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Autore: Stefano Micheletti
Le apparenze ingannano
Giallo
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Le apparenze ingannano
Le tracce dei soldi.

Erano le cinque di una domenica mattina quando Luciano sgattaiolò fuori dalle lenzuola senza farsi sentire dalla moglie e prima che la sveglia, impostata alle cinque e dieci, risuonasse nell'appartamento straordinariamente avvolto da un silenzio quasi irreale. Luciano non stava nella pelle già dal giorno prima quando con religiosa abnegazione aveva pulito la sua Beretta Silver Hawk 471, preparato con cura le cartucce che aveva ritenuto più che sufficienti per quell'inizio stagione ed alla fine riposto tutto nell'armadio corazzato che teneva nella cantina che profumava di salumi di ogni genere appesi al soffitto, un misto di muffa e muschio che lo faceva stare bene ogni volta che vi entrava. La chiave dell'armadio sempre con lui non tanto perché fanatico della sicurezza o rispettoso delle norme che regolano la tenuta delle armi ma piuttosto per gelosia. Il suo fucile non era una semplice doppietta era molto di più, un cimelio, un ricordo, un'amante. Fu l'ultimo regalo che suo padre gli fece prima di lasciare questo mondo e probabilmente una persona qualsiasi l'avrebbe quantomeno venduta subito se non distrutta considerando che la causa della scomparsa del padre fu proprio un incidente di caccia occorsogli giusto qualche giorno dopo averla ricevuta per il suo ventitreesimo compleanno. Luciano non era quel che si dice un cacciatore appassionato, si era avvicinato all'attività venatoria perché spinto dal padre e lui partecipava volentieri soprattutto per poter trascorrere lunghe ore con un amico, prima ancora che un padre, godendosi le corse a perdifiato di Rum, un golden retriever di due anni che sprizzava energia da ogni dove. Dopo la morte del padre, quel rituale all'apertura della stagione venatoria era come riportare il suo amico in vita e ritornare indietro nel tempo. Era indescrivibile ma Luciano si sentiva morire se non riusciva nel suo rituale. Come tre anni prima quando un banale incidente di moto lo aveva costretto stare immobile con una gamba ingessata proprio una settimana prima dell'apertura della stagione, ma questa ormai è acqua passata.
Muovendosi nel buio totale come un robot che segue un percorso magnetico invisibile si infilò le ciabatte e si diresse verso il bagno dove la sera prima aveva sistemato con cura gli abiti da indossare per non rischiare di svegliare la moglie, ma soprattutto le figlie, non tanto per rispetto del riposo meritato della domenica mattina ma quanto piuttosto per il fatto che nessuna delle tre approvava questa ossessione come la definivano loro. Finalmente il rituale ebbe inizio. Camicia a quadri larghi di due tonalità di marrone, maglione anch'esso marrone con i polsini ed il girocollo verde scuro, pantaloni di un colore che potrebbe essere usato per coniare un neologismo perché si collocava equidistante tra il grigio il beige ed il verde. Infine toccava agli stivali, un modello di anfibi tipo militare che nel tardo pomeriggio avrebbe pulito ed ingrassato e poi riposto nell'armadietto che aveva la sola funzione di conservare l'abbigliamento del rituale.
Erano le cinque a tredici quando scivolò verso il piano si sotto senza produrre un minimo rumore quasi fosse un ladro professionista intento a svaligiare la più bella e ricca villetta del quartiere, si infilò in cucina, mise a scaldare un po' di latte e con il caffè preparato la sera prima fece una colazione che in realtà non si scostava da quella di tutti in giorni ma che per l'occasione riuscì a far durare ben cinque minuti di meno.
Entrò in cantina, aprì l'armadio corazzato, ed un profumo di WD40, un olio per armi, lo investì quasi lo abbracciasse. Inforcò la sua Beretta, la scatola di cartucce e la cintura e uscì di casa. Passando davanti alla cuccia di Rum quasi si mise a piangere ripensando a quando era abitata ma purtroppo da due anni era inesorabilmente vuota. Aprì il baule dell'auto, una Audi A3 grigio metallizzato che si intonava perfettamente all'alba nebbiosa che stava per sorgere. Il telecomando del cancello fece prendere vita alla luce gialla che lo sovrastava e un secondo dopo il grande mostro di sbarre metalliche incrociate tra loro quasi a tessere una tela iniziò il suo movimento in apertura. Salì a bordo ed un brivido gli percorse la schiena, forse per il concentrato di emozioni che questo rituale lo assale ogni volta o forse per quello che il termometro della temperatura esterna dell'auto gli stava indicando. Prima di mettere in moto l'auto udì se stesso implorarla
“Parti ti prego, non farmi lo scherzo di ieri.”
Al primo tentativo il quattro cilindri tedesco si mise in moto fiero di essere l'unico in tutto il vicinato a far sentire il proprio canto. Uscì dal cancello che da lì a poco si sarebbe richiuso dietro le sue spalle, o per meglio dire dietro l'Audi che non lo aveva tradito come invece aveva fatto solo il giorno prima facendogli fare sogni agitati per tutta la notte, sognando di correre a piedi fino all'officina dell'amico Gustavo che ovviamente era chiusa essendo domenica. Allora improvvisamente si ritrovò in sella ad una bicicletta mentre stava imboccando il lungo viale che porta ai cancelli della fabbrica tedesca fiducioso che almeno lì sarebbero stati in grado di aiutarlo ma soprattutto ci sarebbe stato qualcuno. Arrivato all'ingresso, si fermò davanti alla sbarra e dal gabbiotto della guardia giurata uscì un tizio con un sorriso compiaciuto che quasi gli nascondeva il resto della faccia e gli diceva
