Apre gli occhi di scatto, il fischio del diretto per Chennai delle sei e quindici le penetra nelle orecchie. Si guarda intorno spaventata, si mette a sedere e girandosi urta il muro col braccio. Di colpo la felice realtà della nuova situazione le torna in mente. Si è addormentata tranquilla perché sono al sicuro, la Bombay notturna chiusa fuori col chiavistello, l'urlo del treno solo nella sua mente, dopo quei ventiquattro anni in cui era stato la sua sveglia mattutina. La porta si apre, lasciando entrare una luce grigiastra, e compare Laxmi, che sale lentamente il gradino con aria distrutta e un incarto nella mano sinistra. - La colazione - la informa, buttandogliela sul cartone. Nella fievole luce vede i cartoni di fianco a lei vuoti, non se ne preoccupa, i fratelli non sono ancora tornati dal giro di consegna dei giornali. L'età minima per essere ingaggiati sarebbe quattordici anni, ma visto che Shreyank ne ha otto e Riya dieci, ci vanno insieme e la legge non ha niente da dire. Swati scarta il foglio di giornale e addentando il chapati si avvicina alla porta rimasta aperta, per leggere la quarta pagina del The Times of India del giorno precedente. La madre si siede pesantemente a un metro da lei. - Qua dentro fa troppo caldo, yaar. - - Oggi ho l'esame all'università - Swati non ha nessuna intenzione di assecondare le lamentele riguardo l'unica cosa buona che fosse mai capitata alla loro famiglia, anche se sente goccioline scivolarle in mezzo ai seni e l'aria umida mozzarle il respiro. Ed è solo mattina, ed è solo aprile. - Allora fatti bastare quello che stai mangiando, perché soldi non ne ho, yaar. - Swati rallenta la masticazione e riavvolge metà colazione nell'articolo riguardante il nuovo quartiere residenziale che sarà costruito a nord della città. Va verso il lavandino, gira il rubinetto ma l'acqua continua a non uscire, poco male, si laverà a scuola. Indossa i jeans e afferrando lo zainetto bucato sussurra: - A dopo. - Prima di far ricadere la tendina, lancia un ultimo sguardo all'interno della stanza. Seduta lì, contro il muro, Laxmi fissa il vuoto e Swati prova pena. A cosa era dovuta andare incontro la madre per procurarsi quella stanza non lo sapeva, e neanche voleva soffermarsi troppo a chiederselo. Meglio non farsi domande se non si vogliono conoscere risposte che, in una situazione come la loro, non potevano esser altro che funeste. Lo slum l'accoglie con la sua vita già brulicante. Donne accovacciate fuori dalle loro abitazioni strigliano i figli con spazzole insaponate, altre fanno bollire il chai in piccoli choula sui fornelletti in mezzo al vicolo, gli uomini che si affrettano al lavoro evitano agili gli ostacoli. Swati sorride a quella vita, ma questa la ricambia con sguardi indagatori delle donne e maliziosi degli uomini; non le importa, è normale non fidarsi dei nuovi arrivati. Inizia a percorrere i cunicoli a passo svelto, suda, la baraccopoli non fa passare un filo d'aria, solo fogna e angoscia. Viene sputata sulla strada principale, il cuore dalla quale partono le arterie dello slum. È già in movimento, nonostante a quell'ora non sia ancora assordata dal traffico della giornata, poche saracinesche sono già alzate, perlopiù quelle dei rivenditori di generi alimentari. Swati aspetta il bus sotto a una pensilina di cui è rimasto soltanto lo scheletro di ferro, che probabilmente non sono riusciti a scardinare. Lo slum di Dharavi è un eccezionale esempio di economia circolare, tutto quello che si può riciclare viene passato al torchio di una delle diecimila fabbriche della baraccopoli, anche quello che non sarebbe ancora da riciclare, come i vetri della pensilina dell'autobus. Mentre attende, tira fuori il libro dallo zaino, tra occhiate di uomini che vanno o tornano dal lavoro. Con i suoi profondi occhi nocciola, benché stanchi, i lunghi capelli corvini, benché unti, e il corpo ben fatto che s'intravede tra i vestiti, benché sporchi, Swati non passa mai inosservata, con suo disappunto. Si guarda intorno impaziente, spera che l'autobus arrivi prima della sua amica Ankita, è già in ritardo di due giorni sulla consegna del libro e al momento della sua insolita iscrizione il bibliotecario era stato chiaro. Il ritardo sarebbe stato un valido motivo per sbattere fuori quella ragazza di strada, fin dall'inizio ci avevano provato, non sapevano come comportarsi, non si era mai presentato un problema del genere. La tassa d'ingresso era stata fissata proprio per evitare che gente come lei, beghar, poveracci di strada, usassero la biblioteca come riparo. Impossibile che qualcuno arrivasse con le quattrocento rupie d'iscrizione annuale appallottolate in mano, e accumulate in mesi di pranzi saltati e sigarette rubate e rivendute. Ankita non arriva e Swati si siede grata su uno dei sedili in fondo, aprendo il suo romanzo di Tagore, sono solo dieci le pagine che le mancano, ma sono anche quelle che impiega di più a leggere, tornando più volte sulle stesse frasi. Gli scoppi di urla, di risa, di rumori corporei che la circondano, mentre l'autobus procede sobbalzando, non le fanno alzare lo sguardo neanche per un momento. Quel mondo disordinato le fa paura da sempre, il caos aveva cercato di assorbirla dalla nascita ma lei, caparbia, era riuscita a difendersi con la razionale organizzazione delle pagine scritte. Sospira nostalgica girando l'ultima pagina, fuori dal finestrino lo stradone alberato del quartiere universitario. La pace ordinata dei cartelli che vietano i clacson, il sole che gioca tra le foglie degli alberi secolari, creando chiaroscuri sugli ampi marciapiedi, i massicci edifici in pietra sede di ogni speranza dei giovani indiani. Quello per lei era sempre stato il quartiere dell'amore. L'amore per lo studio, certo, ma prima ancora