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Autore: Michele Bussoni
L'ombra della zelkova
Narrativa Noir
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L'ombra della zelkova
Uscì dalla farmacia con quello che aveva chiesto. Il cielo era completamente limpido, un quadro perfetto, liquido. Le stelle apparivano e scomparivano alla vista distratta di Jørgen, rapite dai suoi sguardi nervosi e dal prossimarsi di luci artificiali: insegne, lampioni, fari di auto che puntavano verso l'alto perché provenienti dalla strada in salita. Come un cane randagio alla ricerca di una tana improvvisata, si avvicinava all'hotel, pronto a mordere e ringhiare per l'agognata solitudine. Polvere d'argento tra fasci dorati, avvolti da cangianti ombre nere, la notte nel giorno che sterilizzava e congelava l'apparente. La finta neve dal cielo sereno, scherzo raffinato dell'inverno: le gocce di umidità che sferzate da vento gelido si cristallizzavano, nell'aria. In un istante, in un nulla che sfugge al pensare di un qualsiasi misero essere. Vorticavano invano un baluginare stanco, tic-tac silente scandito e si posava sul tutto, sciogliendo la metamorfosi più breve. Sublime di mistero, perché perfetta e visibile. Vapore, ghiaccio, acqua. Etereo, palpabile, sfuggente: come lo spirito che cercava, da sempre. O almeno dall'ultimo pugno del padre. Copia e incolla, le pagine dei ricordi rimanevano le stesse anche se cercava di archiviare tutto, per nasconderlo, per non riaprire più le cartelle squallide del dolore, dell'abbandono, dell'affetto tradito. Inedia, torpore, paura. E poi quella rabbia ineluttabile per una normalità mai percepita, nemmeno per un misero minuto. Pochi istanti prima di arrivare nell'angolo della via dell'hotel, squillò il telefono cellulare che Jørgen teneva sempre nel taschino della camicia. Si sbottonò gli alamari del cappotto e lo prese in mano per silenziarlo, ma il freddo aveva intirizzito le dita e le aveva rese poco sensibili al tatto e gli cadde a terra: rimase integro, con lo schermo acceso rivolto verso di lui. Appariva un numero, con sotto un nome: Anja. Si piegò verso terra, con le ginocchia, tenendo i gomiti e le braccia appoggiate alle cosce mentre fissava quel telefonino vibrare e spostarsi di pochi millimetri sull'asfalto inumidito del marciapiedi. Lo coprì con il cappello, dopo esserselo tolto con la mano destra. Continuò a squillare per diversi minuti, segno di svariati tentativi. All'improvviso, scalzando il torpore che pareva lo avesse pervaso, si rimise eretto e iniziò a calpestare con il piede destro, con inaudita violenza, il cappello che conteneva il telefonino. Lo fece decine di volte, sempre più forte, gemendo e sbuffando, noncurante di essere in un luogo pubblico. Si fermò per riprendere fiato, ansimando come avesse corso per centinaia di metri a grande velocità. Appena si riprese, raccolse il cappello sgualcito e sporcato dal calpestio e lo mise in testa. Diede alcuni calci secchi ai resti sbriciolati e spezzati del telefonino per farli finire accanto ad un piccolo accumulo di neve riportata a bordo marciapiedi. Li fissò per qualche istante, poi con il piede destro spostò della neve per coprirli e nasconderli.
- Jørgen, ma che hai fatto? Sei finito sotto un camion? Il cappello sembra spiaccicato e sei tutto sudato -
- Il mio cappello? Ecco... è volato in strada, un colpo di vento. Poi è arrivato un furgone e... ho fatto una corsa per riprenderlo. Tieni, portalo nella lavanderia assieme alle tovaglie e tutto il resto, domattina, qualcosa si inventeranno per sistemarlo. Io vado a riposare, Beatrice -
- Va bene... buon riposo, allora... -
Prima di prendere la via delle scale che portavano alla sua camera, notò con la coda dell'occhio il cappotto del capo appeso all'attaccapanni comune della hall. Era un orario insolito per la sua presenza in hotel, se si considera la normale routine. Ma Jørgen sapeva che c'era un altro tipo di consuetudine, ricorrente e non legata a faccende d'affari o lavorative. Per questo, prima di rientrare nel suo alloggio, andò all'ultimo piano, dove era situata la suite ad attico con il tetto spiovente, che sapeva essere vuota in questi giorni. Come arrivò in prossimità della porta, alleggerì la sua camminata e i passi per non far sentire la sua presenza. Accostò un orecchio, senza appoggiarsi e provò ad ascoltare con attenzione rumori o conversazioni. Subito percepì qualche fruscìo, qualche mugugno indistinto, poi un sibilo costante, ma pian piano sempre meno frequente, come un respiro affannoso che si placava. E d'improvviso un pianto, scoppiato con fragore, da quel nulla che riempiva di disagio l'atmosfera. E infine parole, voci.
