronte al tavolo osservai il materiale e questa volta che ero coinvolto emotivamente mi dissi -adesso o mai più-. Prima di qualsiasi cosa mi creai una via di fuga, un piano alternativo che avrei messo in atto se non avessi trovato una cura. Mi sarei creato un filtro così potente capace di uccidermi all'istante nel momento in cui le avessi perse per sempre. Una cosa era chiara: non le avrei mai lasciate andare da sole. Sistemai in ordine tutto il necessario sul mio tavolo. Conoscevo sin troppo bene il distillato di arsenico. Cominciai proprio da quello. Accesi i fuochi, posizionai scrupolosamente il distillatore e preparai il misto di erbe macerate che riposi in un becher in basso. Nel frattempo cominciai a sfogliare il primo libro – Da cosa cominciamo? Pensai a voce alta. Sicuramente basandosi su qualcosa che possa rafforzare le difese immunitarie...
Con l'alba ormai alle porte, il fischio della pipetta in ebollizione mi risvegliò dal mio sonno riverso sui libri. Era pronta una possibile cura da testare: una miscela di foglie di carruba del mediterraneo, corteccia di salice piangente e sali di magnesio. Spensi i fuochi e tappai la piccola bottiglietta di vetro. Accatastai tutto su un lato del tavolo. Per ultimo presi il matraccio contenente il distillato di arsenico, versai il contenuto in una piccola boccetta a forma di goccia e la tappai con il sughero sigillandola con la resina. Sarebbe rimasta con me probabilmente per qualche giorno, così per non perderla e rafforzare la sua consistenza la rilegai con un filo di metallo argentato. Era pronta per essere utilizzata in caso non fossi riuscito a salvarle. Avrei così spezzato la punta e me la sarei direttamente iniettata nelle vene, in modo da rendere più veloce e meno doloroso il trapasso. Così riposi in tasca l'arsenico in modo da tenerla custodita e al segreto, presi la boccetta con la possibile cura da testare e chiusi dietro di me le porte della bottega affrettandomi ad andare a casa.
Avevo somministrato ad entrambe la miscela creata per due giorni consecutivi ed avevo ottenuto solamente un leggero miglioramento ma ancora erano ben lontane da alzarsi dai loro letti.
Il mattino del terzo giorno subentrarono le convulsioni, peggiorando così ulteriormente la loro condizione. Rigiravo spesso tra le mie dita la boccetta di arsenico contenuta ancora nella tasca destra della giacca convinto che non sarebbero sopravvissute un altro giorno.
Con mia sorpresa le loro condizioni di salute si stabilizzarono anche se continuavano ad essere incoscienti. Continuai ogni notte a sperare di creare la giusta combinazione tra gli ingredienti in modo di farle risvegliare. Purtroppo più cercavo di aiutarle, più i miei sforzi erano vani e le forze cominciavano in me a vacillare: ormai da giorni non mi nutrivo, non riuscivo a dormire se non quei pochi minuti sullo sgabello del mio studio in attesa che il suono della pipetta in ebollizione mi comunicava che il siero era pronto.