l'unico amore che avesse mai conosciuto, quello di suo padre, che l'unica domenica libera che aveva al mese la portava lì per farla sognare, in grande, come lui mai aveva potuto. I turni della fabbrica non gli lasciavano vita, tutti i giorni a macerare lattine, tutte le notti a dormire sul pavimento umido per fare da guardiano – “ma ho famiglia”, “o così o come te ne troviamo altri mille” – ma quella domenica, quell'unica, si svegliavano silenziosi, solo lui e lei, sgattaiolavano fuori dalla stazione e con due chapati del giorno prima, e Laxmi che gli urlava dietro, passavano tutto il giorno a gironzolare per quel quartiere dei sogni. - Vedi Saraswati, se sarai brava con le tue borse di studio è qui che studierai, e così potrai fare tutto quello che vorrai, yaar. - Non avrebbe mai potuto deluderlo, nonostante gli incubi che a causa sua avevano vissuto, il periodo in cui l'unica consolazione consisteva nel pensare che in fondo era un po' come vivere in quel verde quartiere visto che l'unico tetto a riparare il loro sonno era il cielo di Mumbai, lo stesso che copriva anche quei luoghi così distanti. Così, tutte le volte che scende dall'autobus, s'inchina di fronte all'albero ai piedi del quale vi è l'altarino della Dea Saraswati, protettrice della cultura e delle arti, sapendo che lui è nascosto lì a vederla camminare fiera verso una lezione, un esame, verso il futuro che voleva per lei. Entra nel grande edificio gremito, e va subito in bagno a darsi una lavata, faccia e mani, quello che riesce prima che una ragazza della quale sente il profumo a distanza, si faccia spazio davanti allo specchio per rinfrescarsi il rossetto. Va verso l'aula e, mentre prende posto, spia i volti sconosciuti. In cinque anni non ha mai stretto amicizia con nessuno, nessun gruppo di studio, nessuna chiacchiera inutile. Ha sempre preferito vivere nei suoi libri, e l'università è l'unico posto in cui può farlo senza che qualcuno le urli dietro. O almeno è quello che si è sempre detta, dal momento che un angolo della sua mente riconosce che la realtà è che nessuno dei suoi compagni ha mai osato avvicinare una come lei: sporca e che ha scritto in faccia il luogo da cui proviene. In ogni caso, lei non avrebbe potuto permettersi neanche un chai con i compagni: il Rotary paga l'istruzione, non la socializzazione. È l'ultimo esame e il naso le pizzica quando il professore dice d'iniziare. Ciononostante non perde un secondo di tempo, e una dopo l'altra risponde dettagliatamente a ogni domanda. Conclude senza intoppi e, a seguito di un lungo sguardo panoramico intorno all'aula, con un sentimento d'addio a serrarle lo stomaco, esce mogia in corridoio, indecisa sul da farsi. Dovrebbe andare al Centro a dare ripetizioni, almeno potrebbe farsi una doccia e scroccare qualcosa da mangiare, ma accantona l'idea quando vede la sua relatrice, i capelli in uno chignon, il tailleur scuro, gli occhiali squadrati e l'andatura altezzosa. - Namaskar, professoressa - saluta, sperando che abbia tempo per darle due dritte sulla tesi. - Namaskar - e prosegue. Abbacchiata, Swati fa per dirigersi verso l'uscita, quando si sente chiamare. - Tu sei Saraswati Naik, giusto? - additandola con l'indice inanellato - mi hai portato il progetto sul metodo montessoriano? - Swati annuisce, avvicinandosi. - Ti avrei chiamato nel pomeriggio per parlarti di una cosa, ma visto che sei qui seguimi in ufficio, ne parleremo subito. - Swati segue la donna a qualche passo di distanza e, una volta arrivate, entra con una spavalderia simulata, per mascherare l'intimorimento provocato dalla scrivania ordinata, il pavimento lindo, i muri candidi che la fanno sentire ancora più lurida e fuori posto. - Ho letto la sintesi che mi hai mandato, è un buon progetto - esordisce la donna, accomodandosi mollemente sulla sedia girevole. - Grazie professoressa, per ora ho fatto solo qualche ricerca - minimizzando le decine di libri che aveva già consultato da un anno a quella parte - ma è un argomento che m'interessa molto. Conosco fin troppo bene la realtà degli asili degli slum e delle altre zone svantaggiate della città, parcheggi dove volano solo botte e noncuranza. Vorrei sviluppare un progetto di riorganizzazione sul modello dei kindergarten, se magari riuscisse a farmi un'autorizzazione per andare a visitarne qualcuno... immagino ce ne siano di privati qui a Mumbai. - La donna sembra più interessata al suo cellulare, che non ha smesso un attimo di guardare, e infatti passa qualche secondo prima di rispondere: - Sì sì, certo, interessante - alza finalmente lo sguardo verso Swati - anche se utopico, ma non è importante, a una tesi non si chiede certo di cambiare il mondo. - Swati aggrotta le sopracciglia, certo non il mondo, solo gli asili. - Ti reputo una brillante studentessa, ancora di più se penso da dove provieni, ed è per questo che vorrei parlarti di un'opportunità. - Swati attende, ancora punta nel vivo del suo idealismo. - Una ONG italiana – sai cos'è una ONG giusto? – offre una borsa di studio a studenti svantaggiati, per un progetto di tesi all'estero. Avresti l'opportunità di scrivere la tua tesi in Italia, e visto che l'argomento mi sembra più che appropriato - la professoressa s'interrompe studiando il volto della ragazza, reso ebete dalla sorpresa - potresti seguire lezioni e fare ricerca all'università di Torino, una delle migliori in questo campo. - Swati rimane con la bocca semiaperta, senza riuscire a emettere alcun suono. Immagini e colori si alternano veloci nella testa. Vorrebbe dire qualcosa ma proprio non ci riesce, e lascia fuoriuscire dalla bocca soltanto qualche vagito. Calde lacrime iniziano a scorrerle sulle guance, un po' per l'emozione un po' per l'angoscia provocata dal pensiero che quel sogno è destinato