Con la fotografia è stato amore a prima vista, sono bastati pochi click perché diventasse la mia vita. Ho intrapreso questo mestiere grazie ai miei genitori, non mi hanno trasmesso la passione per la fotografia (non sono mai stati grandi esperti in materia), ma mi hanno insegnato ad amare la vita. Il loro esempio è stato fonte di ispirazione quotidiana, mi hanno cresciuto con sani principi dimostrandomi ogni giorno quanto sia importante avere fiducia in sé stessi e credere nei propri sogni. Così, finito il liceo, ho inseguito il mio. Sono andato ben oltre le mie aspettative, ho fatto esperienze incredibili, visto posti meravigliosi, conosciuto gente di una bontà disarmante e altra di una crudeltà infinita. Insomma, ho vissuto. Non per ultimo ho lavorato per una rivista stupenda. Ho avuto tante soddisfazioni dal mio lavoro e anche qualche riconoscimento, mi ritengo un uomo fortunato. Per anni chiamarlo lavoro mi faceva un po' ridere, forse solo negli ultimi tempi l'ho vissuto davvero come tale, per quasi vent'anni è stata una pura e semplice passione, una ricompensa per la mia anima. Ho sempre pensato che fosse mio dovere documentare e divulgare informazioni tenute nascoste volontariamente o inconsapevolmente, perché la gente ha il diritto di essere informata su quello che succede nel mondo. Pensavo che divulgare informazioni scomode e far conoscere nuovi punti di vista attraverso le mie fotografie bastasse di per sé a risolvere il problema, come se fare bene il mio mestiere potesse aiutare popolazioni in guerra o paesi devastati da tragedie umanitarie. Forse sono stato ingenuo, ma c'ho creduto davvero. Dopo poco tempo la disillusione ha preso il sopravvento. Mia madre ha sempre pensato al mio lavoro come a qualcosa di socialmente utile e necessario, come se potesse salvare delle vite, evitare ulteriori disgrazie o comunque diminuirne le conseguenze. Ma lei non ha visto quello che ho visto io. Lei non ha visto quanto sia malvagio l'uomo. Io sì. Quando vedi cose del genere non ti riprendi più, non riesci più a toglierti certe immagini dagli occhi. Ancora adesso, nella notte, sento urla di donne stuprate nel corpo e nello spirito, grida di bambini mutilati costretti a farsi saltare in aria in nome di una religione, uomini ridotti in schiavitù la cui unica colpa è avere idee diverse da chi li governa. Io queste cose le ho viste e sono ancora qui, dentro ai miei occhi. Non se ne andranno mai, credo. Quando hai visto cose del genere è difficile tornare a casa e raccontare le foto che hai tra le mani. Col tempo ho imparato a farlo, non mi piacevano le parole che venivano associate alle mie fotografie, così ho cominciato a scrivere da solo i miei articoli. Ma è difficile rimanere imparziale per uno come me, ho sempre creduto nell'onestà e nell'integrità di certe scelte. Mi sono accorto ben presto di essere rimasto uno dei pochi. Jim Korby, il mio capo, nonché il direttore della sede di San Francisco, non la pensa esattamente come me. “Tu devi documentare i fatti, non dare opinioni! Quelle le lasciamo ai giornalisti, tu sei solo un fotografo che commenta le sue fotografie! Stop... niente di più...” L'azienda ha colto al volo la mia passione per la scrittura e ne ha approfittato immediatamente. In fondo conviene anche a loro, evitano di pagare qualcun altro per scrivere un articolo su qualcosa che non ha visto. Il punto è proprio questo, solo chi ha vissuto certe esperienze può raccontarle. E non bisognerebbe mai essere imparziali, soprattutto quando racconti storie senza lieto fine. Ho sempre viaggiato tantissimo, fatto migliaia di fotografie e al ritorno, nel mio studio, cercavo di confrontare gli scatti che avevo tra le mani con i ricordi che portavo nel cuore in modo da scegliere le foto migliori per i miei servizi. Quando