Hernest mi fermò sulla porta di casa sconfortato: “Darian diamoci pace, il volere della mano superiore le vuole con sé e non c'è modo ormai di salvarle. Rassegniamoci” Con il cuore a pezzi presi coscienza che, in quella settimana, avevo perso ogni cognizione del tempo e della ragione. Le avevo davvero torturate senza uno straccio di risultato, tanto da renderle forse più sofferenti che mai. In realtà ero io che non riuscivo a darmi pace, non volevo lasciarle andare così. Non ero pronto. Straziato e disperato da ogni tentativo fallito, recitai a lui con consapevolezza: “Avete ragione, ma fatemi provare un'ultima volta e poi lascerò tutto al caso” Hernest annuì abbassando gli occhi senza speranza e mi lasciò tornare alla bottega per un'ultima notte. Mi avviai per la strada con il morale a pezzi rigirando nuovamente tra le mie dita della mano destra più volte la boccetta di arsenico contenuta nel taschino. Ormai era un rito che facevo in automatico, quasi a cullare i miei pensieri consapevole che sarei stato pronto, ad un destino ormai segnato. Arrivato posai la giacca sul divano, accesi la candela ed andai direttamente sul retro e come nelle ultime notti cominciai ad esaminare libri su libri in cerca di qualcosa che mi stava sfuggendo. Mi eclissai osservando la fiamma della candela e portai le mani alla testa sconfortato ed esausto. Mi sentivo mancare il fiato, fluttuare come se la terra sotto ai miei piedi fosse venuta a mancare. Impotente di fronte a ciò che stava accedendo, il mondo che conoscevo si stava sgretolando. Avrei voluto urlare, spaccare tutto ciò che mi circondava, piangere finché non mi fosse rimasta nessuna lacrima da versare. Ero solo. Solo ad affrontare quell'immenso dolore che mi stritolava in una morsa. Mi svegliai nello studio di soprassalto, sudato e con il cuore che pulsava a ritmi sempre più accelerati: sembrava che da un momento all'altro potesse saltare fuori dallo sterno. Un forte senso di nausea mi prese lo stomaco e arrivai giusto al secchio per rimettere quel poco che avevo mangiato. I dubbi mi assalivano. Sarebbero stati gli ultimi istanti che potevo trascorrere con la mia famiglia, sentivo in questi momenti lontano da loro di averle abbandonate, ma non potevo non lottare per trovare una soluzione. Ci doveva essere un modo, una cura per poterle salvare. Mi domandavo come fosse stato possibile che si fossero ammalate così improvvisamente, così senza aver dato un benché minimo segnale di sofferenza. In cuor mio ero consapevole che la tubercolosi non avrebbe potuto manifestarsi così prepotentemente senza un minimo di preavviso. Mi colpevolizzavo di averle trascurate e forse, proprio per questo, non essere riuscito a captare i segnali... Ma se non fosse stata tubercolosi, cosa poteva essere? Mentre mi arrovellavo il cervello a pensare crollai a terra in preda ad un attacco di panico. Esistono molte erbe in grado di poter calmare qualsiasi stato d'animo ed erano lì vicino a me. Avrei potuto tranquillamente farmi un bel decotto e rilassarmi un po' visto lo stato emotivo in cui mi trovavo ma non solo dovevo essere lucido per trovare una soluzione ma sentivo che quel dolore che mi affliggeva era la punizione per non essermi ammalato anch'io. Dal pavimento freddo e umido dello studio mi concentrai a fissare il soffitto, le varie venature del legno dei travicelli e le ragnatele che quasi decoravano parte di essi. La mia mente stava vagando cercando di recuperare un po' d'aria. Ogni volta che viravo i pensieri su ciò che stava accadendo, più sentivo il petto esplodermi, i polmoni infiammarsi e lo stomaco contorcersi. Era una girandola di emozioni dalla quale non riuscivo ad uscire. Mi risvegliai nuovamente a notte ormai inoltrata. Forse ero svenuto per la mancanza di ossigeno, forse il mio corpo aveva solamente trovato una scorciatoia per resistere a tutto questo. La verità era che io e la mia scienza non eravamo in grado di salvarle, così preso dalla rabbia e dallo sconforto, diedi sfogo a tutta la mia follia rompendo bottiglie e gettando giù i libri dagli scaffali. Picchiai i pugni sul tavolo e gridai a più non posso. Non avrei fatto niente quella notte per salvarle, ma avrei celebrato la mia resa accanto a loro. Così decisi di tornare a casa per poter rimanere assieme le ultime ore. Presi la giacca disposta sul divano ed uscii dal negozio quasi trascinandomi. I piedi erano leggerissimi ma provavo una fatica immensa a spostarli, le gambe non reggevano più il peso che dovevo sopportare.
Com'era cambiata la mia città in così pochi anni. Ricordo quando da piccolo l'aria non sapeva di fumo ed i cieli avevano un colore decisamente più azzurro. Ero perso nei miei pensieri e da mille emozioni, quando ad un tratto mi sentii osservato. Mi girai di scatto ma dietro di me non c'era anima viva. Continuai con il mio cammino ma quella strana sensazione continuava a perseguitarmi: alcuni rumori di passi mi fecero voltare nuovamente.
Rebecca Bonfigli - Simone Vezzoni
Biblioteca
|
Acquista
|
Preferenze
|
Contatto
|
|