a infrangersi contro il muro grigio del realismo. La professoressa la guarda con aria interrogativa e si agita sulla sedia, poi riprende a parlare per togliersi dall'imbarazzo: - Devi pensare a cosa questo comporterebbe. Ho viaggiato in Europa, non ci ho vissuto ma l'ho girata - dice orgogliosa, dando la schiena a Swati per guardare fuori dalla finestrella un interessante paesaggio di macerie - e credimi, non è tutto roseo come siamo abituati a pensare. Ma soprattutto, e a questo vorrei che facessi bene attenzione, prima di preparare la domanda per la borsa di studio, dobbiamo avere il permesso della tua famiglia. Mi hai capita? - si volta di nuovo verso di lei e poggia le belle mani fresche di manicure sulla scrivania - è indispensabile prima di muoverci in ogni direzione. - Swati annuisce sicura. Tanto valeva assecondare la donna e vedere dove ciò l'avrebbe condotta. In ogni caso la tesi doveva scriverla, in India o Italia che fosse. Riesce finalmente a proferire parola: - Chiederò subito - gli occhi le si velano di nuove lacrime, le ricaccia indietro con un moto di rabbia - la ringrazio per questa opportunità. - La professoressa sorride benevola, rilassandosi di nuovo contro lo schienale della poltrona. - Sei una delle studentesse migliori e meriti un futuro radioso, lontano da qui. Immaginavo che ti sarebbe piaciuto andare via, e appena sono venuta a conoscenza della borsa di studio, ti ho pensata - ribadisce allungandole dei fogli - questi sono da far firmare a tuo padre. Per la borsa di studio dovrai preparare un saggio di quaranta pagine sulla tua tesi, io posso aiutarti, ma è da presentare entro giugno. Hai due mesi e dovrai impegnarti molto, Swati, il saggio dovrà essere un riassunto esaustivo di quello che sarà il tuo elaborato finale, ma prima di tutto serve l'autorizzazione della tua famiglia - si schiarisce la voce e conclude: - so che non sarà semplice, vista la tua età e condizione, ma cerca di far capir loro che questa è una grande opportunità. - - Sì, cercherò di farglielo capire - dice poco convinta - però mio papà è morto. - - Va bene la firma dell'uomo che ne fa le veci. Dovrebbe essere qualcuno dei tuoi zii, suppongo. - - Suppongo anch'io - sussurra. - Bene - si alza - fai le tue ricerche e torna da me quando sei a buon punto. - Anche Swati si alza, con gambe tremanti. Stringe la mano alla donna, che ricambia con una stretta molle, subito ritratta, di quelle che la ragazza odia. Una volta in corridoio si accovaccia contro il muro e scoppia in una risata isterica, nascosta tra le mani callose che le coprono il volto. Il via vai del corridoio non fa caso a lei, che continua su quella scia per qualche minuto finché, sudata e con una dolce stretta a chiuderle lo stomaco, inizia a correre verso l'uscita con un largo sorriso stampato in faccia. Non vuole pensare alla sua situazione, a sua madre che non l'avrebbe fatta partire perché sennò i fratelli chi li avrebbe guardati? Vuole correre, adesso è felice e tanto basta, quanti pochi momenti di quel puro sentimento le erano stati concessi, corre ed è felice, nient'altro è importante. Dopo qualche chilometro si ferma e inizia a camminare, il naso per aria, l'espressione sognante, l'andatura spedita e ondeggiante. È bella, e la città se ne accorge, illumina la carnagione olivastra di una calda sfumatura dorata, smuove i capelli con una brezza insolita per quel mese, accompagna le movenze del corpo sinuoso con vivaci musiche che escono dai baracchini rivenditori di samoze e guarapao, la megalopoli maltrattata intona tutta se stessa a quella figlia ingrata che pensa alla fuga. È ancora immersa in questi pensieri quando allunga il libro e la tessera della biblioteca all'impiegato dietro la scrivania. - In ritardo di due giorni, tessera annullata. - Lei lo guarda tornando lentamente alla realtà. L'uomo ha il naso grosso, la fronte bassa, lo stomaco prominente che spunta da sopra la scrivania. - La prego - giunge le mani di fronte al petto, supplicando - quella tessera è l'unico modo che ho per leggere. - - No - prende delle forbici dal cassetto - le regole sono regole - dice proprio lui che nasconde una bidi accesa tra la tastiera del computer, perché il culo è troppo pesante per andare a fumarsela fuori. - Ma io non posso permettermi la quota d'iscrizione a un'altra biblioteca, ho già pagato le quattrocento rupie per questa... - - Ti ho detto di no - e, con sguardo maligno, l'impiegato alza la tessera e le dà un secco colpo di forbice. Swati sobbalza. Rimane immobile, lei e l'uomo che sogghigna scoprendo i denti marci si fissano. Swati sta pensando cosa razionalmente potrebbe fare per avere almeno un libro e fregare quello stronzo. Non va orgogliosa degli anni passati per strada, ma qualcosa ha imparato. In casi di estrema necessità e comprovata impossibilità, prendi e scappa. Con uno scatto si piega verso la cesta dei riconsegnati alla sua sinistra, afferra a casaccio alcuni libri, tanti quanti ne riesce ad abbracciare, perdendone qualcuno mentre sfreccia di fronte all'impiegato che non è ancora riuscito a raccapezzarsi. Solo successivamente l'uomo si rende conto dei propositi della ragazza e inizia a urlare e chiamare aiuto, mentre cerca di afferrarla da dietro la scrivania con le sue braccine annaspanti. Esce per strada, i libri minacciano di caderle e lei li sorregge da sotto, sente qualcuno correre dietro di lei e girandosi vede che è l'impiegato, finisce addosso a una donna che la insulta, un libro le cade e si ferma a raccoglierlo, non rischia niente viste le condizioni fisiche dell'uomo. Vede un autobus che sta ripartendo dalla fermata, ricomincia a correre più veloce e salta a bordo mentre le porte si chiudono. L'impiegato sbatte la mano contro la carrozzeria per farlo fermare ma