
Era un pomeriggio estivo, il caldo avvolgeva la città e spingeva i suoi abitanti a non avventurarsi all'aperto se non necessario. Gli unici che si vedevano allegramente e rumorosamente contenti di starsene sotto il sole facevano parte di orde chiassose che si tuffavano nelle acque, anch'esse esageratamente calde, delle piscine dei parchi acquatici, o dello stuolo di carne stesa a rosolare sulle spiagge. In giro per le strade della città invece si incontravano solo veicoli a due ruote o dotati di potenti condizionatori. Gente a piedi se ne vedeva assai poca. Tutti i servizi meteorologici stavano seminando il panico da alcuni giorni ricordando che l'Italia era investita da una “bolla africana”. Così viene chiamata l'area di alta pressione proveniente dal continente nero che porta stabilità climatica, alta pressione, caldo elevato accompagnato da un alto tasso di umidità e assenza totale di nubi. Un cocktail micidiale per chi soffre di difficoltà respiratorie o cardiache. Micidiale anche per il paesaggio. L'estate del duemiladiciassette in Italia sarà ricordata come una delle peggiori stagioni per quanto riguarda gli incendi boschivi. Centinaia e centinaia di ettari di vegetazione andati in fumo, migliaia di uomini e mezzi impegnati in una lotta impari senza sosta per tutto il periodo compreso tra giugno e settembre, per terra e per cielo, con ogni mezzo disponibile. Quando la luce accecante del sole lasciava il posto al buio notturno, che comunque non dava nemmeno la sensazione di sollievo tanto minimo era l'abbassamento delle temperature, il paesaggio, perlopiù collinare della penisola centro-meridionale, sembrava popolarsi di disegni contorti dipinti con le fiamme ardenti degli incendi ancora attivi. Il fatto che la maggior parte di essi fosse di origine dolosa, o quanto meno colposa, faceva montare dentro una rabbia che bruciava tanto quanto il calore del sole. Questa piaga non aveva risparmiato neanche le vicinanze di Alcamo, sopra cui era un via vai di Canadair ed elicotteri antincendio che squassavano il silenzioso pomeriggio alternando il rombo delle eliche al sibilo delle turbine. L'arrivo del mastodontico elicottero Sikorsky, soprannominato Sky Crane o gru volante, aveva definitivamente messo fine alla quiete soporifera degli abitanti della cittadina siciliana. Contemporaneamente anche i partecipanti ad una riunione all'interno di un palazzo di quattro piani in via Armando Diaz iniziavano a dare segni di insofferenza a quel frastuono accompagnato da vibrazioni che facevano tintinnare i vetri delle finestre della grande stanza al centro della quale si trovava un tavolo sufficientemente ampio per ospitare tutti i partecipanti alla riunione. “Ma è mai possibile che questi qui vengano a rompere i coglioni qui sopra? Ma non hanno di meglio dove andare a scassare la minchia?” A parlare era stato Leoluca Greco, boss dell'omonima famiglia mafiosa che possiamo considerare il padrone di casa per l'occasione, colui che stava ospitando il summit malavitoso al secondo piano di questo edificio, all'interno di un appartamento ufficialmente di proprietà di un poveraccio che per trecento euro aveva messo una croce, o poco più, sopra un documento che un notaio compiacente, per trentamila euro stavolta, aveva ufficializzato essere suo. Chissà tra l'altro se questo prestanome era ancora vivo o se per l'euforia di possedere tutti quei soldi tutti assieme non si era fatto esplodere il fegato in uno dei squallidi bar che di solito frequentava. “Stai calmo Leo. Non vedi che tra poco le fiamme arrivano in città dal bosco lì di fronte? Dovresti essere contento di sentire tutto sto frastuono perché quell'affare sta qui per mettere fine a quel casino. Magari fossero stati da me la settimana scorsa. Una fattoria di famiglia mi è andata completamente distrutta dalle fiamme. Quindi ti prego, calmati e proseguiamo”. A rispondere a Leoluca Greco fu Nino Napoletano. A dispetto del nome, Nino era calabrese, di Catanzaro. Anch'egli a capo di una organizzazione malavitosa. Doveva la sua fama e la sua ricchezza all'intuizione che anni prima aveva avuto il padre, Salvatore, che fu uno dei primi a stringere patti di collaborazione con i produttori di droga sudamericani. Tuttora gli affari con i cartelli della droga andavano a gonfie vele e Nino li voleva ulteriormente espandere. “Ma parli pure?” Gli fece eco Leoluca sottolineando la frase con una sonora risata per poi proseguire “ma lo sanno tutti che ti sei fatto risarcire dall'assicurazione il controvalore equivalente del triplo della capienza delle stalle della tua fattoria”. “E mi farò pure risarcire dalla Regione” gli rispose subito Nino ridendo rumorosamente a sua volta. Ritornata la calma tra i presenti, Leoluca Greco prese la parola “siamo qui riuniti oggi per discutere di una cosa importante” disse guardando negli occhi a turno tutti gli astanti. Dopo una pausa ad arte, fatta durare alcuni lunghi secondi, riprese “Tommaso Leone ci vuole fottere!”
