Viaggiare quando era più complicato
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Anni sessanta. Le vacanze estive.
All'epoca del boom economico avevo circa dieci anni. Come da tradizione la famiglia era capitanata da mio padre, geometra in un'azienda privata, sostenuta da mia madre, casalinga, zavorrata mio fratello più piccolo e da me, accompagnata dai miei nonni materni, che vivevano con noi. La tipica famiglia monoreddito di quel tempo, con mutuo e tanta voglia di fare. Capacità di risparmiare e volontà di raggiungere un livello di tenore di vita rassicurante. Ci eravamo trasferiti a Roma, vicino al Forte Boccea, in quello che all'epoca ci sembrava un piccolo appartamento e che invece oggi molte famiglie vorrebbero avere. Mio padre pugliese, mia madre abruzzese, io nato a Roma e mio fratello in provincia di Salerno, durante un nostro breve periodo di permanenza in quella zona per motivi di lavoro. Lo sottolineo perché sorrido sempre di fronte al campanilismo becero di questi tempi. Ho trascorso tutta la mia vita a Roma e ho conosciuto pochissimi soggetti veramente “romani”. Forse in natura i romani non esistono nemmeno, così come probabilmente i milanesi. All'epoca della conquista della capitale e dell'unità d'Italia, in città vivevano circa centomila abitanti. Il referendum del 1971 ne ha contati più di tre milioni. Da dove sono arrivati? Non certo dalla procreazione. Gli abitanti di questa città non brillano certo per l'attivismo e in questo campo non possono aver avuto un tale exploit. La realtà è che negli ultimi centocinquanta anni della nostra storia le grandi città sono state calamite che hanno attratto e attraggono ancora dalla provincia. Mescolando provenienze, culture locali e lingue. La famiglia di mia moglie è genovese e dopo cinquant'anni di permanenza a Monteverde è un piacere e un divertimento sentir dire a mia suocera: “Vabbene”, tutto attaccato, con due B e le E aperte. Ritornando al punto, in quegli anni si lavorava, si risparmiava e ci si indebitava. Per la casa e specialmente per l'automobile. Che rappresentava uno status sociale. La nostra era una Fiat 600 due porte, con un paio di optional formidabili. Aveva l'apertura degli sportelli non più controvento e la cilindrata aumentata a 750. Targa: Roma 549503. Le auto della capitale avevano il privilegio di non dover usare il codice della provincia nelle targhe, ma il nome per esteso della città. La nostra auto aveva anche un soprannome. La chiamavamo “Micetta” e ci dava una libertà di movimento formidabile. Essenziale innanzitutto durante le vacanze estive, che passavamo rigorosamente nel paese di origine di mia madre. Villa San Vincenzo, frazione di Guardiagrele, nel chietino. Cosa mancava all'epoca di cui oggi non potremmo assolutamente fare a meno? Mancava l'autostrada. La Roma-Pescara, che nel primo tratto si chiama A24, fino alla Valle del Torano, e poi diventa A25. Questa autostrada, che è stata inaugurata nel 1969 e completata nel 1978, congiunge Roma con l'Abruzzo, il Tirreno e l'Adriatico, il versante Ovest con il versante Est del paese. Garantendo una vicinanza sociale fino a quel momento impossibile a causa dell'Appennino e delle difficoltà ad attraversarlo. Si chiama Autostrada dei Parchi, ma all'inizio era chiamata più correttamente Autostrada dei Due Mari. Negli ultimi anni è stata confermata l'utilità collettiva di questa infrastruttura. Durante il terremoto dell'Aquila del 2009 e quello di Amatrice del 2016 l'arteria autostradale è rimasta sempre aperta, nonostante i danni provocati dal sisma, e ha rappresentato il collegamento che ha permesso l'arrivo rapido dei soccorsi nelle zone colpite. Oggi con l'autostrada sono sufficienti due ore per raggiungere il paese di mia madre, allora ce ne volevano sei. Si percorreva la SS4 Salaria fino a Rieti, poi la SS17 Strada dell'Appennino e Appulo Sannitica fino a Sulmona e infine la SS4 Tiberina Valeria fino a Guardiagrele. Si attraversavano zone molto belle come l'altipiano di Navelli. Un'odissea di sei ore, in buona parte per strade impervie di montagna, con il tempo non sempre favorevole. Sei ad andare e sei a tornare. In sei nella Fiat 600, omologata per cinque, e con il portapacchi pieno di valigie sul tetto. C'era