l'autista, da buon indiano qual è, fa finta di niente e l'autobus sobbalza in avanti. Swati si accascia contenta su un sedile di metallo. Guarda i superstiti di quella fuga: sette. Se li stringe forte al petto, sorridendo e sfiorandoli con le labbra. Scorre veloce i titoli: “Tess dei d'Uberville, “I love Shopping”, “Proverbi sufi”, Shining, “Cinquanta modi per avere successo”, “Sapore amaro e Sulla strada”. Li accarezza felice, è la prima volta che possiede dei libri, o qualcosa in generale, e che libri! Una bella varietà di narrativa occidentale, quella che apprezza di più, che le permette di vivere in luoghi lontani, storie per lei impensabili. L'autobus si destreggia tra quella giungla di tuc-tuc inselvatichiti, macchine ruggenti e clacson cinguettanti che è Mumbai. Quando ne ha abbastanza di leggere trame, sfogliare e annusare i suoi libri, Swati scende, persa. Cammina un po' a caso, osservando a lungo i pochi turisti che iniziano a comparire in quella zona della città; la pelle bianca, i capelli leggeri, sembrano tutti bambolotti che vedeva all'asilo delle suore, da guardare ma non toccare. Sta seguendo con gli occhi una giovane in minigonna e gambe lunghe, quando svolta un angolo e si trova di fronte l'oceano. Lui, che altrove fa sentire prepotente la sua presenza, a Mumbai è silenzioso, se ne sta soffocato dal cemento e dai clacson incessanti. Non lo trovi, non ne senti il rumore, non ne senti il respiro. Poi a un certo punto svolti un angolo, sbagli strada, ed eccolo lì, infinito e potente, pronto ad accoglierti per consolarti dalla città impazzita. Con la sua calma ti attende, silente nel concerto di rumori, e finalmente lo sguardo può perdersi all'orizzonte, senza più essere ostacolato da barriere. Quando se lo vede di fronte, Swati si commuove. Lo respira a pieni polmoni e va a sedersi sul muretto a precipizio sull'acqua. Mumbai è bella, ma lei la odia con tutta se stessa. Probabilmente non sarebbe stato così se avesse vissuto in una di quelle case a ridosso dell'oceano, dove tutto è verde e blu, pulito, locali alla moda che costeggiano le strade, locali dove lei avrebbe anche potuto permettersi un caffè, se solo fosse vissuta tra quel verde e blu. La verità è che ha sempre vissuto sul duro di un marciapiede, nel grigio di una stazione, e ora, per quanto grata fosse per la nuova casa, tra i cunicoli senza respiro dello slum, colorati solo dagli abiti delle donne, non dagli alberi, non dall'oceano, a tratti neanche dal cielo. Mumbai dà, Mumbai toglie. A lei ha sicuramente tolto, e gli unici ad averle dato sono stati i ricconi di quel club, quando pescando a sorte dei bambini dalle liste dell'asilo delle suore della carità, è uscito anche il suo nome, godendo così dell'istruzione eccellente delle scuole private internazionali. Due di loro si sono sposate appena finito il liceo, l'hanno comunicato a Swati una sera durante un incontro a una delle annuali feste del Rotary, in cui hanno sfoggiato un perfetto inglese, facendo vedere ai membri che i loro soldi erano stati ben spesi. Ovviamente il presidente aveva intimato alle due di non proferire parola riguardo ai loro imminenti sposalizi, e a Swati di non parlare del cambiamento di liceo. Amit, lui sì che veniva esposto come il fiore all'occhiello dei beneficiari delle borse di studio, certo tutti bravi eh, ma Amit. Il mare le culla i pensieri con il suo moto incessante, anche se sembra quasi fermo, così vicino alla riva della città, melmoso di rifiuti. Cerca fino all'ultimo di non pensare alla sua famiglia, ma poi si costringe a guardare l'ora e scopre che è già pomeriggio inoltrato. Un peso le si posa alla bocca dello stomaco al pensiero di quei volti barricati nelle loro fatiche, di quelle menti limitate da muri crepati; sua madre, eccolo il realismo che prosciuga i sogni. Si avvia tristemente verso la stazione per prendere il treno, la fermata dello slum non dista molto. Il ritorno non ha più le ali ai piedi, ma pesanti macigni che cercano di trattenerla a terra, lontana dalle possibilità che la professoressa, nascosta nel suo tailleur, le ha mostrato. Dal fondo del cunicolo vede i fratelli sul gradino di casa, impegnati in qualche gioco con le mani. Riya le corre incontro appena la vede. - Didi, didi! - urla inerpicandosi. Swati abbandona i libri e se la sbaciucchia, cercando di non far caso alla faccia scura di Laxmi, nascosta nella penombra dell'abitazione. - Siete già tornati? - - Sì, oggi al Centro ci hanno mandato via prima perché la Madame aveva da fare e tu non c'eri. - Swati si sente in colpa. - Dovevi essere qui prima, sai che me ne devo andare, yaar. - - Scusa, l'esame è durato più del previsto. - La madre sbuffa e non risponde, poggia il coltello accanto alle verdure che stava pelando e si alza. - Cosa sono quelli? - indica col mento la pila di libri che Swati ha ordinato in un angolo. - Libri... - lo sguardo di Laxmi è contornato da occhiaie violacee, Swati si pente della risposta e cerca di rimediare: - me li hanno regalati... - - Allora li vendiamo. - - No no, devo riportarli all'università. - - Ma non hai detto che te li hanno regalati? - - Prestati, volevo dire prestati. - Disinteressata, Laxmi prende a spazzolarsi i lunghi capelli, unico oggetto delle sue cure più amorevoli. - Finisci tu con le verdure, poi le metti a bollire e fai il daal. - Prendendo a tagliare le patate, Swati guarda la donna che si passa un velo di rossetto sulle labbra. È ancora bella se guardata in quella luce, la carnagione accesa dalle ombre arancioni del sole morente, le occhiaie mascherate dalla luce fievole proveniente dalla porta. Raccatta coltello e verdure e si muove in direzione della porta, non volendo guardarla per non doversi chiedere il genere di lavoro che la fa uscire al tramonto e