La Vita è una guerra e altri racconti
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La spiaggia. Anche i passi erano silenziosi in quel locale insonorizzato con le pareti di metallo grigio e le luci azzurre. Il punto più luminoso era in fondo. Un grande schermo occupava la parete. Era diviso in tanti riquadri su cui scorrevano paesaggi, città, catastrofi naturali, scene famigliari, di lavoro, di violenza, di guerra, di coraggio, di bontà, di individui, di moltitudini, di vita... Sembravano documentari trasmessi all'unisono da una rete televisiva specializzata. In piedi, avvolto nella sua tuta bianca, con mozzetta e mascherina annesse, manovrava con sicurezza la tastiera, avviava la registrazione di quelle scene e inviava i dati al grande server posto nel locale pressurizzato e climatizzato, dietro la parete di cristallo. Lì si accedeva esclusivamente attraverso una combinazione composta sulla mappatura delle retine degli occhi dei pochi addetti che avevano il permesso e la necessità di entrarvi. Ariel era contento, ancora un quarto d'ora e sarebbe arrivato il cambio: “Quindici giorni di vacanza al mare: che pacchia! Finalmente: sono tre anni che quel negriero del capo non mi manda in ferie. Quindici giorni senza monitorare tutte queste immagini: le vite di tutti questi disgraziati, del loro mondo... che poi, a dirla tutta, non me ne importa un fico secco.” Era comunque un lavoro fisso, pensava per consolarsi, con un contratto a tempo indeterminato e in quei tempi, in quel posto, non era poco. Certo gli sarebbe piaciuto molto di più poter continuare i suoi studi di ricerca pura, ma anche qui alla Sezione Osservazionale non era male. “Ciao, Ariel, non stai più nella pelle: si vede. Finalmente sole, mare, cielo e riposo. Per due settimane niente dati, niente osservazioni, niente appunti, niente allarmi.” Rebecca si dispose silenziosamente alla sua postazione e con velocità e sicurezza prese il controllo dei monitor, del computer periferico e di quello remoto. Fece un rapido check delle funzioni e rilevò il collega. Ariel si avvicinò, le sfiorò una guancia con un bacio di gratitudine: “Ci vediamo tra un'eternità, bellezza. E bada a loro, che crescano bene e si evolvano durante la mia assenza. Ogni tanto mandagli qualche stimolo, ma non esagerare come l'altra volta...” La voce si stava già allontanando. Il rumore di una porta pressurizzata che si apre e si chiude e l'enorme ambiente rimase immerso nella sua luce azzurrina e nel brusio musicale di sottofondo...
Giosuè stava seduto sulla riva del mare. Era arrivato qualche giorno prima in quel posto bello e tranquillo. Natura amena, acqua limpida, poca gente e quasi tutta che parlava una lingua diversa dalla sua. La cosa non gli spiaceva per niente: aumentava lo straniamento dalla quotidianità, aiutava a disperdere i ricordi, le preoccupazioni e le ansie del laboratorio. Quella spiaggia era un luogo senza spazio e senza tempo, dove i viandanti si ritrovavano, prima di ripartire. Niente li univa, non avevano nulla in comune, se non il fastidio della reciproca esistenza, che metteva in discussione che quella bellezza fosse esclusivamente per ciascuno di loro. Giosuè in quell'ora in cui il sole è alto e l'acqua del mare è ferma, si godeva i profumi, il canto degli uccelli tra le chiome dei pini domestici, che crescevano altissimi su quella costa, impregnata di odore di elicriso, che sovrastava le fragranze del mirto e del gelsomino. Il rumore della risacca era impercettibile, nel cielo i voli striduli dei gabbiani. Come accadeva spesso quando il lavoro era lontano e il respiro della natura più vicino, a Giosuè capitava di pensare a questioni grandi, importanti: il senso delle cose, dell'esistenza di quel pianeta e dei suoi abitanti. Il senso: e quale era quello del volo dei gabbiani? Non pescavano sempre, non potevano perlustrare tutto il giorno il mare o essere impegnati a difendere un loro precario territorio da nemici esterni o competitori