Fuori dalla tela del ragno
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Il venerdì era arrivato a passo di lumaca, troppo lentamente perché la fatica degli altri giorni non avesse il tempo di sedimentarsi sulle sue belle spalle. “Oh, sono proprio stanca!” pensò Gabriella scendendo le scale e avviandosi all'uscita. L'agente di piantone la salutò con una certa deferenza e la seguì con uno sguardo ammirato, che infastidì la giovane ispettrice. L'aspettava un fine settimana libero dagli impegni e, improvvisamente, questa consapevolezza la spaventò. Si fermò nell'androne al riparo dalla calura che esalava come respiro rovente dal cemento e dall'acciaio. L'estate era al suo culmine e Gabriella anelava d'interrompere il ritmo routinario, ma serrato del lavoro e al contempo la stanchezza le toglieva entusiasmo e desiderio. Il telefono vibrò; lo prese dalla tasca e, senza guardare il numero sullo schermo, rispose d'impulso: “Pronto!” La voce di sua madre le giunse impositiva e determinata come sempre: “Gabriella, tesoorooo!” “Mamma!” sospirò la giovane aprendo la porta e tuffandosi suo malgrado fuori, nel miasma di odori e suoni. La fermata dell'autobus era a pochi metri e l'ispettrice la raggiunse correndo sull'asfalto bollente. Aveva fretta di arrivare a casa, nascondersi al riparo dal mondo e dagli obblighi della sua professione e ascoltava distratta la voce di sua madre che continuava il suo soliloquio. “...alla fine ci siamo convinti. Tuo fratello è davvero un bravo avvocato!” Gabriella la sentì ridacchiare con soddisfazione e si accorse di non aver capito a cosa si riferiva. “A far cosa?” domandò incuriosita, saltando agilmente sull'autobus semivuoto. “Ma di fare la crociera, cara... non mi stavi ascoltando? Siamo qui per questo!” rispose un po' piccata sua madre. “Qui?” domandò ancora la giovane. “Ma sì, abbiamo seguito il consiglio di tuo fratello e ci siamo regalati una crociera. Salpiamo alle 22:00 e abbiamo tempo per cenare insieme... se ti va?...” La voce di sua madre aveva assunto un tono un poco querulo, anche se si aspettava sicuramente un assenso. Gabriella strinse le labbra e si schiarì la voce prima di rispondere. Sapeva di non potersi rifiutare, non aveva avuto il tempo di preparare una valida scusa, d'inventarsi un impegno improrogabile e del resto rivedere suo padre le faceva piacere, così disse, tentando di mettere nella risposta una parvenza d'entusiasmo: “Certo! Dove ci vediamo? Sto uscendo ora dal lavoro, mi cambio d'abito e vi raggiungo.” Le parve di sentire il respiro di sollievo di sua madre, mentre scendeva dal predellino della vettura con mossa che rivelava la sua giovanile vitalità. Il tragitto non era lungo, ma la calura l'aveva dissuasa dall'idea di fare a piedi il chilometro e mezzo fino a casa sua. Continuava a percepire Genova come estranea, nonostante l'avesse scelta ella stessa per viverci, ed a sentirsi a disagio negli stretti e rumorosi vicoli. “Dev'essere l'aria di mare alla quale non sono abituata” pensò proprio mentre la signora Franchi diceva: “Siamo al porto, ovviamente, ma ci hanno indicato un bel ristorante; se ti va bene ceniamo insieme. Il babbo smania di vederti.” Gabriella percepì nelle sue parole una punta polemica. Probabilmente sua madre non l'avrebbe invitata se fosse stata sola o con le sue amiche. “Non m'importa. Non mi importa più” mormorò a se stessa scuotendo le spalle come se quel gesto bastasse a toglierle di dosso un peso decennale e fosse finalmente libera. Respirò profondamente cercando di recuperare la distanza emotiva che l'avrebbe resa più tranquilla e rispose: “Vi raggiungo fra poco. Di' al babbo di ordinare anche per me!” Chiuse la comunicazione e si accorse che stava tremando. Un tremore leggero, interno, ma continuo e disturbante. La telefonata di sua madre l'aveva stupita, aveva risposto assicurando una disponibilità e un piacere che però non provava. Anzi, ripensandoci, si pentiva di non essere stata più pronta o forse solo più sincera. Oramai era fatta. Non poteva tornare indietro ed avvolgere il tempo come fosse un gomitolo di filo. Nessuno poteva farlo, ripeté a se stessa come per scusarsi. Il portone della sua casa era un rettangolo scuro sulla facciata bianca e abbagliante; vi si tuffò con l'anelito di esserne inghiottita e nascosta. Salì le scale lentamente, godendosi la blanda frescura dell'interno. Il palazzo vetusto, aveva il pregio di tener lontano, con le sue spesse mura di mattoni, i raggi infuocati del sole. Il malessere l'aveva avvolta come un'armatura che le bloccava, a tratti il respiro. La telefonata, improvvisamente, l'aveva riportata suo malgrado ad un tempo lontano che credeva sepolto. “Basta!” intimò al suo cervello. Non