passare la notte fuori. - Resta dentro che ti guardano, yaar. - - Ma sento caldo. - - E secondo te io non ne ho? Li hai visti quelli, come ci guardano? - prende la borsa sfondata da un angolo - resta dentro. - Swati obbedisce e il respiro si fa corto. Cerca di fare respiri profondi ma le sembra che Laxmi, con i suoi movimenti pesanti, consumi tutto l'ossigeno. I fratelli fanno irruzione nella stanza, lei li scaccia con un gesto veloce della mano ma loro sono abituati a disubbidire e le si mettono intorno. Chiude gli occhi, poggia la schiena al muro e cerca di respirare. Ripensa alla stazione che l'ha accolta negli ultimi tre anni, lì di ossigeno ce n'era, benevola stazione, sicuramente più del pezzo di marciapiede dove aveva iniziato la sua vita di strada, esposto alle intemperie e all'apertura dei grandi magazzini che non volevano i pezzenti sotto le scarpe dei loro clienti. La pelle s'imperla di gocce di sudore, i muscoli si contraggono, il cuore accelera sempre di più. Vede le ombre dei fratelli tra le palpebre abbassate, sta anche calando la notte, non uscite habibi, restate in casa che il buio è cattivo. Il respiro le si fa sempre più corto. Amit chissà dove, mesi che prova a chiamarlo senza ricevere risposta, ma sa che ancora l'ama, loro erano e loro sempre saranno. Si alza a fatica, con le membra tremanti, vuole sottrarsi agli sguardi ingenui dei fratelli e a quelli incuranti della madre, va a sedersi sul gradino, non le interessano gli occhi scuri che la scrutano sdegnosi, perplessi, indagatori. Il cervello non riceve più ossigeno e i pensieri non riescono a formarsi. Riya la raggiunge e la scuote dal braccio. Si volta, se la prende tra le braccia, la stringe convulsamente a sé, probabilmente le fa male ma la bambina non fiata, sarà una brava donna indiana, non un lamento. Incatena lo sguardo al suo, un appiglio nel nulla. Il respiro inizia a rallentare e la stretta allo stomaco si dissolve, i pensieri rifluiscono. Quel volto innocente, che ancora non conosce l'ingiustizia della sua nascita, e che se tutto va come deve andare – scuole elementari e pulizie nelle case dei ricchi fino al matrimonio – non lo saprà mai. Si chiede se non avrebbe vissuto meglio così, nell'ignoranza. Forse il Rotary non le ha fatto questo grande favore. Non stacca gli occhi dalla sorellina e nel panico un pensiero le balena veloce: sarebbe meglio non fosse mai nata. Fuori le strade sono ancora poco trafficate, e la gente porta a spasso i cani nel giardinetto “riservato agli amici a quattro zampe”, sette piani sotto il suo appartamento. Un'anziana impellicciata prende in braccio, spaventata, il suo barboncino con il cappottino, minacciato da un pastore tedesco al quale era stato sottratto il suo pezzo di sabbia. La ragazza guarda con noncuranza la scena, bevendo l'ultimo sorso di caffè, e si allontana dalla finestra ragionando su come gli esseri umani si sentano in obbligo di rendere importanti le banalità, pur di non cadere nella vuota noia delle loro esistenze. Un po' troppo per le sette del mattino. Si butta stesa sul divano a mezza luna, con le braccia spalancate, la bocca aperta in un grido muto e le mani che convulse si stringono in due magri pugni. Le piace dipingere al buio e affrettarsi alla finestra al primo spiraglio di luce, le dà l'idea che ci sia ancora speranza per tutto; al suo futuro di pittrice così vago e al tedio che costante l'attanaglia. In fondo c'è sempre una luce che sorge e risorge nonostante la notte, perché non dovrebbe essere così anche per la sua vita? Ma alle sette e mezza, dopo due ore di sigarette e di andirivieni per casa, sporca di tempera, si sente già stanca. Il sorgere della luce l'ha visto, la speranza non l'ha riacquisita e potrebbe anche tornarsene a dormire. Proprio quando sta per accogliere questo pensiero, suona il campanello. Si tira su di scatto. - Ma chi cazz... - borbotta, alzando il ricevitore e sbuffando quando vede l'immagine della donna delle pulizie sullo schermo. - Diana cosa vuoi a quest'ora? - - Buongiorno signorina, sua madre mi ha detto di venire alle otto e mezza, che tanto lei deve andare all'università - tutto d'un fiato, le nuvolette di freddo che le escono dalla bocca testimoniano che i giorni della Merla ancora non sono finiti, gli otto gradi mattutini di aprile fanno rabbrividire Becca, e le tolgono ogni voglia di andare all'università, se mai l'avesse avuta. - Ma sono le sette e mezza. - Sguardo perso, la donna inquadra un orologio da polso. - No, le otto e mezza signorina. - - Va be', vieni su - e apre. Controlla, l'Iphone segna le sette e mezza. Lo mette davanti al naso della donna appena varca la soglia. - Non capisco, signorina - le fa rivedere l'orologio - oh - borbotta, mettendosi le mani ai lati del viso, come per nascondere il rossore che non sarebbe mai potuto trasparire da sotto i tre strati di fondotinta - sono stata in Romania proprio la scorsa settimana, sa che mio figlio... - Becca fa un vigoroso cenno d'assenso, anche se non sapeva che suo figlio... - Be', e poi, ho lasciato l'orologio sull'ora della Romania. - - E io cosa faccio adesso? - chiede allargando le braccia - sono costretta ad andarmene dalla mia stessa casa - marciando in camera e tuffandosi dentro il suo armadio multicolore, rigurgitante stoffe. - Visto che hai tutto il tempo, mettimi a posto anche l'armadio! - urla, maledicendo le stagioni intermedie durante le quali non sa mai come vestirsi. Jeans skinny e un maglione stile “trovato nel cassonetto” che aveva pagato cento euro ai saldi precedenti. Passa in bagno e ne esce mezz'ora dopo perfettamente truccata. - Io vado, chiudi bene la porta quando esci. Ah... - si affaccia di nuovo in salotto - e non toccare tele e colori! - - Neanche i pennelli che sono finiti sul tappeto