- Piantala immediatamente di frignare, piccola troia nera! Vuoi allarmare tutto l'hotel? Rivestiti in silenzio e tornatene da tua madre. E ringraziami che avete una casa e un sussidio. Ricordati che sono io che decido chi viene spedito via da qui. Vuoi tornare in mezzo alle fogne del tuo Paese africano del cazzo? -
Jørgen uscì dalla porta che conduceva alla scala antincendio, cercando di fare meno rumore possibile e scese fino a terra. Si nascose dietro ad un'auto parcheggiata poco distante, abbassandosi sulle ginocchia. Attese alcuni minuti: la porta si riaprì, bucando di luce il lato oscuro dell'hotel. Quasi correndo, una ragazza di colore scese a testa bassa, accompagnata dal riecheggio metallico dei gradini, un tambureggiare artificiale, freddo e cupo. Passò davanti ad una delle finestre della saletta della televisione e per un istante il suo viso fu illuminato dal riverbero della luce proveniente dall'interno: le tende erano aperte. I suoi lineamenti lasciavano intuire la giovanissima età. Poco più che una bambina. Una tredicenne divenuta già donna, senza che lo volesse. L'abiezione si manifesta con la più sconcertante delle naturalezze, in una fredda e indifferente routine. Mostra il suo volto, intriso di terrore. E il futuro precipita, in un vortice di vergogna.
- Ma... Jørgen! Sei passato poco fa! Non capisco... sei uscito dalle scale antincendio? Hai bisogno di qualcosa? -
- Come scusa? -
- Stai bene? Ti ho chiesto se hai bisogno di qualcosa... sei strano... -
- Sono strano? Beh... è quello che dicono tutti, da quando sono bambino -
- Cioè, non intendevo in quel senso... non che io pensi che tu sia... ecco... strano per dire matto... -
- Tu non sai niente di nessuno, Beatrice. Questa è la verità. Ma sei gentile con tutti, coi musicisti, col capo. Poi quello strano sarei io... preparo la sala della colazione per domattina -
- Non è necessario, Jørgen. Il tuo turno è finito, puoi andare in camera, tocca a me -
- Credo che tu sia molto meno brava di me. Domattina deve essere tutto perfetto, chiaro Beatrice? -
- Non... non alzare la voce, mi fai paura... sì lo so, sei molto meticoloso e preciso. Se hai piacere di farlo, va bene -
- Meticoloso... mi piace. Sì, mi piace! Lo voglio scritto sulla mia lapide! Qui giace il meticoloso Jørgen... -
- Sarcasmo a parte, io sono convinta che tu non sia quello che credi di essere... -
Si girò abbassando gli occhi, senza un saluto o un cenno verso Beatrice. A passo veloce andò nella sala della colazione, dopo aver acceso le luci. Sistemò alla perfezione tutti i tavoli, poi, come ogni volta da quando lo aveva portato ed appeso lì, su quella ampia e gialla parete, si mise a contemplare il quadro di Dahl.
Il mare, un liquido ansimante, laggiù: solleticato da luci caute, sottili, cangianti. Come un vibrare d'ocelli di un pavone, tra le ombre di salici che friggevano al vento, che lasciavano al destino le ultime e tenaci foglie ingiallite, rispondeva all'aurora, fine, nel suo primo accenno. Forse le risposte si trovavano laggiù, in quello sprofondo torbido e anecoico, del tutto simile alla fragile oscurità del nostro io. Ma osservarlo e basta a cosa serve? Immergersi, aprire gli occhi e percepire, dal fondo, le scintille che imperlano la superficie: questa è la salvezza dall'oscurità.
