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Autore: Rafael Téllez Romero
Buffone e Bastardo
Romanzo Storico
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Buffone e Bastardo
Il mio cappello.

- Perbacco, vi faccio a fettine, messere! –
Ecco cosa dissi a quel nobiluccio di provincia, un giovane pretenzioso che per la prima volta metteva piede a palazzo. Misi mano allo spadino e riuscii quasi a sguainarlo per intero, non fosse stato per il mio braccio tozzo che non si estende del tutto e perché, per di più, Marcos Encinillas, il gran ciambellano, intervenne a contenere il fuoco della mia ira. Alla fine non si andò oltre un semplice gesto di sfida, e un pettegolezzo che si diffuse per tutto il palazzo: financo Sua Maestà mi interrogò al riguardo. Trattavasi, ahimè, di un rampollo dei Medina Sidonia che avevano mandato a conoscere la corte e ad istruirsi un poco presso il suo parente, il Conte Duca di Olivares. Forse non lo ricevetti con la dovuta cortesia, certo è che mi colpì sul vivo. Veniva verso di me, pavoneggiandosi con i suoi abiti nuovi, guardando ora a destra, ora a sinistra. I tratti del suo viso lo tradivano: era uno sciocco, nonostante le sue nobili origini. Avvicinandosi, mi vide da lontano e cominciò a mormorare, ridacchiando, all'orecchio del suo servo. Un fatto abituale, non per questo meno umiliante: “ridiamo del nano, e di chi, se no?”. Quando infine ci incrociammo, senza degnarsi nemmeno di salutare si chinò a strapparmi il mio magnifico cappello a tesa larga, dileggiandomi con il suo simpatico accento andaluso:
- Suvvia, togliti il cappello, che sei troppo piccolo per fare il Grande di Spagna!
Il suo servo rideva a crepapelle, da buon adulatore qual era, prendendo il cappello che gli porgeva il suo padroncino e scompigliando l'elegante pennacchio piumato. Avvezzo sono a queste celie, soprattutto da parte di quelli che ignorano le mie funzioni a palazzo. In quei momenti nella mia mente si aggiravano i motti classici dell'antica Roma, la mia medicina per le avversità. Ricordando quelle parole mi sentivo in comunione con i grandi uomini del passato, come se mi consigliassero in ogni momento. “Aequam memento rebus in arduis servare mentem”, aveva detto Orazio, ed ecco che per me era come se Orazio in persona mi sussurrasse all'orecchio: “Ricorda di mantenerti lucido nei momenti difficili”. Tanto mi bastava, di solito, ma questo nobiluccio non ne aveva ancora abbastanza, e vedendo i miei capelli ispidi, volle spettinarli con due scappellotti.
- E vedi un po' di pettinarti, oh bimbo!
Fu allora che estrassi lo spadino, e meno male che intervenne l'Encinillas! Altrimenti, chi può dire come sarebbe finita? Non so se l'avrei infilzato, perché non arrivai neanche a provarci, e badate che è ben triste non poter nemmeno impugnare uno spadino da bambino. Me lo aveva donato Sua Maestà per conferire eleganza regia al mio abbigliamento, come si conviene al mio ruolo a palazzo, a suo dire. Tutti gli uomini di rango, oltre a godere del privilegio di coprirsi il capo, erano usi portare la spada alla cintura. Lo spadino era appartenuto ai principi, potevi vederli alla loro giovane età tirare di scherma e battersi sotto lo sguardo del maestro d'armi. Invece a me non procurava altro che fastidi, e quelle poche volte che lo sguainavo non ottenevo altro che nuovi scherzi: “Ma guarda questo storpio! Guarda come si impiccia il nano con la spada!”
E proprio lì eravamo, con l'Encinillas che cercava di calmarci, con una mano alzata ad ammonire il giovane aristocratico e l'altra a bloccare il mio spadino, affinché non uscisse dal suo fodero. Agì bene l'Encinillas, nonostante il velato disprezzo che sentiamo l'uno per l'altro, e questa volta si comportò con onore nell'esercizio delle sue funzioni. Mi restituì il cappello, prese il giovane e il suo servo per la collottola dei loro abiti e se li portò via di peso, per sistemarli finalmente al loro posto, trattenendosi per non passare alle mani e mettersi così nei pasticci con Olivares. Nel frattempo li rimproverava per la loro impertinenza:
- Con i quaranta e più buffoni che abbiamo a palazzo... ve la siete presa proprio con il nano sbagliato!

