Agosto 2005.
Ci sono tanti morti nella mia vita e più morto di tutti è il ragazzo che io fui. Sono le parole che agitano con ossessione i miei pensieri, mentre oggi, dopo cinque anni, torno a guidare per queste grigie e poco trafficate strade di periferia. E sicurezza assurda nulla, nulla appare cambiato in tutto questo tempo. Mi chino in avanti sul volante, abbagliata dalla luce del sole. Ecco, là alla svolta, dopo il semaforo, c'è ancora la bottega del vecchio Toni, con la sua solita insegna rossa, un po' appannata; chissà se lui e sua moglie li preparano ancora quegli arancini buonissimi, grossi come un pugno e grondanti spesse gocce d'olio ... adoravo il loro sapore, di nascosto da Meri ne prendevo furtiva sacchettini colmi i pomeriggi al ritorno da scuola ...e li mangiavo strada facendo con le dita, la bocca, che si impiastricciavano tutte d'unto. Ritorno a voi giardini ombrosi, che siete stati lo scenario dei miei giochi di ragazzina, in uno ieri a me così lontano, eppur così vicino. Due bimbetti biondi ora si stanno rincorrendo con la palla, sulla stessa erba bruciata dal sole di questo torrido pomeriggio di Agosto. Si rotolano per terra, gridano frasi confuse che non capisco. Io sono solo di passaggio in città; della mia famiglia non ho più nessuno e gli amici vecchi sono svaniti chissà dove. La solitudine della piccola stanza d'albergo stava affollandosi di ombre: perché il silenzio, se non lo contrasti, genera mostri in un rumore più assordante di mille parole. Immersa nella semioscurità, ho camminato come un animale in gabbia da un capo all'altro della stanza, per un tempo parsomi infinito. Coprendomi il viso con le mani, scivolando sul letto, ho cercato uno spiraglio di luce oltre il buio, una ragione valida per respingere la tentazione. Ho chiuso gli occhi. Ho pensato dentro di me ... che si, deve essere questo quello che chiamano l'istinto animale: l'eterna lotta per sopravvivere... All'improvviso, mentre scappavo inseguita dalle fiere, e sentivo alitare sul collo il loro respiro bruciante, è riaffiorata dal passato l'immagine della signora Lucia, dolcissima come la restituisce il ricordo; era la nonna di Sara, e mi è balenato nel cuore il desiderio di rivederla. Sara, la compagna e l'amica inseparabile dei giochi d'infanzia e dell'adolescenza; Sara, con cui ho condiviso progetti, esperienze e sogni. Strano, da tanto tempo non pensavo più a lei... ma si sa, lo scorrere degli anni, unito alla nostra volontà, tende a imprigionare in sè molte parti della memoria, relegando nella nebbia le persone che più ci sono state vicine e abbiamo amato. Fermo la macchina davanti a un casermone grigio, con un pezzetto di giardino malcurato, colmo di erbacce. La strada è deserta, solo la musica bassa di una radiolina da qualche parte dietro quelle finestre dalle persiane abbassate. In fondo al vicolo s'intravede una casa giallina, con il cancelletto in ferro battuto. La mia famiglia e io vi ci trasferimmo nel Giugno del 1987, venendo da un'altra città. Mio padre viaggiava spesso a causa del suo lavoro e desiderava garantirci una vita stabile e anche riavvicinarsi alla sua famiglia d'origine. Ricordo il lungo viaggio di notte in treno con Meri e Luca, mio fratello più piccolo; le lunghe corse per il corridoio dello scompartimento con il cappellino da cowboy in mano ... rivedo papà ad aspettarci nella stazione affollata, io e Luca che gli corriamo incontro festosi saltandogli in braccio, Meri che cammina silenziosa pochi passi più indietro ... e poi la confusione degli scatoloni sparpagliati dappertutto sul patio di casa; l'andirivieni frenetico degli operai sotto il sole cocente. Io siedo sul marciapiede polveroso a giocare con dei bastoncini mentre Luca prova i pattini a rotelle nuovi, un regalo di papà. Ferma accanto ad un lampione una ragazzina con la maglietta bianca, dalle trecce scure, ci guarda in sella a una bicicletta scassata. Fa per avvicinarsi, parlare, ma Meri esce sull'uscio, e asciugandosi la fronte madida di sudore mi chiama dentro. Torno nel presente. Al citofono cerco il nome Zanardi. C'è ancora: la targa, scritta a mano in corsivo, è ormai quasi cancellata. La signora Lucia abita