interni. Forse scopo non ce n'era, semplicemente dovevano comportarsi in quel modo. Erano fatti per comportarsi così. “Lo scopo – pensava Giosuè – è il bello: l'armonia della natura.” Così gli avevano insegnato i suoi genitori e anche a scuola il professore di filosofia parlava spesso dell'armonia dell'universo e del Creatore che tutto governava. Era consolante pensare che ci fosse un'entità superiore che provvedeva a tutti gli esseri dell'universo. Non era molto religioso e soprattutto non era praticante. Era uno scienziato, ma la speranza di vederlo un giorno, il Creatore, e di partecipare alla vita di un universo spirituale, alimentava una sua segreta aspirazione: continuare a sentire, a pensare, a essere, anche dopo la distruzione della materia che costituiva il suo corpo. Socchiuse gli occhi, si stirò leggermente sulla spiaggia nera di ferro polverizzato da antichi operai, scomparsi per sempre nel fiume del tempo. “Non tutti possono apprezzare queste cose”, si disse con una punta di orgoglio. Lentamente si alzò in piedi e camminando sicuro sulle sue gambe muscolose, dondolandosi un po', e mantenendosi in equilibrio sulla sabbia, entrò in acqua. Rabbrividendo solo un poco, perché era forte, capace di dominare le sensazioni e spesso anche le emozioni, incominciò a nuotare lentamente. Era molto coordinato, gli piaceva scivolare nell'elemento liquido senza far rumore, senza sollevare schiuma. Il respiro lo prendeva con noncuranza, come se l'aria non fosse così indispensabile, come se il confine tra esseri di terra e esseri di mare, su quel pianeta non fosse poi così netto come invece gli suggeriva la logica. “Ah, la logica”, che strumento formidabile aveva a disposizione per riflettere, per comprendere, per agire con conseguenza. Logica e sensibilità: un insieme che solo quelli più evoluti della sua specie potevano dire di aver sviluppato appieno. Un connubio che avrebbe prodotto innumerevoli nuove scoperte in ogni campo. Giosuè era felice, mentre nuotava guardando scorrere la riva con i contrasti di verde chiaro e scuro della macchia, l'azzurro profondo del cielo e il grigio dorato e scintillante della sabbia. Una serie di strilli, acuti e incomprensibili, incitamenti gridati ad alta voce in una delle lingue dei popoli del nord da un individuo grasso e sgradevole, una serie di giovani figure sulla spiaggia. Un pensiero fulmineo: “Non siamo tutti uguali. Dove vai, vai, trovi sempre qualcuno che rompe l'incanto; che non è in grado di apprezzare l'equilibrio della natura e la sua bellezza sconfinata.” Con poche vigorose bracciate fu a riva e uscì, togliendosi con gesto sicuro e un po' sdegnoso l'acqua dagli occhi. I gridolini continuavano, le risate e gli incitamenti anche. Giosuè girò di nuovo il capo. Adesso c'era anche una femmina dello stesso popolo, che ne teneva per mano una più giovane, che sembrava non voler andare verso l'acqua e faceva strani versi mentre l'altra rideva e la obbligava a camminare. “E se non vuole, lasciala stare, così la smette di gridare e non si spaventano gli uccellini...” Continuò a pensare Giosuè, mentre non riusciva a staccare lo sguardo da quelle due. A guardar meglio, la femmina più vicina al mare, non tirava l'altra, ma sembrava accompagnarla con attenzione, per aiutare i passi della giovane che erano insicuri, scoordinati ... esagerati. Dietro le due, un maschio adulto avanzava lentamente e goffamente, carponi, ciondolando la testa. Per ultimo un giovanissimo maschio si appoggiava pesantemente ad un trespolo che affondava nella sabbia, facendogli perdere ad ogni passo l'equilibrio. Giosuè capì: non erano bruti, ignoranti, incapaci di cogliere l'armonia della natura, erano quelli che la natura aveva reso inesorabilmente diversi da lui. Rimase immobile a guardare la scena: loro volevano entrare tutti in acqua e i gridolini erano di gioia insensata e i due li aiutavano a superare le loro paure con richiami e risate. Era sempre stato un maschio dominante, un