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Autore: Viola Jo Nera
Raìkoasthrom
Fantasy
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Raìkoasthrom
I Cavalieri delle Lacrime.
Questa è la storia dei Cavalieri, Creature immortali di cui cantavano le leggende e che i miti chiamavano Raìkoasthrom, i Cavalieri delle Lacrime.
Uomini alti e possenti che vivevano nel mondo di Arèin e che solcavano i boschi della Terra di Èvon.
I canti popolari narravano della loro discesa dalle Terre Bianche dell'Immenso Nord, il loro regno lasciato dopo il tempo della Grande Pace.
Il Nord rimase deserto, abbandonato ai ghiacci che lo ricoprivano spietati. Dopo la caduta del re quelle terre vennero dimenticate. Nessuno si spingeva lì da oltre trecento anni. Ma i cantastorie, nelle locande e nelle piazze, narravano le lotte, le guerre, le rivolte e la caduta del grande re Ondalk, sovrano giusto e amato, che un giorno impazzì perché guardò nell'occhio scuro del Dragone Nero e divenne il Drakiis, il Drago delle Lacrime, l'Albino. Da lì il Nord conobbe fame e miseria e la stirpe regale si estinse. Del suo primogenito si persero le tracce.
Si narrava che fosse fuggito, codardo, pavido, vigliacco, oltre il mare, navigando l'Oceano di Perla con pochi uomini, per poi finire la sua umiliante fuga in una ancora più umiliante morte. Rapito e ucciso dai Pirati Maledetti, i quali, dopo lunghe torture, lo diedero in pasto ai Lupi Marini. Al tempo di questa storia nessuno ricordava più il suo nome. Era stato bandito da ogni canto tramandato ai posteri. Marchiato a fuoco, nelle leggende di Èvon, come vile codardo.
L'amata sposa di Ondalk, invece, regina buona e caritatevole, fu rapita e resa immortale da una stregoneria e ora giaceva nel letto del tremendo Uzokt, nella fortezza nera di Tanas. Prigioniera. Le storie raccontavano della sua bellezza. Alta, coi capelli colore dell'ebano, gli occhi taglienti tinti di cobalto e la pelle colore dell'ambra. Veniva dalle Terre Azzurre. Il re l'aveva voluta in sposa quando aveva stretto l'alleanza con il Regno delle Rose. L'allora sovrano aveva concesso la sua unica figlia, lieta anch'ella di sposare un uomo così bello e buono, per sancire quel patto di pace e collaborazione che avrebbe unito per sempre, sotto un sacro vincolo, tutte le Terre di Èvon.
Partirono dalla Fortezza delle Rose, accompagnati dal corteo di uomini al comando di re Ondalk, una mattina dal cielo sereno, inondati da petali di rose pallide lanciati dal popolo. Era il matrimonio che tutti aspettavano. Era il giorno della gioia, in cui si celebrava la pace. Ma come tutte le ere di pace non durò. Il male si insinuò con astuzia, l'invidia ebbe la meglio. E il Nord cadde. Così cadde la pace.
E gli uomini più forti e astuti varcarono i confini, defluendo liberamente su tutte le regioni di Èvon e seguendo il loro re divenuto bestia. Questi li inondò con le sue lacrime ed essi divennero immortali e del Drakiis ripresero la bestialità. E mentre lui si assopiva al centro del Deserto essi lo adorarono, lasciando che la loro regina rimanesse nella Fortezza Nera e fosse ogni giorno avvelenata da Uzokt, il quale la corruppe e la trasformò nella la più cattiva delle sovrane mai esistite, la maledetta e immortale Elìem. Mentre loro presero a girare per le selve rapendo fanciulle.
I loro destrieri, che essi chiamavano Raìkos, erano i giganti cavalli delle Terre Bianche, con occhi che scintillavano come l'inferno. E alti al garrese più di due metri, dalla stazza possente e dal crine lucido. Coi muscoli che solcavano la pelle, delineandone tutta la struttura imponente. I Raìkos seguivano solo i loro padroni, che li usavano per incutere terrore.
Pochi uomini avevano incontrato i Raìkoasthrom sul loro cammino e quei pochi erano tornati terrorizzati e grati di aver scampato le loro ire e le loro spade taglienti. Di altri nessuno sapeva nulla, perché uccisi dalle enormi zampe di quei cavalli maledetti.
Così le popolazioni di Èvon diedero un nome al re divenuto il più grande drago mai esistito, esso si tramandò nelle leggende come il Drakiis, Drago Lacrimoso, o semplicemente l'Albino, padre di quegli uomini immortali di cui il popolo aveva paura e che erano come ombre tra i grandi boschi. Fantasmi nella mente di chiunque solcasse le prime file di alberi. Tranne di pochi, i quali erano forse dei miscredenti, o forse troppo credenti. Tra questi pochi c'era una donna, il cui nome rievocava l'astro notturno che molti in quel tempo pregavano, Luna. Ella viveva in un villaggio di nome Nesl, nelle Terre Verdi della regione di Nocturnia ed era una fervida frequentatrice del bosco che, da poco dietro la sua casa, si estendeva su tutto il monte. Quel bosco era solo un piccolissimo pezzo della Foresta di Diamante. Ella vi camminava esplorando, col suo asinello Occhiobruno e la sua docile pecorella Nuvola. Raccoglieva fiori e cantava al vento, che lì aveva un dolce suono di campanelli. Quella calma la portava nella pace, lontana dalla cattiveria degli abitanti di Nesl, i quali la additavano come l'ebete del villaggio, solo perché orfana e senza una madre che la difendesse. Sua zia Terpinia era ben lungi dal macchiare il suo buon nome per smentire, così le malelingue erano libere di circolare. E lei, da parte sua, era libera di circolare nei boschi.