al terzo piano. Salgo veloce le scale. Lei apre la porta. Indossa un ampio vestito chiaro senza maniche con dei grandi fiori stampati, e porta i capelli sistemati con un fermaglio a tartaruga sulla nuca esile e candida. Resta sorpresa, subito pare non riconoscermi; poi un bel sorriso le rischiara il volto. Per un istante ad aprirmi sembra essere lei, Sara. “Doris ...ma sei proprio tu? Dio mio, quanto tempo è passato ”.Mi bacia di slancio, chiedendomi come sto. “Come sei cambiata Doris”. Mi invita a sedere in salotto, vuole a tutti i costi offrirmi una tazza di caffè. Va in cucina per prepararlo. La sento affaccendarsi in un leggero rumore di stoviglie. Finché aspetto, do un'occhiata veloce alla sua casa. Conserva intatti il calore e l'intimità che me l'hanno fatta tanto amare da ragazzina, rendendola ai miei occhi un agognato porto di pace; nell'angolo c'è la poltrona dove la signora Lucia a capo chino, con le sue mani prodigiose, cuciva le tendine che oggi ancora stanno appese alle finestre, i pomeriggi in cui io e Sara giocavamo nell'altra stanza; ci sono gli stessi antiquati, semplici mobili scuri; le stesse fotografie appese ai muri, o ben disposte in belle cornici d'argento assieme ad altri ninnoli sul tavolino. Quante volte la signora Lucia ha aperto per me il suo album dei ricordi, narrandomi come un fiume in piena episodi della sua vita. Prendo in mano una cornice: ritrae la signora Lucia radiosa il giorno del suo matrimonio, all'uscita dalla chiesa in una fitta pioggia di riso. Il marito Attilio, un uomo piccolo, coi baffi grigi e il mento affilato, è più composto, serio. La signora Lucia lo conobbe quarantenne, nel negozio dove lavorava come commessa; lui era già vedovo, con un figlio grande. Bastò poco per trovarsi:dopo neppure sei mesi erano sposati. La nascita di Giovanna, la madre di Sara, venne accolta con una gioia immensa, stranita, com'è del resto prevedibile quando dalla vita non ti aspetti più sorprese. La crebbero con più tenerezza e dedizione di quanto si possa immaginare, con la stessa cura che si può avere per un tesoro prezioso. Ancor oggi, pur a distanza di tanti anni, alla signora Lucia, quando parla della figlia morta, si inumidiscono le ciglia e tremano le labbra. Altre foto riprendono Giovanna in diverse tappe della vita: piccina, adagiata su una coperta su un prato erboso, mentre batte le mani sorridendo all'obiettivo e cerca di alzarsi per fare qualche timido passo; ragazzina, al mare in mezzo alle onde con i genitori, o intenta a costruire castelli di sabbia sulla spiaggia; alla festa di laurea in compagnia di altre ragazze; e con in braccio Sara neonata, all'ospedale. Giovanna morì assieme al marito in un incidente d'auto, quando Sara era molto piccola: giochi misteriosi della vita, una medesimo destino ha voluto riunire nella morte la madre alla figlia, venti anni dopo, su una strada buia. I giorni dell'addio non erano tuttavia finiti per la signora Lucia: il marito Attilio, infatti, non seppe reggere alla perdita dell'amata figlia; una malinconia maligna prese possesso di lui prosciugandone giorno dopo giorno le forze. Una sera d'estate la signora Lucia portò Sara a prendere un gelato fuori. Lasciò il marito che leggeva il giornale in salotto, davanti al televisore acceso ... un suo rabbuffo scherzoso, l'invito a non fare troppo tardi, l'ultimo sorriso; al rientro lei lo trovò riverso sui cuscini del divano. Spense la televisione e lo scosse per svegliarlo, credendo si fosse appisolato; ma niente, non ne ebbe risposta. Ed ecco tutto. La signora Lucia è tornata, posa il vassoio con le tazzine del caffè, quelle bianche del servizio buono, con il bordo dorato, di cui è sempre stata orgogliosa. Mi racconta tutto d'un fiato degli ultimi cinque anni. Parole...parole... su chi ancora c'è e su chi se ne è andato...di quei due del quarto piano, che si sono separati a sessant' anni...una follia, commenta...lei e il suo Attilio sono stati sposati la bellezza di ventisette anni, senza mai neppure un battibecco...ma sono brutti tempi questi...brutti tempi davvero...non si sa più come stare insieme
Sabrina Corradini
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