persiano di sua madre? - - No, neanche quelli, se sono lì c'è un motivo. - - Va bene signorina Becca, buona giornata. - Mentre è in ascensore, il telefono le squilla: sua madre. Aspetta che finisca di suonare poi chiama la sua migliore amica. Un mugugno dall'altro capo di Torino. - Oh Lizia, com'è? - nessuna risposta - va be', ci vediamo all'aperitivo stasera, otto in Sansa - e mette giù, conoscendo l'inutilità di discutere con l'amica a quell'ora della mattina. In strada vede la sua Cinquecento corredata di una multa. Sbuffa. La madre chiama di nuovo, questa volta risponde. - Ciao Ma' - - Ciao amore, come va? Perché non rispondi? - - Male, mi hanno fatto la multa e tu mi mandi Diana all'alba - dice con voce lamentosa, schivando agilmente la seconda domanda e due pedoni. - Ti ho detto di non parcheggiarla sotto casa, e Diana te l'ho mandata presto così saresti stata obbligata ad andare a lezione. - - Oggi iniziava dopo - mente, non ha la più pallida idea degli orari delle sue lezioni. - Puoi andare in biblioteca - saluti indistinti: “lezione fantastica, baci tesoro, a domani”. Becca sbuffa sonoramente. - Ricordati solo che la prossima settimana torna papà e una sera dobbiamo andare a cena dai nonni. - - Ah bene, bello! - esclama con un picco di vivacità sincera nella voce. - Va bene, buona giornata amore. E mandami la multa così te la pago - . Quindici minuti dopo, parcheggia di fronte all'università. Rimane a fissare il vuoto, cosa si fa a quell'ora? È pieno di matricole che volenterose si dirigono a lezione. Scende, inizia a bighellonare, si sente persa in quel grigio mattino, sola nello spazio estraneo. Qualcuno la chiama dai tavolini del bar, ma certo, il bar. - Non credo ai miei occhi, Rebecca all'università a quest'ora, Rebecca all'università in generale! - Becca sorride felice al suo salvatore. - C'è stato un misunderstanding - faccia schifata - scusa, non so perché me ne esco con questi inglesismi, che odio. - - Dai che per celebrare ti offro un caffè. Come vanno gli ultimi esami? - - Ho fatto una cazzata a lasciarmi i più difficili per ultimi - si appropria senza tante cerimonie del caffè che il ragazzo aveva ordinato e questo, sorridendo indulgente, ne ordina un altro - ho provato a darli la scorsa sessione ma ho toppato. I professori sono anche delle merde, eh - si lamenta, rollandosi una sigaretta. - Sai che io ti do ripetizioni volentieri. - - Sì, so che ripetizioni vorresti darmi tu. - - Sei ancora fidanzata? - Lei fa lentamente cenno di sì con la testa, guardandolo negli occhi, con la poca luce che traspare dalle iridi azzurre quasi completamente nascoste dalle palpebre pesanti. Il ragazzo sbuffa. - Tanto non è un problema, vero? - - Il fatto che sia fidanzata non è un problema, il problema sei tu che mi stai addosso da cinque anni. Ora vado - dice alzandosi e lasciandolo con uno sguardo abbacchiato. - Ma dai, adesso c'è bioetica - - Bioetica, oddio, noiosa, sacrificabile. E anche fottutamente incomprensibile. - - Rimani qui, l'ho passata bioetica, te la spiego io. - Becca guarda i brufoli rossi in procinto di scoppiare, e prova un brivido di ribrezzo. - No, vado... ma ti prometto che se non riesco a passarli neanche la prossima sessione, ti chiamo - dice prendendo il mento del ragazzo tra le dita e dandogli un bacio sulla guancia. Lui sta per dire qualcosa ma lei scappa via. Mentre trotterella verso la hall, saluta ancora un po' di persone e, prima di arrivare di fronte all'aula, ha già cambiato idea diverse volte, alcune delle quali tornando sui suoi passi in direzione del bar. Quando finalmente spinge la porta dell'aula, la lezione è già iniziata e molti strabuzzano gli occhi mentre si dirige al posto. Si siede all'ultimo banco e tira fuori l'autobiografia di Simone De Beauvoir, che vuole finire per metterlo accanto alla prima parte già in libreria. Ascolta con un orecchio il professore, mentre con gli occhi vola sulle righe. Dovrebbe concentrarsi, prestare attenzione... ma per cosa? Ciò che aveva studiato per anni, interessandosene a tratti, si era trasformato in un cumulo di seghe mentali. Le era sempre piaciuto filosofeggiare, ma quando si trattava d'incanalare i suoi svarioni nel sistema burocratizzato dell'università, perdeva tutto lo slancio. Continua a leggere fino alla fine della lezione, senza prestare neanche più una delle orecchie al professore. - Ciao Bec, che strano vederti qui - la saluta un ragazzo che a Becca non sembrava d'aver mai visto prima - hai perso tante lezioni, ti passo gli appunti se vuoi - si guarda intorno poi, prendendo coraggio: - possiamo studiare insieme un giorno se ti va. - Becca gli sorride. È brutto. La fronte bassa, la mascella glabra, i muscoli che schizzano fuori dalla maglietta, tutto ciò che più odia. - Sì, magari - risponde con la solita condiscendenza che lei attribuisce alla sua incapacità di ferire. Il sole timido di aprile non scalda ancora abbastanza e i Giardini Reali sono quasi vuoti. Tanto vale respirare un po' d'aria fresca mentre finisce il suo libro, meglio che stare chiusa in un'aula con persone che rischiano d'infettarla con la loro pedanteria. Si siede contro l'albero e prima di iniziare la lettura risponde ai WhatsApp. Conferme per la serata e un messaggio di Alessandro: “Ti raggiungo per pranzo”. “No, devo finire il libro”. L'emoticon sbuffa. “Ok, ci vediamo stasera allora?”. “No, esco con gli altri”. Tre emoticon che sbuffano. “Ma noi non ci vediamo mai?”. “Te l'ho detto. Dovevo finire un quadro, e stasera voglio vedere i miei amici. Non mi sembra un granché, ho anche bisogno dei miei spazi”. Nervosa mette il cellulare in borsa, nonostante l'abbia sentito vibrare un'ultima volta. Poi si sente in colpa e lo riprende. “Ti amo. Ma prometti che domani ci vediamo”. “Va bene. Ti amo anch'io”. Un sorriso sfugge a quelle labbra stizzose, e con la coscienza a posto, addenta il suo toast e finisce il libro.