anche una valigia dietro lo schienale ribaltabile posteriore che, proprio a causa dell'ingombro della valigia, non si agganciava bene e ci spingeva in avanti ad ogni frenata robusta di mio padre. La mia posizione era in piedi, dietro al sedile di guida, al quale mi sostenevo appoggiandomi con i gomiti allo schienale, provocando una paziente, ricorrente richiesta da parte di mio padre di rimuovere i gomiti dalla sua schiena. Quando ero stanco mi sedevo e si alzava mio fratello. In previsione della durata del viaggio mia madre, coadiuvata da mia nonna, preparava un ricco pranzo da consumare strada facendo. Nessun panino naturalmente, pasta al forno fredda, arricchita con ogni ben di Dio: ragù, polpette, prosciutto, uovo sodo. Abbrustolita al punto da commuovere. Ci si fermava a metà strada, si stendeva qualche plaid scozzese sul prato, a bordo carreggiata e si mangiava usando le stoviglie di un cesto da picnic. All'andata il rito era entusiastico, al ritorno molto meno. Una volta arrivati a destinazione alloggiavamo abitualmente nella casa di campagna di una delle tante cugine di mia madre e avviavamo il lungo pellegrinaggio di ospitate a pranzo dai numerosi parenti. Le case erano spartane e a volte erano assenti alcuni accessori indispensabili. In casa del fratello di mio nonno il bagno era in fase di realizzazione, per cui ci si serviva del gabbiotto dietro l'orto. Eravamo costretti ad uscire di casa per raggiungerlo, anche nelle frizzanti sere estive appenniniche. C'erano cucine a legna. Camini immancabili e bracieri in mancanza dell'impianto di riscaldamento. La casa di nostra cugina era all'altezza di quelle romane ed aveva, udite udite, le finestre in alluminio. Color bronzo, nel rispetto di una sana abitudine di campagna, che prediligeva soluzioni innovative, ma con stile un po' demodé. Anche i nomi e l'aspetto delle signore erano decisamente demodé. Gioconda, Carmela, Serafina, Vincenza, per i parenti “zà ‘Cenza”. Tutte rigorosamente con baffi e sopracciglia contigue. Tutti i parenti erano comari e compari tra loro. Eppure era bello. Sebbene fossimo una generazione di bambini abituata a passare il tempo per strada a giocare e a muoverci, lì avevamo una condizione di ancora maggiore libertà. A contatto con la campagna, gli animali domestici, la natura e perfino la ferrovia che passava a cento metri dalla casa. Potevamo attraversare i binari senza alcun ostacolo. E il passaggio del treno, un piccolo convoglio provinciale, era un piccolo spettacolo privato. Uno dei cugini di mia madre aveva cinque figlie femmine ed era a caccia del primo maschio. Le ragazze erano di età molto vicina alla mia, tutte bellissime e tutte con nomi stravaganti. In fin dei conti il padre era il maestro del paese ed aveva attinto dalla letteratura. Così si passava dai nomi della tradizione greca a quelli rivoluzionari sudamericani e russi. Con loro ho passato delle estati bellissime, un po' innamorato e un po' alla scoperta di un meraviglioso, sconosciuto mondo contadino. Abbiamo rubato le pannocchie nei campi dei vicini per arrostirle sulla brace del camino, abbiamo fatto merenda con il pane fatto in casa, condito con olio e sale. Abbiamo mangiato coniglio alla cacciatora, gustando l'animale al quale avevo rotto le scatole tutto il pomeriggio e che per difendersi mi aveva morso il dito. Ucciso e cucinato dalla prozia per ritorsione. Ho sparato con il fucile da caccia ai cartelli stradali. Ho raccolto e mangiato i ceci freschi seduto in campagna. Ho assistito al rito della uccisione del maiale, che si è dibattuto nel momento cruciale del taglio della gola, liberandosi per morire dissanguato un minuto dopo, versando il suo sangue sulla strada fino a bagnare le ruote della macchina di papà. Secondo i miei ricordi infantili questa era la vacanza di una famiglia tipo. Non avevo nessun dubbio che anche per gli altri bambini fosse così. In attesa di tornare in città, nella periferia dove eravamo impegnati a crescere in un mondo che correva, e a imparare a socializzare secondo logiche cittadine, in assenza di spazi pubblici comuni, con l'edilizia che divorava le porzioni di verde che rimanevano. Una via Gluck anche a Roma.
Mauro Bufano
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