carattere di tipo A, lo dicevano la psicologia e i suoi studi. Non si era mai fermato a pensare che cosa poteva succedere a chi non aveva avuto la sua fortuna genetica. Si sedette sulla spiaggia e distolse lo sguardo. Dentro di lui crebbe una grande emozione e una rabbia primordiale contro quella che gli sembrava una ingiustizia senza scusanti, un dolore grande, senza giustificazione, senza scopo. Il suo cervello, eccitato da quanto aveva visto, incominciò a funzionare rapidamente, troppo rapidamente: senza controllo. Era come se si fosse attivato un meccanismo che fino a quel momento era rimasto bloccato da qualcosa o da qualcuno. D'un tratto tutto gli apparve sotto un'altra prospettiva, come se lo vedesse per la prima volta. Il mare era una distesa d'acqua che si muoveva perché forze esterne lo obbligavano al moto ondoso e a riflettere il colore del cielo da diverse angolazioni. La vegetazione della costa un insieme di organismi vegetali che stavano compiendo il loro ciclo, gli uccellini una diversa forma di vita, la sabbia era solo minerale finemente triturato, il cielo poi era privo di colore: gas e vapori. Come nel grande laboratorio della sua Università. Si preparava un brodo di cultura con tutti gli elementi necessari, si inoculava con diverse specie di batteri e si stava a vedere come si sviluppavano e chi prendeva il sopravvento, mentre l'ambiente cresceva e si adattava alle loro esigenze e viceversa, fino ad un equilibrio accettabile. Quante lotte tra colonie aveva visto, quante specie scomparire e poi riemergere dalle ceneri stesse della loro distruzione. Un processo osservazionale per comprendere le leggi della natura e quello che regolava la loro stessa esistenza. Tutto asettico, tutto senza dolore. Ma senza dolore per chi? Per lui e per i suoi colleghi sperimentatori: ma se i batteri avessero provato angoscia, pena, sensazione di perdita, di vuoto, desiderio di immortalità, voglia di amare e di odiare? Che esperimento sarebbe stato? Una crudeltà inutile e smisurata. Improvvisamente vide la storia della sua specie: guerre, ingiustizie, conquiste, morti, lutti, carestie, fame, catastrofi, eroismi, ignoranza, scoperte, cultura: un'evoluzione lenta, dolorosa. Altri disgraziati appena diversi da loro distrutti, fatti a pezzi. Senza scopo, senza ... E capì! Un urlo gli salì in gola, alzò la testa al cielo, si picchiò, disperato, il petto e gridò con quanto fiato aveva nei polmoni: “Perché ? Perché?... Perché proprio noi?... Maledetti!” Si alzò in piedi dondolando e corse, piangendo, verso la macchia. Scintillarono al sole le scaglie verde brillante della sua schiena, mentre sollevava la sabbia con la lunga coda. Una famigliola accoccolata sulla spiaggia lo guardò stupita: non avevano mai visto un maschio dominante di dinosauro velociraptor piangere davanti a tutti. “Non guardare, Agamennone – disse la mamma – non guardare quel signore. Non è bello per un maschio piangere in pubblico.”
Radio e televisione nazionali avevano appena interrotto le trasmissioni per un comunicato del Presidente della Federazione Intercontinentale: “Figli miei, è giunta notizia dai nostri osservatori che si sta avvicinando al nostro pianeta un asteroide di dimensioni gigantesche. Nessuna delle soluzioni che sono state vagliate hanno possibilità di fermarlo. Colpirà al centro del grande oceano e provocherà immense distruzioni. Le conseguenze sul clima del nostro pianeta saranno catastrofiche”. Si fermò visibilmente turbato e con la voce rotta dal pianto, dopo una lunga pausa, aggiunse: “La nostra specie, il vertice dell'evoluzione, è purtroppo destinata a scomparire. Andate a casa e state vicini ai vostri cari. I più forti consolino i più deboli.” Il suo sguardo entrò in macchina e sembrò voler abbracciare tutti gli individui del pianeta che lo stavano ascoltando muti e terrorizzati. “Che Dio, che vive in alto oltre il cielo, abbia pietà di noi.“ Sugli schermi solo pioggia elettronica. Tutto divenne silenzio.