incontrò nessuno, com'era logico, in quel quartiere dormitorio dove la vita sociale era pressoché nulla e la gente rientrava a casa solo per la cena. “Dovrei andarmene da qui, decisamente!” pensò entrando nel minuscolo locale nel quale le sue cose erano ammassate un po' confusamente e rispecchiavano in quel modo la sua vita. “Che storia è questa?” disse a bassa voce, ma le rispose solo il fastidioso ronzio del condizionatore. Daniela la guardava, bella e misteriosa dalla foto appesa al muro. Firenze alle sue spalle avrebbe dovuto ristorarle il cuore con la sua magnificenza. Ma Daniela era morta e Firenze lontana. Arrotolò il tappeto sul quale faceva giornalmente gli esercizi di yoga, che aveva lasciato negligentemente steso sul pavimento e si spogliò. Il sudore le colava sul corpo in piccole strie lucenti. L'acqua avrebbe lavato tutto, regalandole però la terribile consapevolezza che niente di quello che abbiamo vissuto, in fondo, ci lascia mai. “Cambierò casa. Ci porterò i mobili antichi che ho comprato dal mio amico Ottavio e la renderò accogliente e calda. Metterò radici...” Parlava con se stessa come con un'amica che non si incontra da lungo tempo, a cui poteva confidare i propositi buoni per un cambiamento, che probabilmente non avrebbe mai attuato. Distrattamente si guardò nello specchio. La perfezione del suo corpo ancora giovane e sodo, le accentuò la sensazione di tristezza che la telefonata di sua madre e la prospettiva di incontrarla le avevano scatenato. Improvvisamente ricordò una frase: - La bellezza ha bisogno di occhi che la guardino per esistere - . Forse era una massima trovata nei cioccolatini o forse era un esempio di filosofia di alto livello, comunque non c'erano occhi a guardarla e la sua ipotetica bellezza si smarriva nel nulla. Si infilò nel parallelepipedo di vetro della doccia. Era l'unico posto dove si sentiva libera di piangere, lontana da sguardi indiscreti e dai vincoli del suo ruolo di ispettrice capo, competente professionista e rigida custode dell'ordine pubblico. Le immagini prepotenti del suo passato arrivarono a raffica, travolgenti e dolorosissime, ma lei aveva imparato a lasciarle passare senza opporvisi. Lo squillo imperioso del telefono la trasse a forza dal deliquio nel quale era precipitata. Era la realtà ad arpionarla ed a riportarla al presente impegnativo, laborioso, faticoso eppure alla fin fine soddisfacente. Uscì nuda dal bagno incurante di lasciare le impronte bagnate sull'impiantito. “Marras?! Che c'è?” domandò stupita, perché l'ispettore la chiamava molto raramente e sempre in orario di servizio. “Dottoressa, mi hanno detto che è in ferie, ma non potevo aspettare una settimana... Abbiamo un cadavere piuttosto strano.” I sensi della giovane si attivarono tutti, la cappa di malinconia scivolò via e in pochi momenti ritrovò la consueta energia. “Strano in che senso?” domandò curiosa. “È strano il luogo del ritrovamento... è stato scoperto nel traghetto arrivato oggi da Genova, chiuso in una cassa nel frigorifero”, rispose subito il collega. Parlava lentamente, scandendo bene le parole e Gabriella, che non capiva come mai la interpellasse per un omicidio che probabilmente era il banale frutto del regolamento di conti fra malavitosi, si irritò e ordinò: “Dimmi qualcosa di più. Mi stai facendo arrivare tardi ad un appuntamento importante!” Marras tossì imbarazzato. “Per ora non ho altro... o almeno niente di sicuro. È arrivato col traghetto, ma non sappiamo neppure se è stato ucciso a bordo oppure se era già morto quando l'hanno portato su. Stiamo facendo ricerche tramite la capitaneria di porto genovese. Mi sembrava giusto che lo sapesse, dottoressa.” Gabriella si rabbonì. Era certa delle buone intenzioni dell'ispettore. Da quando la squadra era stata costituita lui era sempre rimasto ai margini, poco propenso a farsi coinvolgere nei casi. Era probabilmente colpa della sua natura schiva, ma lei ne intuiva le doti di tenacia e di ferrea onestà che erano tipiche della sua terra e capì che in qualche modo voleva metterla in guardia. I dissapori col suo capo erano noti a tutti nel loro ambiente ed il piccolo, segaligno ispettore l'aveva avvisata, perché non fosse messa da parte ed esclusa dal caso, soprattutto se questo era importante. Forte di queste considerazioni lo ringraziò e gli disse: “Mantienimi informata. Non preoccuparti se sono in ferie.” Chiuse la comunicazione senza aspettare che lui assentisse. Cacciò definitivamente i ricordi nella parte più buia della mente. Si asciugò rapidamente e si infilò nel corto abito, molto elegante, sofisticato e aderente. Il colletto coreano, esaltava la perfetta linea del suo collo e i piccoli fiori ricamati impreziosivano