All'Ufficio del Regio Sigillo.

Faceva parte della routine, Sua Maestà era un uomo metodico e abitudinario e io mi ero adattato a lui. Da molti anni, il mio compito era sempre lo stesso: ogni giorno entravo nel gabinetto del Re senza bisogno di dare spiegazioni agli uomini di guardia che comunque prestavano servizio da meno tempo di me. Una volta dentro, prendevo a riordinare fasci di carte e a controllare i documenti che Olivares e il Segretario lasciavano nello studio all'attenzione di Sua Maestà. Il Re, il quarto Filippo della casata degli Asburgo, è davvero un grand'uomo e non lo dico per complimento: gli adulatori lo chiamano “Il Re Pianeta”, ma io lo dico sinceramente. Chi lo conosce bene sa che ha un grande cuore e una vastissima conoscenza e preoccupazione per i suoi regni, anche se le male lingue lo dicono succube di Olivares. Le Sacre Scritture dicono bene: “La spada uccide tante persone, ma ne uccide più la lingua che la spada”. Abbiamo la stessa età, anzi a dire il vero gli sono maggiore di un anno, ma lui sembra più anziano di me. Gli occhi appiattiti, la sua apparente lentezza e il labbro inferiore cadente lo fanno sembrare un po' debole d'intelletto ma è solo apparenza, e il fidarsi delle apparenze è un rischio da cui i classici ci mettono in guardia. Quante ore trascorse, da bambini, Sua Maestà ed io, tra il Trivium e il Quadrivium , a studiare Ovidio, Virgilio e tutto il meglio dell'Impero Romano. I frati precettori avevano un debole per noi che, ancora piccini (io più piccino di lui, per ovvi motivi), ci sfidavamo con passione in improvvisati “certamen” di versi latini. Molti anni sono passati, eppure talvolta le vecchie abitudini ritornano e uno di noi due colpisce l'altro con una “latinata” a tradimento. Questo era uno di quei giorni.
Sua Maestà entrò a passo lento, puntuale come sempre, impassibile come sempre e si sedette sulla sua poltrona. Neanche mi salutò, sul luogo di lavoro le formalità sono superflue. Io avevo disposto sul suo scrittoio i documenti più urgenti e a quel punto, dopo che Sua Maestà mi ebbe consegnato le tre chiavi, gli volsi le spalle e in piedi sul mio sgabello mi accinsi ad aprire i tre catenacci che chiudono il forziere dei sigilli reali. Ero intento alla bisogna, quando sulla mia schiena si conficcò un ”Audentes fortuna iuvat”, lanciato certamente da Sua Maestà. Penetrò a fondo: sapevo bene a cosa alludeva il dardo, e capitava davvero a proposito. Tra le scartoffie di Olivares vi erano svariate richieste di mandati e autorizzazioni per rinforzare gli eserciti. Il Conte Duca di Olivares, il Valido, o uomo di fiducia del Re, con le sue politiche militari che volevano rinforzare le nostre frontiere e allo stesso tempo riaffermare la coesione di tutti i regni che componevano la Spagna. L'“Unione delle Armi”, come lui la definiva, sarebbe stata una ben difficile impresa giacché, pur essendo vero ciò che dice Virgilio nell'Eneide, ovvero che “la fortuna aiuta gli audaci”, quest'audacia dell'Olivares ci stava costando ben più di una fortuna. Sia il popolo minuto che i nobili erano invero stanchi delle esagerazioni del Valido. Certo è che non mi azzarderei mai a dire niente di tutto ciò al nostro signore, né a Lui né al suo uomo forte, il Valido. Insieme si facevano carico del peso dell'Impero più grande della cristianità. Io non sarei in grado di fare meglio di loro, quindi lascio agli altri le facili critiche. Adesso torno ai miei doveri di sempre: prendere il sigillo, timbrare e ancora timbrare al servizio di Sua Maestà.

