Nella notte di Natale del 1223, San Francesco rievocò a Greccio, con l'aiuto di Giovanni Velita, signore dei luoghi, e la partecipazione di tutta la popolazione, un presepe vivente. Da quella notte la fama della città sabina si è diffusa dappertutto. Oggi sul luogo della prima sacra rappresentazione sorge un santuario, che anche San Giovanni Paolo II ha visitato il 2 gennaio 1983
Era stato un settembre molto caldo e dai mucchi di letame si alzavano i fumi della fermentazione. Le mosche, di un bel verde brillante, come inebriate, danzavano ronzando. A lato della casa, quattro pareti e il tetto di paglia, scorreva il canale di scolo dei liquami. Un bimbetto seminudo, seduto per terra, piluccava golosamente un grappolo d'uva dorata. Poco più in là una giovane donna mestava delle ossa in un secchio di rame, la lunga bollitura le avrebbe trasformate in prezioso sapone. Era accaldata per la fatica e piccole perle lucenti le scivolavano sul viso. Francesco si era fermato poco lontano e guardava in silenzio, quasi estatico. Il suo compagno, avvezzo alle stranezze del “buon padre”, come amorevolmente e con deferenza lo chiamava, aveva dato uno sguardo men che distratto alla scena e aveva approfittato della sosta per riposarsi. Solo dopo un poco si era deciso a chiedere spiegazioni. Gli occhi di Francesco rivelavano stupore e gioia: “Cosa vedi di tanto bello, padre mio?” “Lodiamo la sapienza del Creatore che, nella sua infinita bontà ha reso belle e piacevoli a vedersi tutte le creature. Guarda come splende il minuscolo corpo di quelle mosche e ascolta come è dolce e armonioso il loro ronzio.” Il fraticello, che aveva trovato il ronzio piuttosto fastidioso e salendo l'erto sentiero aveva cacciato tafani e altre bestiole con passione e fervore, si vergognò un poco e ringraziò mentalmente di non essere riuscito ad acchiapparne alcuno. “E lodiamolo anche per quel bambino che assapora il dolce frutto della vite...” Qui Francesco si arrestò, si mise in ginocchio e iniziò a piangere mentre il compagno lo guardava stupito, incapace di trovare un qualche motivo a tanta pena manifesta. “Che succede ora, padre?” “Guardavo i rigogliosi pampini e gli acini così gonfi di prezioso succo e pensavo che, se la vite avesse voce, canterebbe, esultando, la bontà di Dio.
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Ma il vino, benedetto e soave, mi ha ricordato il sacrificio di Cristo sulla croce e piango per i miei peccati...” Stava Francesco prostrato, col viso bagnato di lacrime così sincere e copiose che il buon fraticello cominciò anch'egli a piangere e sarebbero stati a lungo in quello stato se la voce poderosa di un pastore non li avesse scossi: “Che fate così desolati, i miei porci vi calpesteranno.” Difatti il piccolo esercito maleodorante stava arrivando e certo non avrebbe avuto rispetto dei due fraticelli e del loro pregare, così come poco rispettose erano state le parole del porcaro e malevolo il suo sguardo. In fretta si distolsero dalla contemplazione amorosa delle pene sofferte dal redentore e ripresero la salita. Andavano questuando fra i poveri un tozzo di pane, qualche noce rimasta dell'anno prima, un pugno di grano o due mele rinsecchite che la generosità scovava in fondo al cesto e che avrebbero trasformato in sorriso la fame di un vecchio o le lacrime di un bimbo.
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Francesco raccomandava di accettare tutto per amor di Dio e anche il dono più umile diventava prezioso. “Chi dà al povero, presta a Dio – ripeteva – e Dio restituisce centuplicato, fratelli.” Per quanto grande fosse la miseria, nessuno li lasciava partire a mani vuote. Quel giorno avevano percorso un lungo tratto di strada in aperta campagna, poi avevano attraversato il bosco. Il frate si era fatto più d'accosto a Francesco, un po' perché il passo del buon padre, dettato dalla stanchezza, era più lento e un po' perché gli era parso di sentire il minaccioso ululato dei lupi e un vago timore lo rendeva inquieto. Si fermarono a riposare nella piccola radura, accanto al ruscelletto, il pane scuro bagnato nell'acqua fresca e condito dalla preghiera parve loro delizioso. Francesco istruiva il suo compagno con l'esempio più che con le parole e la pace che provavano li saziava più di ricche vivande.