Salta le ultime due ore di lezione, troppo spossata dalla lettura forsennata, troppo presa dal Cafè de Flor, dalla Sorbona, da tutti quei posti e quei tempi in cui sicuramente la vita era più leggera, non come lei, intrappolata, cosa avrebbe potuto fare se non andare a casa a dipingere, l'unica cosa che ha il potere di sradicarla da quella sua insulsa esistenza? Prima di salire in casa, si ferma alla sua libreria indipendente preferita per comprare la terza parte dell'autobiografia. Non che l'avrebbe letta subito, aveva sempre seguito un rigido schema di variazione della nazionalità e del tema dei libri che leggeva, per non rischiare che un reparto della libreria sia più appesantito di un altro. Quando entra in casa, respira a pieni polmoni l'odore di pulito. Guarda le tele, un senso di apatia le si diffonde per il corpo. Oggi non le va, la creatività non ha proprio voglia d'insinuarsi in lei. Si spoglia e, annoiata, si stende sul divano per schiacciare un pisolino preparatorio alla serata che l'aspetta.
***
- Allora, quanta ne vuoi? - chiede il nord-africano, gettando occhiate furtive a destra e a sinistra. - Dammene tre - risponde Becca, aggiustandosi i capelli dietro l'orecchio. Guarda verso la macchina, dove i suoi amici la aspettano ridendo mentre si scolano una bottiglia di Prosecco. Lo spacciatore muove la lingua, e dopo qualche secondo estrae dalla bocca tre palline bianche. Le passa a Becca, che le infila in fondo alla tasca dei pantaloni in similpelle neri, e si pulisce la mano sul cappotto. - Sono duecentocinquanta. - Becca lo paga e si allontana. Si dirige verso la macchina e sale, sbattendo forte la portiera. - Non capisco perché devo sempre andarci io - dice, accendendo il motore. - Be', ormai conosce te, è meglio così - risponde Lizia, scolandosi quel che rimane del vino. Becca si gira verso Lorenzo, seduto accanto a lei. - Concordo, il gancio è tuo. Fosse ancora in giro il mio, ma l'hanno blindato qualche settimana fa. È già tanto se non mi hanno chiamato in caserma. - - Io è già tanto se riesco a tenere il piano - brontola Lalla, abbandonandosi sul sedile posteriore. Becca apre il cruscotto e tira fuori un anacronistico CD dei Gun's and Roses, “Appetite for distruction”. - Tieni, stendile qui - dice lanciando dietro di sé la custodia del CD e la cocaina a Lizia. Mette in moto e parte. Costeggia il Valentino. La città si dipana fredda e ancor umida dell'ultima pioggia. Le luci dei lampioni gettano un caldo alone arancione sui ponti intasati dal traffico del giovedì sera, quando all'ora dell'aperitivo tutti si riversano in strada per brindare alla settimana quasi finita, e lavorare l'ultimo giorno in post sbornia. Il Po scorre placido e nero sotto la città in subbuglio, pazientemente in attesa di essere il protagonista di qualche folle avvenimento. Torino scorre accanto a loro, ormai in preda all'euforia della coca, persi in divagazioni uguali a tutte le volte che si trovano in quelle condizioni psico-fisiche. - È che non voglio finire come mio padre, dieci ore in un cantiere grigio. Io voglio vivere per l'arte, solo per quella, il lavoro è per me bruttura e dissipazione di bellezza. Non mi sembra dia contributo alcuno all'umanità - straparla, le piace andare contro il senso comune e creare un po' di fermento intorno a lei. Lorenzo abbocca sempre e ribatte: - Non si vive per contribuire all'umanità ma per contribuire a se stessi e così poi all'umanità tutta, se ognuno s'impegnasse a fare la sua parte - la guarda di sottecchi - ma nel caso particolare di tuo padre, è anzitutto per contribuire alla tua casa, ai tuoi anni fuoricorso e alla tua coca. - Becca gli lancia uno sguardo torvo, sta per ribattere quando il telefono le squilla. Gli altri tirano un sospiro di sollievo, già vaticinando una lunga diatriba. - Ciao Ale - risponde, seccata per l'interruzione. Brusìo indistinto al telefono, tutti guardano fuori dal finestrino, tranne Lizia, che tiene lo sguardo incollato al cellulare. - No, non vengo a dormire da te dopo, ti ho detto che ho bisogno di una serata con i miei amici - un secondo di silenzio e poi riprende: - e neanche puoi andare tu ad aspettarmi a casa, ci vediamo domani. Ciao - attacca e ripone il telefono nel porta bicchiere. - Ovviamente niente menzione alla coca appena lo vedete. - - Ma non si rende conto delle stronzate che gli propini? - chiede Lizia, tirando su col naso. - No, e comunque non gliene propino così tante come pensi tu. - - È vero, solo una o due volte la settimana - concorda Lalla dal sedile posteriore. - Esatto, e neanche tutte le settimane - aggiunge cercando parcheggio - credo comunque che sia necessario, bisogna sempre mantenere la propria individualità anche quando si condivide la vita con un'altra persona. Non sarebbe giusto se sapesse tutto di me. Perderei quell'aura di mistero che continua a mantenere viva la nostra relazione, anche dopo sei anni. - - Non so, Bec - interviene Lorenzo - da qualche tempo a questa parte sei di nuovo più irrequieta, sembra tu stia entrando in un altro di... - virgolette in aria con le dita, girandosi verso gli altri per cercare approvazione - “quei periodi”. - - Ma quali periodi - s'innervosisce, cosa possono capirne loro, ci prova comunque - è che ho trovato un'altra tecnica che sto esplorando e non posso sempre stare a contatto con gli esseri umani, l'arte richiede sacrifici e io sono un'artista, mi sacrifico volentieri - sottolineando il concetto con una brusca sterzata per parcheggiare sul marciapiede. Vede Lorenzo fissarla per qualche istante poi, scuotendo la testa: - Va be', facciamocene un'altra qua prima di andare. - Dieci minuti dopo, i