la stoffa senza appesantirla. Daniela continuava a guardarla col suo sguardo dolce e un po' enigmatico dalla foto che il tempo stava sbiadendo. “Dovrei toglierla” si disse, “mi capita di parlare con lei come se fosse ancora viva. Che stupidaggine. È morta e sepolta. Se solo potessi seppellire anche il dolore, cancellarlo, lavarlo via da me!” Parlava a voce alta, mentre si infilava i sandali e continuava a pettinarsi nervosamente i capelli che aveva sciolto e legato più volte prima di decidersi a lasciarli liberi e ribelli sulle spalle. Si specchiò con sguardo critico: era pronta ad affrontare sua madre. Prima di uscire carezzò col palmo della mano le labbra sorridenti della sua unica compagna. La carta patinata era tiepida per i raggi di sole e il contatto le fu gradevole, quasi che Daniela avesse risposto al suo bacio. Chiamò un taxi e chiuse il portoncino. Erano le 19:30 e i suoi genitori la stavano aspettando. Nel bene e nel male, era il suo destino e non vi si sarebbe sottratta. La sera tardava a scendere, colpa dell'ora legale e della calura. L'aria aveva un colore giallo cupo e odorava di spezie, olio, catrame, fumo e sudore. Si era spalmata una crema rinfrescante, ma l'effluvio di fiori che emanava dal suo corpo era sopraffatto dal miscuglio di odori che esalavano intorno a lei e dal quale le sottili pareti del taxi non la salvavano. Alle 20:00 in punto scese davanti all'elegante ristorante. Si era costretta, con uno sforzo immane, a stare calma, a controllare il respiro, perché l'emozione non trasparisse dalla sua espressione. Voleva apparire, se non entusiasta dell'incontro, almeno passabilmente serena. Si fermò sulla porta della sala e attese il maître, che l'accompagnò al tavolo. Sua madre le dava le spalle e poteva vedere la massa di capelli biondo cenere, tagliati corti sulla nuca, mentre di suo padre, che era immerso nella scelta del vino, vedeva l'ampia fronte e parte del bel volto. Pareva molto più vecchio rispetto all'anno prima, quasi sofferente, come se una pena segreta lo affliggesse. Per un momento il terribile pensiero che lui sapesse o avesse intuito quanto era accaduto la sconvolse, poi si disse che non era possibile e proseguì con passo più deciso. Era consapevole solo in parte degli sguardi degli altri clienti che l'accompagnavano mentre attraversava la sala. Si era creata come una corrente magnetica che i suoi genitori evidentemente percepirono, perché sua madre si voltò verso di lei e suo padre si alzò andandole incontro. “Gabriella! Finalmente!” le disse stringendola forte e per un momento lei sentì il battito accelerato del suo cuore sincronizzarsi col proprio. Aveva l'odore buono, fresco e familiare che ricordava e che d'impatto l'avvolse e la fece sentire a casa. “Che bello vederti. Sei splendida!” le disse allontanandola da sé e rimirandola con orgoglio. Sua madre era rimasta seduta in attesa di un suo bacio e Gabriella, sorridendo, si chinò su di lei. Era ancora piacente, nonostante avesse superato ampiamente la sessantina. Il trucco sapiente mascherava i segni del tempo sulla sua pelle, ma rimaneva la consueta piega di disapprovazione che ormai faceva parte della sua espressione e che inevitabilmente si accentuava in presenza della figlia. “Vado a rinfrescarmi. Mi accompagni cara? Tanto ad ordinare ci pensa papà”, le propose con un gesto che sollecitava la sua complicità e la giovane accettò. Sua madre era sempre così imperiosa e determinata che nessuno poteva resisterle. L'ispettrice la seguì docilmente, dopo aver lanciato uno sguardo rassegnato a suo padre. Lui la ricambiò alzando le spalle rassegnato. Nella grande toilette, lucente di specchi e cromature, sua madre si appoggiò al lavabo con mossa un po' teatrale ed esordì: “Il babbo ha avuto un problema al cuore. Ti dirà che è roba da nulla, ma io sono preoccupata, e se ci dovesse lasciare... Oddio, il più tardi possibile, ovviamente, ma insomma, la realtà andrà affrontata prima o poi. Beh, ci sono le cose legali da sistemare: la villa, lo studio, le altre proprietà... insomma sarebbero divise secondo la legge, ma... scusa, tesoro, non vorrei che tu mi fraintendessi...” fece una pausa scrutando la sua espressione di disagio, poi riprese: “Se pensi non sia il momento ne riparliamo.” Terminò la frase evitando di guardarla, aggiustandosi distrattamente le pieghe della gonna di seta. A Gabriella mancò il respiro, consapevole per la prima volta della vera natura di quell'incontro. Provò l'impulso di andarsene, ma fece uno sforzo, si trattenne e cercò di togliere durezza al tono della sua voce e rispose: “No, non è davvero il momento. Ne riparleremo magari quando tornate dalla crociera.” Uscì d'impeto e si fermò nell'antibagno. Era