Era una mattina di primavera. La rugiada della notte era disseminata qua e là, sulle foglie verdi dell'erba, sulle chiome degli alberi sparsi per il villaggio di Nesl. Piccoli ponti attraversavano le vie, passando da una sponda all'altra del fiume che lì si snodava in tanti rami, dopo essere giunto dal monte Rus, percorrendo il fitto bosco che lo copriva, la Foresta di Diamante, per poi gettarsi nel lago di Bellikon, su cui sorgeva il centro abitato.
Nesl era una cittadina che viveva di pesca e commercio. Al porto arrivavano le imbarcazioni dei centri abitati delle altre sponde del lago. Molti abitanti erano commercianti di stoffe, altri pescatori. Alcuni di loro si muovevano per i vicoli con le loro barchette, le quali avevano la poppa alta con un ricciolo all'estremità e che loro chiamavano Surme. Erano tipiche della zona. Trasportavano da un lato all'altro della città oli, farina, stoffe e pescato, dopo averli prelevati dai vascelli attraccati al porto.
La zia di Luna, Terpinia, lavorava le stoffe. Era una sarta. Spesso però si dilettava anche con lavori a maglia, a seconda delle richieste. Vendeva i suoi lavori agli abitanti del posto, ma non era ricca, aveva molta concorrenza. Così arrancava. Luna la aiutava con le commissioni. Era lei che portava abiti, mantelli, coperte ai clienti. Col suo asinello dal manto rado color del fumo e da un occhio contornato da una grossa macchia nera circolare, girava quasi ogni giorno per le vie di Nesl, attraversando ponti, incontrando gente. Tutti la conoscevano. Molti gentiluomini la salutavano alzando il cappello, come era in uso fare in quei posti quando si incontrava una signora. Altre gentildonne le sorridevano. Altri si giravano, altri ancora sorridevano sotto i baffi facendo gestacci. Lei era l'orfana, l'abbandonata. L'ingenua ragazza che andava vestita come voleva. Dalla zia si era fatta cucire - con grande riluttanza da parte di lei, la quale ormai si era arresa all'evidenza, ovvero che sua nipote doveva essere considerata non normale - un paio di pantaloni. “Sono più comodi, zia!”, aveva insistito Luna. Così i pantaloni grigi erano arrivati. Poi dal calzolaio si era fatta fare due stivali col tacco basso e alti fin su al polpaccio, anche loro color fumo. Altra bizzarria che la zia aveva concesso perché ormai arresa all'evidenza. Altre donne portavano i pantaloni a Nels, anche gli stivali, ma erano donne che lavoravano al porto, o nei campi. Terpinia avrebbe voluto un'altra storia per la nipote, se non altro per il proprio buon nome. Ma non c'era nulla da fare. Sapeva che Luna era considerata ingenua, quasi una pazza nel paese. E che a quasi trent'anni non aveva avuto alcuna proposta di matrimonio. I ragazzi la guardavano, perché bella, ma non la volevano. Nonostante i capelli lunghi e neri, sempre lucidi e puliti, gli occhioni color del fumo, la bella presenza e il bel portamento, nessuno aveva avanzato proposte. E Terpinia, da una parte, seppur aveva dovuto rinunciare al buon nome che derivava da un matrimonio, aveva visto più lungo, ovvero che la sua vecchiaia almeno non sarebbe stata in solitudine e la nipote avrebbe avuto cura di lei. Sì, perché se ne dicesse anche male, ma lei conosceva il cuore buono di Luna. E forse, proprio per quella bontà veniva additata, calunniata, sbeffeggiata.

Viola Jo Nera

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