L'incontro con la mia amata

Lenzuola e panni puliti, che buon profumo nello stanzino delle lavandaie! E come sono contento ogni volta che, furtivo, allertato dalla sua damigella, rispondo alla chiamata della mia signora. Come il trovatore di un'antica fiaba, vivo un amore proibito. Non potrebbe essere altrimenti, una dama di corte non potrebbe mai ammettere in pubblico di amare un essere deforme, una creatura repellente come molti mi considerano. Ella è diversa, ella mi ama, neanche io ne capisco la ragione ma mi ama. Invero, e che il cielo mi assista, il mio problema è ch'ella è maritata... Un momento! Silenzio! Una porta che sbatte! Qualcuno si avvicina. Mi nasconderò in un angolo. È difficile che mi vedano, ma a scanso di equivoci, un lenzuolo sulla testa mi farà diventare un semplice mucchio, tra i tanti, di biancheria da riordinare.
Passi leggeri e sentore di gelsomini e fiori d'arancio... è quel suo profumo d'Oriente, è la mia dama! Lascio cadere il lenzuolo che mi copre e la sorprendo lanciandomi a tradimento su di lei, che trasalisce nel sentire che le abbraccio le gambe e le do un piccolo morso delicato e affettuoso sul fianco, all'altezza che la mia modesta statura mi permette.
- Per amor di Dio, don Diego, che spavento!
- Che spavento e che contento! Venite qui, mia pecorella! – La mia mano già frugava tra le sottane.
All'improvviso mi diede uno spintone e io caddi all'indietro, su un mucchio di biancheria stropicciata.
- Don Diego! Siate cortese o me ne vado! – Aveva le gote arrossate, e dopo essersi sistemata il vestito mi lanciò un'occhiataccia aggrottando la fronte e con le braccia incrociate. Chi la capisce è bravo, altre volte mostra di apprezzare i miei slanci arditi. Mi ricomposi, raccolsi da terra il cappello e tenendolo in mano le feci una riverenza come se mi trovassi al cospetto della Regina di tutte le Spagne, quelle di qui e quelle d'oltremare, tutte illuminate dal sole di Nostro Signore.
- Perdonate l'ardore, mia dama: Eros, Venere e Cupido, attorniati da tutte le ninfe passate, presenti e future, hanno preso d'assalto il mio cuore e sto per scoppiare di passione per voi! È stato sentire il vostro delicato profumo e sentirmi trasportato nei palazzi leggendari delle terre d'Oriente. D'improvviso mi sentii un gigante con il coraggio di un leone, come l'autentico hidalgo che in verità io sono, e mi trovai addosso a voi quale lancia spagnola che si conficca sul Turco!
- Non cercate scuse, Don Diego, non sono più una bambina! Ma venite qui, furfante, che con quella parlantina che vi ritrovate conquistereste tanto le cristiane che le infedeli! – Si sedette su un umile banchetto e tese la mano, in attesa della mia. Io rapido la afferrai e mi sedetti accanto a lei: così seduti sembravamo quasi eguali.
- Non c'è altra donna che voi nella mia vita, né infedele, né cristiana, né eretica, mia bella, voi siete la Penelope di questo Ulisse, che rischia la vita per tornare da voi. Come fare per vedervi di più?
Ella sospirò con discrezione, e il sentore del suo alito, ancora più delicato del suo profumo, mi fece di nuovo perdere la testa. La mia mano, piccola e tozza, macchiata d'inchiostro, accarezzò la sua guancia candida e rosata, vi avvicinai le labbra e credetti di morire per l'estasi, perduto in cotanta dolcezza e morbidezza. Quanto era strano per me, con la mia vita grottesca e ingrata, maltrattato e disprezzato dalla nascita, ritrovarmi ora in questo Olimpo di tenerezza e gioia. Una scossa mi risvegliò da quel bel sogno e mi riportò nel purgatorio che era la mia vita.
- Devo andare, la mia damigella sta dando l'allarme!
Era vero, anch'io sentivo i fatali colpi sulla porta. Clin clin, toc toc toc, clin clin. Maledetto il mio destino di nano bastardo! Costretto a vedere in segreto la moglie di un altro.
- Non andare, rimani ancora un poco, musa mia!
- Sai bene che non posso, e quanto è crudele Marcos!
In questo aveva ragione: pur essendo sempre stata virtuosa, spesso aveva dovuto sopportare ogni sorta di brutalità per la gelosia di quello zoticone di suo marito. Stanca di quelle scenate e del suo egoismo, e di essere definita donnaccia o meretrice per anni e anni, il suo carattere e il suo vigore si erano come spenti. Ma negli ultimi tempi, e per uno strano gioco del caso, qualcosa che sembrava morto in lei aveva ricominciato a vivere. Il seme dell'amore, sopito così a lungo, stava tornando in vita nutrito dai versi che io, “il Cugino”, parente alla lontana e nano del Re, recitavo talvolta nel soleggiato salone da ricamo, davanti al consesso delle dame di corte.

Rafael Téllez Romero

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