(.....)
Tutti i notiziari della sera diedero la notizia del crollo nella cittadina siciliana con servizi riprese ed immagini scattate sul luogo della tragedia. Seguirono interviste e resoconti inerenti le vittime ma tutto risultò molto vago sull'identità dei feriti. Identità che non lasciò indifferente la polizia che da tempo seguiva i movimenti e le tracce di alcuni malavitosi con l'intento di arrivare ai piani alti della criminalità. Era in quest'ottica che mentre i feriti lievi venivano seguiti a distanza con molta precauzione per non destare alcun sospetto, Gennaro Esposito era sorvegliato molto da vicino approfittando del fatto che nessun parente o conoscente, a differenza di tutti gli altri, si era presentato al suo capezzale. Un agente travestito da infermiere aveva il compito di intervenire non appena avesse ripreso conoscenza. La ghiotta occasione di poter interrogare da solo, prendendolo alla sprovvista, un componente di uno dei tre clan che stavano sicuramente complottando nulla di buono, era troppo allettante per farsela sfuggire. Fu così che quasi immediatamente venne in mente al questore di Palermo, il dottor Gino Rizzo, di inserire un agente della questura nell'ospedale per poter raccogliere più informazioni possibili. Esposito aveva sofferto uno schiacciamento toracico ed aveva perso conoscenza. In definitiva non aveva riportato altri danni di rilievo ma era comunque stato trasportato al reparto rianimazione. Il poliziotto mandato dal questore Rizzo era consapevole che nel giro di pochi minuti Esposito si sarebbe risvegliato. Si stava preparando mentalmente per assolvere al meglio il suo compito quando fecero irruzione due uomini vestiti come lui che spingevano una lettiga vuota che accostarono al letto su cui era coricato Esposito. “Ehi? Che state facendo?” Chiese esterrefatto il poliziotto. “Lo stiamo trasferendo a Palermo” rispose uno dei due. “Non se ne parla nella maniera più assoluta” replicò il poliziotto. “Per cortesia si sposti e ci lasci lavorare” rispose in tono secco l'altro uomo. “Nessun medico ha acconsentito a questo. Fermatevi, chiamo subito un medico e vediamo chi ha ragione.” “Tu non chiami nessuno!” Intervenne nuovamente il primo uomo, e mentre lo diceva si scostò il camice lasciando intravedere il calcio di una pistola sistemata all'interno di una fondina ascellare. Il cervello del poliziotto incominciò ad accelerare i suoi processi mentali a ritmo vertiginoso, stava valutando i rischi di mostrare anch'egli la pistola, oppure mostrare il distintivo da poliziotto oppure entrambi. Ma loro erano due e lui era solo. Di chi si trattava? Sicuramente uomini del suo clan, che se lo venivano a riprendere. Pronti ad usare quell'arma. Uomini abituati ad usarla, non come lui che la impugnava una volta ogni tre mesi quando si recava al poligono di tiro. Decise di lasciarli agire e di non intervenire. “Ecco bravo, vedo che sei ragionevole” disse il secondo uomo mentre stava sistemando la flebo sulla lettiga dove già avevano trasferito Esposito. E così come erano apparsi se ne andarono.
Stefano Micheletti
|