furibonda e nello stesso tempo avvilita. Il baratro che la separava dalla sua famiglia d'origine era ben più profondo di quanto aveva creduto. In preda ad un impulso irresistibile fece il numero di Dallolio. Lui rispose al primo squillo. “Ciao Gabriella, che sorpresa...” fece in tempo a dirle, meravigliato, prima che lei lo interrompesse. “Carlo, ho bisogno di un favore. Mi puoi chiamare fra una mezz'ora? Non importa che tu dica nulla. Devo avere una scusa per salvarmi da una situazione di merda.” Carlo non chiese spiegazioni e rispose solo che andava bene, poi chiuse la comunicazione. L'ispettrice tornò nella sala, cercando di concentrarsi solamente sulla salute di suo padre. Appena la vide lui si illuminò, le sorrise allegro e le disse: “Ho ordinato antipasto di pesce, cozze ripiene, spigola al forno, insalata mista e gelato al limone.” “Hai fatto benissimo, ti sei ricordato dei miei gusti!” gli rispose posandogli una mano sul braccio. Pareva sereno e niente affatto malato. Quasi le avesse letto nei pensieri, la rassicurò: “Non dar retta a tua madre. Si preoccupa a sproposito... Godo un'ottima salute e il mio cuore pompa come uno stantuffo.” Aveva un tono pacato e Gabriella desiderava ardentemente credergli. “Sì. La conosco. Zitto che arriva... parliamo d'altro...” gli propose stringendo con più forza il suo braccio. Il cameriere portò il vino e cominciò il rito della cena. Antipasto, qualche frase banale, primo piatto, altre frasi banali dette con la falsa parvenza di essere componenti di una famiglia normale. “Come va il lavoro? Sempre sovraccarica immagino. Dovresti fare come noi, staccare per un po'. Non avete mai le ferie, voi poliziotti?” le domandò sua madre mostrando un interesse più forte della realtà. Gabriella stava per rispondere quando la vibrazione insistente e perentoria del telefono la distrasse. “Scusate... lupus in fabula, come si suol dire.” Rispose alla chiamata a bassa voce ed a monosillabi. “Sì, certo... ma ti pare?! È troppo importante. Vengo subito.” Aveva accompagnato ogni parola con una mimica adeguata e suo padre aveva smesso di mangiare. Del resto l'ispettrice si era accorta che aveva solo piluccato il cibo e il dubbio che una volta tanto sua madre avesse detto il vero mise le radici in fondo alle sue viscere, ma era troppo desiderosa di andarsene e si scusò in modo sbrigativo. “Mi spiace... un caso impegnativo...” Sua madre bofonchiò qualcosa del tipo: “Sei indispensabile ovviamente...” Gabriella non rispose, si alzò e baciò entrambi i genitori con un lieve tocco delle labbra sulla fronte. “Ci rivedremo quando tornate dalla crociera; avremo più tempo per stare insieme!”. Lo disse guardando dritto negli occhi sua madre, era l'unica provocazione che si sentiva di potersi permettere, poi uscì. L'aria era ancora calda e la sera non aveva fermato le tante attività del porto. Salì su di un taxi e poi, una volta al sicuro nell'abitacolo, telefonò a Dallolio: “Grazie, Carlo,” gli disse, “mi hai liberato dalle grinfie di mia madre. Te ne sarò grata in eterno.” Parlava rapida, di getto, ansiosa di sentire la sua voce rassicurante. “Sempre ai tuoi ordini, capo... ma non sei in vacanza?” rispose lui ridendo e Gabriella gli replicò subito: “Dovrei, ma ti confesso che non ho programmato nulla.” “Perché non vieni qui a Torino. Passiamo un paio di giorni insieme e ti rilassi. Ho idea che tu ne abbia parecchio bisogno.” Gabriella aveva gli occhi lacrimosi, un sapore acre in bocca e la testa confusa. La proposta del collega le parve un ottimo diversivo, l'occasione per dimenticare i suoi problemi, quelli antichi e profondi dei quali non aveva parlato a nessuno e quelli che il futuro prospettava, così rispose di sì. “Prendo il primo treno. Vieni ad aspettarmi alla stazione?” “Certo! Mettiti qualcosa di comodo e togli per una volta i tacchi; ti porto al Forte di Fenestrelle . Faremo una gita fantastica!” rispose Carlo allegramente. “Grazie! Mi hai fatto ritrovare il buonumore” gli disse Gabriella chiudendo la comunicazione. L'autista del taxi si era fermato sotto la sua casa e lei gli chiese di aspettarla. Non sopportava l'idea di passare la notte da sola in quel piccolo appartamento dove le cose, prima familiari, ora le apparivano ostili. Ricordò gli occhi di Daniela! Occhi che aveva amato perdutamente e che le pareva celassero un rimprovero. Era così confusa che i sentimenti che provava la rendevano agitata e timorosa. Corse su per le scale, aprì la porta, prese la borsa da viaggio più piccola che aveva e ci infilò dentro l'essenziale. Si mise un paio di scarpe basse, inadatte al bell'abito che indossava e tornò trafelata e ansante dal tassista. La sera avanzata aveva mitigato di poco la calura e