parlo di “foto migliori” non intendo necessariamente le più belle, ma quelle che hanno un'anima, che per me dicono qualcosa di più di uno scatto perfetto nella forma. Personalmente creare un album per un servizio è il lavoro più difficile che ci sia, bisogna essere capaci di tagliare il superfluo e tenere l'essenziale. Ma non è così facile scegliere, del resto accade anche nella vita di tutti i giorni di essere più legati al superfluo che all'essenziale. Mi perdo facilmente nei dettagli, se il giornale non mi fornisse delle limitazioni temo che non riuscirei mai a fare un taglio concreto. Quello che vorrei ricreare vedendo le mie fotografie è un'immersione in uno scenario che sembra vero, vivo e tangibile. Oltre alle immagini strazianti ho sempre cercato sorrisi proprio dove non ce ne dovrebbero essere, erano delle ancore di salvezza in un mondo pieno di desolazione. Un gruppo di ragazzine che gioca con dei nastri colorati accanto alle macerie della loro casa, una bimba che guarda negli occhi la sua bambola di pezza, un bambino che calcia un pallone contro un muro crivellato di proiettili; questi sono solo alcuni degli scatti con i quali ho cercato un po' di speranza in un mondo pieno di atrocità e guerra. Non volevo nascondere le immagini di dolore e distruzione, ma credo che la pace si possa raggiungere anche mostrando momenti di banale quotidianità. La fotografia ha il grande merito di mostrarti la vita com'era davvero, la nostra memoria è sempre clemente con i ricordi, li rende meno amari di quanto fossero in realtà, tende ad addolcirli. Sono proprio certe immagini che la gente ha bisogno di vedere, non quelle che ci propinano i telegiornali per interessi economici di vario tipo, si tratta di un'informazione subdola e faziosa. È nostro dovere farci da parte singolarmente a favore della collettività, è sempre stato questo lo spirito del mio lavoro, o per lo meno io l'ho sempre fatto con questo intento. Ci sono riuscito talmente bene da mettere in secondo piano la mia vita privata. Ho visto tanti uomini fare altrettanto, medici, ingegneri, volontari di ogni genere. Ma io sono solo un fotografo, nulla più. Lo dico con enorme tristezza, perché speravo davvero di poter dare il mio contributo per cambiare un po' le cose. Ma adesso siamo alla resa dei conti, anche quest'ultima avventura è in dirittura di arrivo, finisce qui, in questo istante, con questa luce arancione nel cielo. C'è un po' di nostalgia, lo ammetto, sono passati vent'anni dal mio primo servizio in giro per il mondo. Ero giovane e forte, credevo di spaccare il mondo. Pensavo davvero di cambiarlo questo cazzo di mondo, invece col tempo ho capito che sarebbe stato lui a cambiare me. Ed è andata esattamente così. Ma ho visto così tanta crudeltà che ucciderebbe le speranze di chiunque. Vedere il male e la cattiveria degli uomini ti cambia, ti indurisce, ti rende più cinico. Ho continuato a fare il mio lavoro per amore dei miei ideali, ma fotografare non mi dà più quel brivido di un tempo, sono davvero poche le volte che provo ancora quell'emozione intensa. Dipende molto da quello che fotografi del resto, da quanto riesce ad entrare dentro di te e a spalancare delle porte. Ma dipende anche da quanto tu sei disposto ad aprirti nei confronti del mondo. Ho continuato a fare il mio lavoro per non tradire me stesso, per non tradire quella fiducia nel prossimo che mi hanno sempre insegnato i miei genitori. Devo a loro tutto quello che sono ma soprattutto quello che non sono mai stato. E non li ringrazierò mai abbastanza per questo. Oggi come allora il mio desiderio è sempre lo stesso, vorrei che le mie fotografie invitassero a condividere l'urgenza del cambiamento cui siamo di fronte. L'arte nelle sue varie forme può facilitare la comprensione di quello