- Morten, io ho freddo, molto freddo! Ok, è bello il panorama, c'è un'aurora boreale che sta iniziando... ma qua c'è da prendersi una polmonite! -
- Il mare sembra che ti voglia catturare a volte, non trovi? Io li capisco sai, quelli che si buttano in mare, quando non ce la fanno più... non li biasimo -
- Ma mi stai ascoltando? Ho detto che voglio andare a casa, sto morendo di freddo! Lo dicevano che eri un po' schizzato... -
- Ah sì? Beh, mai come mio nonno! Lo sai cosa faceva quando mio padre aveva poco meno della mia età? Andava a pescare, poi i pesci che prendeva li inchiodava alla porta del suo garage in modo che formassero il suo nome e quando mio padre tornava da scuola, lo riempiva di botte. E lo costringeva a mangiarli, uno dopo l'altro, per giorni. Crudi. Mi raccontò che a volte avevano i vermi dentro. Finiva quasi sempre per stare male. Vomitava e vomitava e se non puliva tutto subito, erano sberle e calci nella pancia. Dimmi, Astrid... chi è più schizzato? -
- Vado a casa, Morten. Non chiedermi più di uscire con te -
- Fanculo. Vai, vai. Per te è più importante non sentire freddo per qualche minuto piuttosto che ammirare il mare, i riflessi del porto e dell'aurora, da quassù. Non vali mezza birra -
Rimase per quasi due ore accovacciato su una pietra umida e appiccicosa di quell'impasto viscido di brina e licheni che sporcava, talvolta irrimediabilmente, jeans e pantaloni di appassionati di natura e panorami, ma che ingolosiva le renne fino a spingerle a due passi dalle case, dalla cittadina. Entrare in empatia con la creazione era ristoro, aspetto incomprensibile per chi non aveva fermentato nell'anima disagi e sofferenze profonde, intrusive e feconde di dolore interiore. L'apnea non è solo fisica, pneumatica: esiste quella psichica e non porta all'asfissia, ma alla sopravvivenza dello spirito. Non è una cancellazione della realtà, ma un reset. Poter pensare che certi dolori siano normali, minimi, addirittura necessari è un caldo nido per uova preziose, quelle della rinascita. Raccolse le quattro lattine di birra che giacevano vuote a terra e le infilò nello zaino, per poi metterselo sulle spalle. Era sera ormai, scandita non dal sole, inespresso in cielo ormai da diversi giorni, ma dalla vaga sensazione di fame che percepiva. Si avviò, scuro in volto, a passo veloce verso casa. La strada, in discesa, che si infilava tra boschetti spogli e tralicci per condurre l'energia elettrica, era in buona parte non asfaltata. In meno di mezzora arrivò, sudato e ammutolito da pensieri più scuri del percorso che aveva fatto.
- Morten, non sarai stato con quei tuoi amici a bere e fumare erba? Non parli per non farmi capire che sei fatto? -
- Anche se fosse? Almeno a papà non sarebbe fregato nulla, non mi avrebbe rotto le scatole per questo. Lui si faceva gli affari suoi. Tu ti fai gli affari tuoi, con quel tuo collega basso coi riccioli e le orecchie a punta che sembra Bilbo Baggins di mezza età... l'unico che non può farsi gli affari suoi sono io, qua? -
- Ma cosa dici? Siamo solo amici... e poi cosa c'entra a chi assomiglia? -
- Tutte le volte che viene qua a cena... mi sembra di vivere in un film. Lui che finge di essere un uomo saggio e ci dà dei consigli del cavolo, tu che fingi di amarlo, ma si vede fin dal Førstevannet che ti serve solo come animale da compagnia. Cazzo mamma, prendiamoci un cane no? Almeno se scodinzola, lo fa senza ipocrisia! -
- Morten, sono giorni e giorni che provo a chiamare tuo padre e lui nemmeno risponde... cosa posso fare? La mia vita deve andare avanti. La tua vita deve andare avanti. Sei un ragazzo, hai tutto il tempo per trovare la felicità, anche fuori di qui -
- Magari è cambiato... ce l'ha con noi perché lo abbiamo scaricato, cacciato, umiliato -
- Tesoro, tu sei ancora giovane... non puoi capire cosa voglia dire vivere in mezzo a una coltre di indifferenza e paura. Ti sembra che all'apparenza vada tutto bene, non ci sono problemi di soldi, di salute... ma ti svegli tutte le sante mattine con l'angoscia di dire qualcosa che non va, di avere bisogno e avere poi il terrore di essere ignorati, lasciati da parte. Tuo padre è pazzo, Morten. Non è solo strano. Ha qualcosa di rotto dentro, non so come spiegartelo... -
- A me non ha mai fatto nulla. Mi ha raccontato quello che gli faceva il nonno! -
- Suo padre lo picchiava e lo faceva anche con la nonna. Credi che non lo sappia? Proprio per questo avevo paura di lui, quando si metteva a fare cose strane! -
- Ti ha mai picchiata? Mi ha mai picchiato? -
- No, ma ormai avevo la sensazione, negli ultimi anni, che potesse diventare violento da un momento all'altro... credimi, io ho fatto il possibile, ho sempre pensato al tuo bene e non al mio! -
- E allora tieniti Bilbo Baggins! Uno di questi giorni vado all'hotel a parlargli, visto che tu il coraggio non ce l'hai - - Non rischiare di farti seppellire dalle illusioni, Morten... -
- Come diceva quello scrittore mediocre che ho letto in biblioteca una volta? Ah, sì... il costo inimmaginabile dell'illusione è un pegno che l'anima lascia a questo mondo -

Michele Bussoni

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Erri De Luca Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
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