quando salì sul treno fu grata alle Ferrovie dello Stato che mantenevano il condizionamento su temperature polari. Mandò un SMS a Carlo con l'ora di arrivo e si addormentò, incurante dei rumori e delle persone che le stavano accanto nel vagone. La stanchezza aveva prevalso sulla tensione e dormì fino a Torino un sonno agitato e pieno di incubi. Si svegliò solo quando il treno entrò in stazione. Vide Carlo da lontano, l'aspettava fermo sotto la pensilina come un solitario guerriero della notte, un paladino della giustizia al quale poteva affidarsi con tranquilla sicurezza. Si salutarono con la familiarità un po' imbarazzata dei vecchi amici, che si incontrano dopo tanto tempo e che hanno bisogno di scrutarsi a lungo, prima di ritrovare le radici della loro amicizia. Non si vedevano da mesi, da quando avevano portato a termine l'ultimo complesso caso, ma stettero in silenzio per tutto il viaggio, peraltro abbastanza breve. “Ho un appartamento piccolissimo, da scapolo...” le disse lui scusandosi quando furono davanti alla palazzina. “Ti ho preparato il mio letto, io dormirò sul divano. Del resto ti fermi così poco che non vale la pena fissare una stanza in albergo.” Era a suo agio, come fosse normale averla accanto e non ci fossero barriere di ruoli. “Che bello vederti al di fuori del lavoro” le disse senza nascondere una luce compiaciuta nello sguardo. “Riposati un po'. Domattina, anzi stamattina, perché è già l'una, ti porto a fare una gita memorabile. Ti bastano 4000 gradini per scaricare la tensione?” “Penso di sì!” rispose lei ridendo. Improvvisamente si sentiva ubriaca di stanchezza ed immersa in una sorta di deliquio che le rendeva sopportabile il passato e possibile la vita nel presente.
***
Partirono alle 7:00 del mattino, dopo un breve sonno ristoratore e di nuovo fecero quasi tutto il tragitto in silenzio. Come se non ci fosse bisogno di parole fra loro e l'intesa passasse attraverso fluidi sconosciuti ed invisibili ai quali si affidavano tranquillamente. Un paio di volte Carlo indicò le montagne, riverberanti di luce e candore, nominandole con perizia da appassionato e poi considerò: “Solitamente vado a sciare... ma questo non è un buon momento, la neve giusta ci sarà fra qualche mese.” Gabriella gli rispose solo con un sorriso. Godeva di quei momenti in cui, chiusi nell'abitacolo dell'auto, aveva quasi l'impressione di viaggiare dentro una bolla che la separava dal mondo e la proteggeva dai pericoli. Peccato che fosse fragile come quelle di sapone: ne era consapevole, ma non bastò a toglierle il buonumore. Risalire la - Grande muraglia piemontese - del Forte di Fenestrelle a piedi, alternando tratti della - Scala Reale - all'aperto con rampe della - Scala Coperta - , fu più faticoso del previsto, un po' per il caldo e un po' perché entrambi conducevano una vita troppo sedentaria. Si erano aggregati ad un gruppo di turisti francesi e fecero gran parte del percorso arrancando dietro a tutti. Carlo si dimostrò sollecito e premuroso, attento alle più piccole necessità di lei e Gabriella continuò a stare sospesa in quella sorta di limbo nella quale era finita. Pranzarono con crostini ai funghi porcini, prosciutto affumicato e formaggi freschi e chiacchierarono piacevolmente di futilità, evitando accuratamente di parlare di cose troppo personali. Nessuno disturbò la loro quiete e, solo sulla strada del ritorno verso l'appartamento di Carlo, Gabriella si accorse di essersi dimenticata il cellulare nella tasca della giacca di lino che indossava la notte precedente. “Grazie per la bella gita. Ho passato una giornata splendida, non credevo di poter riassaporare momenti così piacevoli. Sei un amico e non solo un collega” gli disse evitando di guardarlo. La imbarazzava scoprire di provare una forte attrazione fisica per lui e aveva paura di non essere ricambiata. Carlo le sorrise e le disse: “Mi stupisce, cara dottoressa. Ti ho lasciata efficiente ed indomita ispettrice capo e ti ritrovo così...” Non terminò la frase. Temeva che la parola - fragile - la potesse ferire, difatti lei strinse le labbra e poi si lasciò andare ad uno sfogo tanto inaspettato quanto sincero. “Sapessi come mi sento! Attaccata su tutto. Da quando è stata costituita la SQUADRA mi sono attirata i fulmini del mio superiore. Ovviamente sapevo che la mia sarebbe stata una posizione scomoda, una spina nel fianco a molti poliziotti che non tollerano che ci sia qualcuno più bravo di loro. Certe volte, però, mi sembra troppo. Ieri, dopo l'ennesima discussione, ero tentata di sbattere la porta in faccia a quel cretino. Era quello che voleva, probabilmente, e per fortuna mi sono trattenuta in tempo. Tanto ho una settimana di ferie, mi sono detta, e