che sta accadendo in maniera più immediata, una foto arriva dritta al cuore, ci permette di avere un approccio empatico nel condividere idee di cambiamento. Quando ho iniziato volevo solo viaggiare e condividere le immagini di ciò che vedevo. Poi, col tempo, la prospettiva si è allargata, ho pensato che il mio lavoro potesse far cambiare opinione alla gente, aiutare le persone, invogliarle a far del bene vedendo la miseria di certi luoghi. Tutto questo solo vedendo una foto, un sogno utopistico direi. Ma lo dico oggi, a distanza di anni. Sì, è vero, ho pisciato lungo, ma c'ho creduto con tutto me stesso. Per me dietro ogni fotografia c'è sempre una storia da raccontare, un'urgenza da condividere, sento tra le mani il potere di fermare il tempo e dargli il permesso di vivere per sempre. Guardare una fotografia significa vedere un'immagine dove il tempo non è mai passato, è il fermo immagine di un momento che ci permette di rivivere un'emozione per com'era allora. Ho sempre amato la fotografia perché è creatività e tecnica allo stesso tempo, anche se considero la tecnica solamente un mezzo per esprimere al meglio quello che si vuole raccontare. Le fotografie raccontano sempre qualcosa, ci parlano un po' del fotografo e un po' del soggetto fotografato. In ogni scatto c'è sempre un po' di noi, un po' della nostra storia, un po' della nostra anima. Nelle foto ritrovi i tuoi slanci, le debolezze, le manie. Personalmente ho messo tanto di me in ogni scatto che ho fatto, ma non ho mai associato la soddisfazione che ne derivava ai commenti che ricevevo dalle mie fotografie, altrimenti avrei avuto vita breve in questo mestiere. Ho sempre fotografato per me, per il piacere di farlo e di documentare certe situazioni. Per quanto possa sembrare inverosimile, le fotografie non si fanno con la macchina, ma con il cuore. La fotografia è essenzialmente amore per le persone e per i luoghi che ci stanno a cuore. Questo sentimento così forte ti fa venire voglia di fermare il tempo con uno scatto, per timore che un giorno quell'incanto non possa esserci più. La fotografia è vedere com'eravamo e non saremo più, è la nostra storia a portata di mano. Col tempo ho scoperto che un altro aspetto che mi ha legato alla fotografia è stato il complesso rapporto che si veniva ad instaurare tra soggetto e oggetto, un ponte invisibile, diventavo lo specchio di ciò che vedevo. Una volta fatta questa scoperta è stato come aprire il vaso di Pandora, mi hanno portato avanti esigenze emotive che non potevano rimanere come pezzi di puzzle spaiati in una scatola. Rimane comunque il dubbio che quanto fatto possa essere realmente capito dall'osservatore, e questo mi pone inevitabilmente nella condizione di aver bisogno di un confronto, diretto o indiretto, con chi ne prende visione. Per questo appena ne ho l'occasione partecipo attivamente a mostre e convegni, è un modo per relazionarmi con il pubblico e vedere quanto del mio lavoro arriva a destinazione. Non cerco gratificazioni per quel che faccio, non è mai stato questo il mio obiettivo, piuttosto sensibilizzare l'osservatore e farlo riflettere. Magari farlo agire. La fotografia non è altro che una lente d'ingrandimento su ciò che quotidianamente osservo, la ricerca si fa più intima e coinvolgente a seconda del terreno che calpesta. Non mi preoccupa se esce più allo scoperto il lato emotivo del fotografo rispetto all'aspetto più giornalistico della vicenda. Non mi importa se ho rifiutato lavori ben remunerati a scapito di altri con i quali mi pagavo a malapena le spese. È un rischio che ho sempre voluto correre, perché come ha detto qualcuno più in gamba di me: “il denaro va e viene, ma la dignità, una volta persa, non torna più”.
Christian Barsi
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