Nel laboratorio dalle pareti grigie e dalle luci azzurre, dove anche i passi sembravano non far rumore, Rebecca era in piedi davanti alla sua postazione di controllo con l'aria imbarazzata e gli occhi bassi. Davanti a lei il suo Capo Sezione stava alzando la voce, mentre un segnale luminoso rosso lampeggiante e uno sonoro acuto, intermittente laceravano l'aria ovattata del laboratorio internazionale di Ricerca e Sviluppo di specie progredite da studio: Sezione Osservazionale. “Tu e la tua curiosità fuori controllo. Quante volte ti ho detto che la rappresentazione del dolore e il dolore nel singolo individuo spingono i soggetti sotto osservazione ad attivare le aree che abbiamo geneticamente bloccato e ad arrivare alla consapevolezza. Così annulli l'obbiettività dell'esperimento! Quando un individuo raggiunge lo stato di consapevolezza diviene praticamente simile al suo sperimentatore. La consapevolezza, la conoscenza si diffondono come un contagio. Anche gli altri individui incominciano a comprendere di far parte di un esperimento e tutto il meccanismo della ricerca si incrina. Diventa inutile inoculare credenze religiose o tabù sociali, gli individui prendono coscienza di loro stessi e va tutto a puttane. Sono milioni e milioni di soldi pubblici che se ne vanno in fumo.” Rebecca cercò di ribattere, ma il Capo, furioso, la interruppe: “Stai zitta, piccola presuntuosa che non sei altro. No che non possiamo più recuperare la colonia: non c'è più niente da fare. Abbiamo già dovuto attivare il meccanismo di distruzione della popolazione che ti era stata affidata: un'altra volta.” La confusione di Rebecca aumentava, cercò di giustificarsi, sentiva che il suo destino professionale era segnato. “Questo è l'ultimo errore che fai. Sei licenziata, Rebecca. È la fine della tua carriera e ti sbatto anche sotto inchiesta.” Le girò la schiena e si allontanò torvo e preoccupato di dover spiegare al direttore, perché aveva assegnato proprio alla sua troppo giovane assistente quella popolazione così evoluta e già vicina alla perfezione. “Vorranno anche la mia di testa. Sono stato un imbecille a lasciar andare Ariel in ferie. Ma come potevo tenerlo lì anche quest'anno? Fottuti tagli al personale. Loro continuano a fare spending review e noi gli togliamo sempre le castagne dal fuoco. Fottuti politici, che non capiscono niente di cultura, ricerca e scienza...” E il Capo Sezione, noto per la sua imperturbabilità da scienziato, assestò un calcio ad una sedia di metallo che si rovesciò, riempiendo il laboratorio di un rumore che le pareti non poterono assorbire. Su tutti i monitor, che osservavano la colonia da esperimento, comparve una violentissima luce, seguita da un boato spaventoso: era incominciato il processo di estinzione programmata. Mentre la porta pressurizzata si richiudeva dietro le sue spalle il Capo pensò consolandosi: “Con il nuovo sistema di purificazione dalle colonie alterate, forse riusciamo a salvare il brodo di cultura: glielo dirò che potremo ricominciare nel medesimo ambiente con una nuova specie ... “Basta con i rettili – dirò alla Commissione – è tempo di provare con i mammiferi evoluti.” Dirò proprio così, lo so che saranno incuriositi. Forse il posto me lo salvo ...” Nel laboratorio alle sue spalle il segnale di allarme si spense.
Mario Nejrotti
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