vaffanculo tutto.” Era così furiosa che la voce le uscì in un singhiozzo. Carlo accelerò senza commentare. Intuiva che lei si sarebbe pentita del fiume dirompente di parole e gli avrebbe rimproverato quel momento di intimità più che se le avesse strappato un bacio. “Ho fame” gli disse non appena si fu un po' calmata e lui rispose subito: “Ho comprato vino, insalata e carne. La mia vicina mi rifornisce regolarmente di peperoni al forno, quindi abbiamo cibo a sufficienza per imbastire una cenetta coi fiocchi.” Fra loro era tornata l'allegria. Il momento doloroso era scivolato via e l'ispettrice Franchi era rientrata nella quiete sospesa al di sopra della realtà. Cenando rievocarono gli ultimi casi, i colleghi, le conoscenze comuni, quasi sfogliassero con nostalgia l'album dei ricordi. “Per un po' ho pensato che ti fossi messo con quella psicologa... la Pautasso. Mi sono sbagliata?” domandò ad un certo punto Gabriella. Carlo annuì. “L'ho pensato anch'io. Diciamo... per due o tre minuti. Continuavo a vederla con le trecce dei suoi undici anni e mi sentivo un pedofilo. Comunque si è sposata con lo psichiatra che dirige l'istituto dove lavora. Non potevo competere con lui. Bello, giovane e ricco. Un vero principe azzurro. Come resistergli?” Risero, poi lui le domandò: “Me lo hai detto perché ti piaccio?” Era diventato serio e la scrutava con attenzione. Lei soppesò le parole prima di parlare. “Sono troppo ubriaca per dirti di no e troppo sobria per dirti di sì. Cioè, mi piaci ma... ho avuto una storia. Una cosa brutta, finita male e non si può ricostruire se non si levano le macerie.” Ecco, l'aveva detto, era stata sincera, forse più di quello che avrebbe voluto. Lui la guardò a lungo e poi le mostrò le mani. Erano grandi e forti e le disse con serietà: “Quando sarà il momento potrò aiutarti a spalar via ogni cosa.” Avrebbe aspettato, ne era certa, ma il momento pareva lontano, irraggiungibile, fissato sulle stelle. Squillò il telefono e lei si alzò a cercarlo. Pochi passi fino all'attaccapanni bastarono a infrangere l'atmosfera ed a rigettare entrambi nel vortice del mondo reale, quello che avevano tenuto fuori per tutto quel magico giorno. “Marras?! Ma lo sai che ore sono? Io sono in ferie! Ah lo sai? Sì?! Allora dimmi: che vuoi?” domandò Gabriella. “Dottoressa, si tratta del morto. Quello trovato sul traghetto Genova-Olbia. Si ricorda?” Gabriella assentì e mise il viva voce, perché anche Carlo sentisse. “L'hanno ammazzato in modo strano, ma il medico legale non ci ha ancora dato il suo referto.” Marras parlava lentamente, scandendo bene le parole, quasi le incidesse sulla pietra, come fanno i sardi quando si rivolgono ai continentali. “Allora qual è la novità che mi devi comunicare? Ce la fai a dirmela prima di domani?” L'ispettore si irritò per quella sollecitazione che gli pareva inopportuna, ma continuò: “L'abbiamo identificato. Si chiama Salvatore Cangemi, il nome le dice qualcosa? Dieci anni fa ha ucciso la moglie a calci e pugni. Raptus di gelosia, come hanno sostenuto gli avvocati. La donna era incinta e il bambino è ovviamente morto con lei. È stato condannato a quindici anni ed è uscito per buona condotta un mese fa.” Gabriella scrollò le spalle e nello stesso tempo guardò Carlo come per chiedergli conferma, poi replicò: “Dove la vedi la stranezza? Non mi pare che sia il primo né l'ultimo detenuto ad essere ammazzato a breve distanza dal rilascio. Solitamente quella gente si fa più nemici che amici.” Marras si era intestardito e continuò: “Dottoressa, chiamiamolo pure sesto senso, ma qui c'è qualcosa che non mi piace. Intanto la modalità dell'omicidio, poi il biglietto...” Gabriella aggrottò la fronte e domandò: “Quale biglietto?” “Quello che l'uomo aveva appuntato sul petto con la pinzatrice, o la sparachiodi, insomma quella cosa per fissare i pezzi di legno. C'era scritto sopra - -1 - . Dà l'idea di un regolamento di conti... Lei che ne pensa?” “Stavolta come minimo ci vuole un serial-killer. Se ne ammazzano un altro fammelo sapere e torno dalle ferie.” Marras ridacchiò: “Potrebbe venire da noi. Mia moglie ha un agriturismo. Sarebbe felice di ospitarla... in questa stagione il mare è splendido.” Di nuovo l'ispettrice sorrise. “Ti ringrazio per l'invito. Sarebbe un'ottima idea, ma non è attuabile adesso. Aggiornami se hai novità.” Quando ebbe chiuso la comunicazione si voltò verso Carlo. Aveva una domanda in sospeso. Voleva chiedergli: “E io ti piaccio?” Non la fece. L'atmosfera fra loro, dopo la telefonata di Marras era cambiata. Era come se fossero rientrati nei rispettivi uffici e ruoli. Del resto era giunta l'ora dei saluti. Doveva tornare a Genova, ma perdevano tempo, quasi che avessero bisogno di