quattro scendono e si tuffano nel giovedì notte torinese. - Ehi Becca, com'è? - la saluta il tizio con lo Spritz in mano, davanti alla porta del 121, il loro locale preferito per l'aperitivo. - Ciao Fil, tutto bene e tu? - - Bene grazie. E... - sta per chiedere Fil, ma Becca è già sparita. Si muove flessuosa da padrona di casa, scansa camerieri e tavolini, dispensa saluti allegri e sorride ai quattro angoli. È il suo locale. Si capisce da come saluta con calore il proprietario, che subito le riempie il bicchiere del suo vino preferito. Gli indomabili capelli biondi non si fermano un attimo, qualche parola con uno, qualche risata con un altro, senza mai soffermarsi. Le persone la guardano destreggiarsi e si chiedono cosa la renda così magnetica. Non è certo la più bella. I denti sono troppo distanziati, mentre gli inferiori si accavallano leggermente, cosa che rende il suo sorriso bisognoso di un apparecchio. Una pancetta leggermente pronunciata testimonia la fatidica passione per l'alcol e il buon cibo, e la gobbetta accennata del naso stona con le proporzioni del viso minuto. Ma si percepisce qualcosa che le pulsa dentro, una calamita sensuale che attira le persone, uomini e donne, a lei. Imbriglia con la forza del sorriso e la sinuosità delle movenze, spicca per la vivacità della parlantina e l'esplosione della risata. Dopo mezz'ora di saluti e chiacchiere superficiali con i presenti, torna dai suoi amici, che nel frattempo hanno ordinato due bottiglie di vino e un tagliere di salumi, per abitudine quest'ultimo, in serate come quella è destinato a rimanere intatto. - Sei tornata - dice Lizia, guardandola sarcastica - lungo giro di saluti per una antisociale. - - Ma no, dalle cinque in poi io adoro l'umanità. È prima che ho qualche problema con gli esseri viventi. - Gli altri due ridacchiano, ma non Lizia e Becca, che rimangono a fissarsi negli occhi. Cala il silenzio, da qualche tempo tra le due si avverte una strana tensione. Lalla lo rompe, inconsapevole, con voce lamentosa: - Che palle ragazzi, siamo di nuovo qui. E pensare che un mese fa, a quest'ora, eravamo a fare aperitivo a Barcellona. - - Giusto, a Barceloneta e io mi stavo baccagliando quella bionda micidiale - dice Lorenzo con gli occhi sognanti. - Guarda che quella ti sembrava micidiale solo perché avevi già buttato giù una pastiglia con due litri di Sangria - s'intromette Lizia. Tutti ridono, ripensando a un Lorenzo in botta alle nove di sera che si struscia dietro una quarantacinquenne ubriaca che si muove disarticolata al ritmo della musica elettronica. Becca non ha voglia di ridere, la cocaina la rende seria e pensierosa, le membra rigide, osserva i suoi amici e si perde in elucubrazioni sul loro conto. Ne avevano passate insieme. Lorenzo lo conosce dall'asilo, stesse scuole, stessa classe. Solo all'università le loro strade si sono separate, lui scegliendo scienze politiche per inseguire il suo sogno di diventare presidente regionale, Becca scegliendo filosofia per inseguire il suo sogno di rimanere disoccupata a farsi mantenere da suo padre. Lorenzo è stato il classico ragazzo modello conteso da tutte le ragazze della scuola, bello e modaiolo. Ora non più così modello, ma sicuramente ancora bello e modaiolo. Sono amici da sempre, si ubriacano e fumano canne a casa di Becca senza che mai il minimo desiderio sessuale disturbi la loro amicizia. Gli vuole bene, anche se non pretende di intavolare con lui discorsi troppo astratti da farlo smarrire. Lizia, brutta abbreviazione che Becca ha trovato al nome Letizia, è invece un'amica più recente, dell'università. Conosciute alla prima festa della loro lunga carriera universitaria, da allora sono pressoché inseparabili: pranzi, cene, feste e un improbabile gruppo di studio misto giurisprudenza/filosofia che finisce puntualmente in caciara al bar dell'università. Nonostante questo, non la considera come la sua migliore amica: c'è qualcosa che le impedisce di andare oltre i corti capelli castani e il sorriso sarcastico. Soprattutto da un anno a quella parte, soprattutto in presenza di Alessandro. Becca posa lo sguardo su Lalla, una figura sfumata ai margini del loro gruppetto. Studentessa di lettere, Becca l'ha conosciuta per caso a un corso che avevano in comune. Manteneva le distanze come con tutti i suoi compagni, ma un giorno che le servivano degli appunti l'aveva approcciata ed erano uscite insieme dall'università. Malauguratamente Lorenzo stava aspettando Becca ai piedi delle scale, e appena vide quella moretta dal volto pallido, restò folgorato. Da allora Becca è stata obbligata a chiederle di uscire sempre più spesso, e Lalla ha accettato visto che da quando ha trovato il suo ragazzo a letto con un'altra, ha perso non solo lui ma anche tutto il suo giro. Becca prova un'indifferenza notevole nei suoi confronti, dimostrata dal fatto che spesso se la dimentica nei locali e, più di una volta, se n'è andata lasciandola a piedi. Quando si riscuote dalle sue elucubrazioni, si accorge che gli altri stanno ancora ricordando le loro due settimane a Barcellona; i DJ ascoltati, le droghe provate, le scopate avvenute. Becca cerca di nuovo di estraniarsi. Odia i ricordi, sa che quei momenti sono trascorsi e mai più si ripresenteranno le stesse congiunture che hanno reso quegli attimi così memorabili. Questo le comprime la bocca dello stomaco, perché le sembra che si stia lasciando tutto il meglio alle spalle, senza nessuna prospettiva ad allietarle il futuro. - Oh ragazzi, andiamo? - fa finta di chiedere, anche se tutti sanno che è più un ordine. - Sì, facciamo un salto in San Salvario a berne una e poi andiamo a ballare. - - Buona idea, è proprio ora di farsene un'altra. -
Valentina Gemesio
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