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La donna arrivò arrancando sotto il peso della legna che faticosamente aveva raccolto. Era magra e il viso scurito dal sole ricordava solo vagamente l'antica bellezza. Aveva rughe profonde scavate dagli anni e più ancora dal dolore, come solchi nella pietra dura. Forse non si sarebbe neppure fermata, assorta com'era, ma Francesco le si avvicinò e le chiese di aiutarla. Il mendicante di Dio tendeva le mani umilmente e chiedeva di poter servire. La donna cedette il pesante fardello, ma senza un sorriso, senza un cenno, stupita più che grata, per l'aiuto insperato. La vita era stata per lei un baratro ed i giorni sassi pesanti, grevi di umiliazioni e sofferenza, che avevano sepolto la speranza. Andavano in silenzio, curvi. La vecchia davanti, Francesco dietro, arrancando sotto il peso della fascina, e per ultimo il giovane col sacco della questua. L'erba alta tagliava i piedi e rendeva più difficile il cammino, poi il sole scomparve dietro nuvole scure e il venticello si fece più fiero.
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Cominciò a piovere, come fa talvolta in autunno, senza preavviso, grosse gocce sempre più fitte e presto furono bagnati fradici e dovettero fermarsi, perché andare oltre era impossibile, con la pioggia sferzante e la strada scivolosa. Ma la vecchia sembrava non accorgersi di nulla e li sollecitò con un cenno brusco della mano, perché procedessero. Obbedirono e ripresero a salire finché Francesco scivolò e cadde. I pezzi di legna ed i rami, così meticolosamente raccolti, si sparsero intorno. La vecchia si fermò stizzita, scosse il capo con rabbia e cominciò a raccoglierli, poi, stringendo il misero tesoro al petto, si rimise in cammino. Procedeva piegata dal vento e dalla fatica, ma spinta dall'orgoglio rabbioso. Fece tre passi, sotto lo sguardo commiserevole dei due fraticelli e scivolò anch'essa col viso nel fango. Francesco le fu subito accanto, in ginocchio e l'aiutò a sedersi, le passò le mani, delicatamente, come per una carezza, sulla fronte e sui capelli scarmigliati a ricomporli. Dolcemente si scusò: “Perdonami per non aver saputo aiutarti, sono un asino da poco conto...” e le sorrise.
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Rivoli scuri di melma scorrevano intorno a loro e i tuoni rumoreggiavano lontano. Anche la donna sorrise, Francesco alzò le mani al cielo e disse: “Grazie Signore per la pioggia, che disseta i campi e riempie i fiumi, e perdonaci quando la tempesta ci fa dimenticare che da qualche parte, oltre la nostra vista, tu hai posto l'arcobaleno.” Così come era cominciata la pioggia cessò e il mondo, ai raggi meridi del sole, sembrò più bello e splendente. Riprese l'allegro cicaleccio dei passeri e lontano, oltre le nubi, l'ardito volo del falco. Raggiunsero Greggio che era sera; erano attesi e il nobile Giovanni si fece loro incontro. Aveva conosciuto Francesco qualche tempo prima ed ora, che il dolore era entrato prepotentemente nella sua casa, si era rivolto con fiducia all'amico per averne consolazione e conforto. La febbre emorragica si era portata via il suo unico figlio, un pargoletto di tre mesi, bello come un cherubino dipinto, e sua moglie era impazzita.
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Alle grida di dolore e alla disperazione era seguito il gelo attonito della pazzia. Passava le giornate come tramortita, accanto al focolare, cullando e ninnando un fantolino di pezza che ella stessa aveva cucito. Così la trovò Francesco entrando nell'ampia sala illuminata dai preziosi candelabri e gli parve bella come doveva essere bella sotto la croce Maria Santissima, pur nell'immensità della sua pena. Inginocchiato accanto a lei le parlò di speranza e di rassegnazione, ma la poveretta, con lo sguardo perso nel vuoto, continuava a cantare la dolcissima ed inutile nenia. L'autunno scivolava nel gelido inverno e già tramontana aveva portato via ai rami le ultime foglie. Più volte Francesco era salito a Greggio e più volte aveva implorato l'aiuto dell'Onnipotente per quella poveretta dalla mente ottenebrata, ma sembrava che nessuna luce potesse squarciare il buio della pazzia.
Elide Ceragioli
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