stare ancora insieme per poter tollerare la separazione. Elizabeth Billinger chiamò mentre stava sorseggiando pensierosa il caffè, in balia alla ridda di sensazioni che provava. “Ti ricordi di me? Sì, vero?” domandò la psichiatra in un italiano quasi perfetto e Gabriella le rispose stupita: “Certo! Come stai?” “Veramente non molto bene. Devo sistemare alcuni affari che riguardano mio marito. Devo andare a Londra e, insomma, non vorrei farlo. Non da sola almeno. Mia madre ha problemi di salute, non se la sente di fare il viaggio e mi stavo chiedendo se tu potessi...” La giovane ispettrice non la lasciò finire e aderì con entusiasmo alla proposta: “Certo, con piacere. Del resto si tratta di restituirti un favore. Anche tu mi hai accompagnato, ricordi? Sono a Torino in questo momento. Tu quando pensi di partire?” Elizabeth scoppiò a ridere mostrando la grande gioia che provava e le rispose: “Sono all'aeroporto di Pisa, parto fra dieci minuti.” “Bene, controllo i voli da Caselle e poi ti chiamo. Ho giusto una settimana di ferie e non avevo fatto progetti particolari.” Carlo la guardava sorpreso: “Non ti facevo così... estemporanea. Ecco, non mi veniva la parola giusta. Mi sembravi molto più riflessiva.” Gabriella scrollò le spalle e gli rispose: “Anche tu mi sembravi polemico, un poco rompicoglioni, quando ti ho conosciuto, invece ti ho scoperto simpatico, sportivo... È stata una bellissima giornata ma, come ti ho già detto, sono confusa e un diversivo mi fa bene. Mi accompagni all'aeroporto?” “Sì, certamente!” le rispose guardandola con ammirazione. Stettero in silenzio per un po' di tempo, assaporando il benessere fisico che la sazietà e la frescura della stanza regalavano ai loro corpi stanchi. I circa 4000 gradini sconnessi che avevano scalato per raggiungere la vetta del forte e la lunga discesa attraverso il bosco pesavano indiscutibilmente sulle loro gambe, ma avevano ancora nella mente il panorama delle Alpi a farli sentire felici. Ad un certo punto Gabriella si riscosse e domandò un po' brutalmente: “Che pensi del morto di Marras?” “Sinceramente nulla. Probabilmente è uno dei tanti che si è meritato appieno la sorte che gli è capitata” rispose Carlo. “Sei cinico!” sentenziò lei aggrottando la bella fronte. “No, solo stanco e nauseato da questa inarrestabile violenza che ci sopraffà e, per finire, sono invidioso delle tue ferie. Preparati se non vuoi perdere il volo... Te lo dico a malincuore.” Lei si rasserenò. “Stampami la prenotazione, per favore, io mi faccio una doccia. Non vorrei portarmi via tutta la polvere raccattata oggi.” “Bene. Giuro che non guardo dal buco della serratura” scherzò goliardicamente lui e Gabriella rispose ammiccando: “Magari mi farebbe piacere.” Tornarono seri solo quando salirono in macchina per raggiungere l'aeroporto.
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Il volo fu breve. L'ispettrice restò ad occhi chiusi tutto il tempo. Rievocava ostinatamente la cima delle montagne e le fronde ombrose del bosco, il sentiero polveroso, i gradini sassosi e la frescura umida dei cunicoli che avevano percorso. Era stato un viaggio all'indietro nel tempo, in un'epoca tanto diversa dalla loro, ma altrettanto violenta e pericolosa. Nella natura umana non c'era niente di cambiato, niente di diverso, nel passato remoto avevano trovato la stessa sete di sangue e di morte e lo stesso, identico eroismo in chi provava a contrastarla. I sapori buoni della campagna e la calda amicizia di Carlo l'avevano ristorata, ma certo non sarebbero bastati a cancellare le cicatrici che aveva dentro. Erano sue, le sarebbero sempre appartenute e poteva solo fingere di ignorarle per un pochino. Gabriella incontrò Elizabeth fuori dell'aeroporto e si disse che sembrava una piacente signora di mezza età, sulla quale il tempo aveva spalmato una patina luminosa. Era raggiante. “Hi!” disse subito, “sono felice di vederti! Vieni, il taxi ci aspetta. Ho prenotato una camera accanto alla mia. Domani ti mostrerò la casa... yes... domani, mi aiuterai a decidere cosa farne. Mi sentivo così sola. Yes, sperduta.” Parlava in un italiano fluido, intercalando però parole inglesi, così in fretta che Gabriella si sentì stordita e rispose solo con un cenno d'assenso. Erano stati due giorni particolarmente impegnativi e aveva intrapreso quel viaggio d'impulso, seguendo il suo istinto. Quando fu in camera si gettò sul letto e sprofondò in un sonno senza sogni. Alle 8:00 Elizabeth le telefonò. “Cara ti disturbo? Dormivi ancora? Scusa, ma ho dato appuntamento all'editore di Albert. Ce la fai a scendere fra mezz'ora? Good! Yes! Trenta minuti. Sono nella hall.” L'ispettrice Franchi uscì dal letto a fatica. Sentiva di avere le gambe