“Che cosa pensi che solo perché siamo tedeschi, lavoratori, produttori, precisi, dobbiamo stare al tuo servizio perché tu possa realizzare il tuo rituale? Ti sbagli di grosso. Tornatene a casa e rimanici.”
Si svegliò ansimando, guardò la radiosveglia che lo riportò nel mondo reale annunciandogli che erano le due e quaranta.
Accese l'autoradio e dopo aver cambiato due stazioni si fermò sul primo canale dell'emittente nazionale, rai-radiouno, che stava trasmettendo le previsioni del tempo per la giornata che stava per cominciare. Come quando alla guida c'era il padre, anche Luciano imboccò in direzione della stazione dirigendo poi verso la campagna percorrendo la strada che alla fine del suo tragitto porta fino al mare ma che avrebbe abbandonato molto prima per imboccare una laterale che pian piano avrebbe compiuto una speciale trasformazione da strada normale asfaltata a sentiero, passando da strada sterrata prima e tratturo poi, il tutto condito da quattro curve contornate da fossati da ambo i lati capaci di mettere alla prova le coronarie di chi non conoscendole le affronta con una certa spavalderia.
Quella mattina sarebbe stata una ricorrenza speciale per un rituale speciale che faceva rivivere in Luciano un turbinio di ricordi ed emozioni che avevano l'effetto di ricaricarlo emotivamente e gli faceva sentire il padre ancora presente. Già, speciale, perché non solo erano passati dieci anni da quel maledetto giorno, ma coincideva anche il giorno. Mentre la radio parlava e qualche canzone trasmessa riempiva l'abitacolo della sua Audi, Luciano non l'ascoltava, anzi non la sentiva proprio, così come il percorso su cui stava scivolando come un automa, come un aereo con il pilota automatico inserito, mentre lui ripercorreva con la mente sempre gli stessi ricordi che con sorprendente precisione e ripetitività gli riempivano mente ed anima per il decimo anno consecutivo.
Ricordi belli, di momenti felici, ma che inevitabilmente terminavano inesorabilmente con ricordi di morte. Ricordi di un fragoroso sparo che come in un codice segreto riecheggiò diverso dai soliti, diverso da tutti gli altri. Sparo che non fece seguire la solita esclamazione ad alta voce che incominciava annunciando al mondo che il cacciatore stava per manifestare la sua superiorità nei confronti della preda per trasformarsi quasi sempre senza soluzione di continuità nell'annuncio della sorpresa che questo non si avverava per concludersi con l'amarezza mista a felicità che faceva di suo padre un cacciatore che quando non riusciva a colpire le sue prede, e succedeva di frequente, era forse più contento lui che la preda stessa. A quel ricordo un brivido lungo la schiena di Luciano gli fece rizzare i peli e si rivide, come in un film mentre si avvicinava alla zona da dove provenne quello sparo senza commento, quel boato seguito dal silenzio, quell'annuncio di disgrazia. Rivide quella quindicina di metri che lo separavano dal padre, il cespuglio che si frapponeva tra loro, il piccolo fossato che poco sotto sottolineava la sua presenza facendo alzare una sottile striscia nebbiosa di vapore come fosse un velo che volesse tenere celato il suo segreto. Morte, ecco il segreto che a ridosso del fosso si sarebbe rivelato. Il padre di Luciano era riverso a terra con una gamba piegata come fanno gli atleti ai blocchi di partenza, la faccia in basso che l'erba nascondeva così da non poter carpire la smorfia che voleva rappresentare. Ricordi talmente reali che Luciano credette di aver visto il padre proprio lì, nella realtà, a meno di un metro dall'auto che stava guidando in maniera inconsapevole ma a velocità molto ridotta. Venne destato da questa sensazione ed improvvisamente tutto intorno ritornò reale, l'auto, la campagna, l'alba che sorgeva, i fossi, la strada, quel corpo....
Improvvisamente arrestò l'auto che bloccando le ruote scavò un solco sulla superficie sterrata e tutto rimase immobile, Luciano più di tutto.
“Corpo?” Pensò.
“Questa storia mi sta prendendo troppo col passare degli anni anziché affievolirsi mi coinvolge sempre più fino al punto che vedo mio padre morto sul ciglio della strada. Su dai, adesso scendi dall'auto, ti accerti che non è possibile, respiri una boccata d'aria e ti prometti che quest'anno sarà l'ultimo anno altrimenti finisci al manicomio”.
Aprì lo sportello intento di mettere in pratica il piano appena escogitato quando il terrore lo pervase. Non era impazzito, non stava divagando come credeva, non si era suggestionato oltremodo ma quello che vedeva era reale, altroché se lo era.
Riverso a bordo strada si vedeva un corpo, non sembrava molto grande. Si guardò intorno.
“O mio Dio! E ora che faccio?”
Prese il coraggio a due mani e fece tre passi verso quello che sempre di più sembrava proprio un corpo. Luciano pensò subito ad un cacciatore solitario vittima pure lui come il padre di quella passione mandato apposta lì in quel giorno da qualche entità sovrannaturale per fargli vivere quel dolore nel modo più reale possibile. Ma presto le sue supposizioni furono spazzate via dall'abito di seta blu che il corpo indossava. Era un abito da donna, da sera ed elegante ed ai piedi non vi erano scarponi adatti ad attraversare i campi ma un paio di scarpe nere con dei tacchi che forse avrebbero reso difficile camminare su un pavimento di marmo figuriamoci su un campo semi-arato.

Stefano Micheletti

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