legnose, dolenti e pesantissime. “Acido lattico del cavolo” borbottò ficcandosi sotto lo scroscio d'acqua della doccia. Il suono del cellulare l'avvisò che le era arrivato un SMS. Era Carlo che le augurava - buona giornata - e bastò questo a metterla di buon'umore. Alle 8:30, puntuale, scese per incontrare l'amica che la stava aspettando. “Andiamo a far colazione. Purtroppo qui il caffè è pessimo, ma nei bar italiani si trova un buon cappuccino” le disse subito. Gabriella si lasciò guidare passivamente, incapace di opporsi alla carica d'energia che Elizabeth emanava da tutti i pori. “Ti ricordi il nostro incontro di due anni fa a casa di tuo padre?” le chiese quando furono sul taxi in direzione di Victoria Station. “Sinceramente no!” rispose la giovane. “Io sì. Mi domandasti che genere di donna poteva aver sposato Albert, il grande scrittore, l'uomo ambito da tutte. Ti risposi: una capace di annullarsi completamente. Io! Adesso che ho riacquistato la libertà e mi sono ripresa la mia vita non posso permettere che la memoria di Albert me la strappi via. Il passato può diventare la nostra prigione se non lo allontaniamo da noi. L'editore vuole trasformare la casa in un museo del quale io dovrei essere la custode. Dovrei venerare Albert da morto, così come ho fatto quando era vivo. Come dite voi? Stronzate! Mi piace la vostra lingua. È espressiva. Io non finirò i miei giorni facendo la vestale del dio Albert.” Di nuovo aveva pronunciato un profluvio di parole rabbiose, a raffica, e Gabriella la guardò con simpatia. Il passato, il suo, era scolpito nella pietra, dimenticarlo o liberarsene era impossibile, ma non lo disse. L'editore era davanti al portone dell'elegante palazzina e si precipitò ad aprire sollecitamente la portiera del taxi ed a pagare l'autista. Gabriella registrò ogni particolare quasi senza volere, per forza d'abitudine. Elizabeth fece le presentazioni formalmente, ma l'uomo lanciò solo uno sguardo distratto alla giovane ispettrice e cominciò subito un'accalorata discussione con la psichiatra. Il portiere era rimasto impettito e sussiegoso all'interno della sua guardiola, ma quando riconobbe missis Billinger si profuse in inchini e saluti, che rivelavano il grande rispetto che provava per lei. Gabriella si era tenuta in disparte e assisteva alla pantomima abbastanza divertita. Intercettò solo un paio di frasi piuttosto significative. “Ho messo tutta la posta sul tavolo del salotto. Ci sono centinaia di lettere per il povero sir Albert” disse l'uomo, ma Elizabeth rispose come se la cosa non fosse importante: “Me ne occuperò in seguito, grazie.” L'editore l'aveva guardata truce, ma senza accennare ad una protesta. Gabriella si aspettava che l'appartamento fosse desolato e polveroso come lo sono tutte le case disabitate da tempo, invece fu stupita di trovare le stanze luminose e fresche, ben areate. I mobili erano lucidi e su ogni tavolo c'erano mazzi di fiori profumati. Il portiere aveva preso alla lettera le indicazioni della signora Billinger e pareva che la casa salutasse allegra il ritorno della sua padrona. Lei invece era restata indifferente di fronte a quelle attenzioni e replicò: “Come ti ho detto molte volte, non ho intenzione di fare di questo appartamento un mausoleo alla memoria. Albert stesso non l'avrebbe voluto. L'ho messo in vendita e spero di liberarmene al più presto. Gli oggetti appartenuti a mio marito andranno all'asta e tutto il ricavato servirà a finanziare un ospedale per bambini in Africa. Questa è la mia volontà. Se vuoi puoi curare tu l'inventario e ovviamente ti lascio la prelazione su ogni cosa. Sono stata chiara?” La voce di Elizabeth era ferma, fredda e faceva supporre che non avrebbe cambiato idea. Gabriella, per la prima volta da quando era a Londra, comprese la sua lotta fra due grandi amori, quello che la morte si era portata via e quello che le era rimasto: la salute dei bambini. L'editore rispose con poche parole che dicevano chiaramente la sua disapprovazione, ma anche la rassegnazione di fronte ad una volontà tanto forte. Poi tutto procedette in modo più rapido. Elizabeth firmò delle carte, passò in rassegna le buste ordinatamente ammucchiate sul tavolo, ordinò che fossero messe dentro a delle scatole capienti, consegnò i recapiti dell'agenzia e le chiavi al portiere. Poi insieme scesero le scale: l'una col passo leggero, da donna libera, l'altra accanto a lei, ancora un po' impacciata per i muscoli indolenziti. “Che ne dici di un piccolo giro per la città prima di pranzo?” propose la psichiatra e la giovane ispettrice assentì. L'aria tiepida la rendeva allegra, disponibile a godersi la vacanza.
Elide Ceragioli
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